mercoledì 7 luglio 2021

Zig-Zag-Zan. - Marco Travaglio

 

Fra i misteri gaudiosi del nostro tempo, uno svetta su tutti: che altro devono fare i due Matteo perché si smetta di prenderli sul serio? Gli elettori, coi loro tempi, sono quasi guariti: il Cazzaro Verde due anni fa era al 40% e ora è sotto il 20 e l’Innominabile sette anni fa era al 40% e ora è al 2 (soglia minima sotto cui è difficile scendere anche volendo, a causa degli effetti indesiderati della legge Basaglia). Ma il problema non sono gli elettori: sono i politici e i giornali che sanno tutto dei due Matteo, ma devono fingere di trattarli come politici normali per consentirne l’uso da parte dei padroni. E continuano a giudicarli con i criteri della logica e della politica anche se sono estranei all’una e all’altra. Prendete la legge Zan. Il Matteo maior, omofobo ma non quanto il suo partito, non la vuole: e, fin qui, nulla di strano. Il Matteo minor, notoriamente refrattario a qualsiasi valore non monetizzabile (per 80mila dollari fa pure la cheerleader del Rinascimento Saudita), finge di volere il dl Zan, che il suo partitucolo ha contribuito a scrivere e ad approvare alla Camera. Siccome però è da tempo passato a destra, ma non osa dirlo perché lì ci sono ancor meno elettori che a sinistra disposti a votarlo, tresca con Salvini per affossare la legge. E si serve dei soliti scudi umani, tipo Scalfarotto (è gay, quindi vale doppio), per stravolgerla a 7 giorni dal voto.

Così, sia che venga bocciata sia che passi stravolta, perde il centrosinistra e vince Salvini (e lui magari fa un altro libercolo per dire che ha vinto lui). Ma, non potendolo confessare, finge di difenderla: “In Senato così com’è non ha i voti: per approvarla bisogna emendarla”. Già, ma se in Senato non ha i voti è solo perché lui ha deciso di far mancare i suoi (anzi quelli dei 18 eletti nel Pd che han voltato gabbana passando a Iv). L’alibi ricorda quello dell’Anonima Sequestri che rapisce un bambino e poi fa sapere ai genitori che, senza riscatto, il piccolo potrebbe non sopravvivere. Ma, come diceva Petrolini al disturbatore in piccionaia, “io non ce l’ho con te: ce l’ho col tuo vicino che non t’ha ancora buttato di sotto”. Il Pd continua a riunirsi con Iv. E da mesi Repubblica ci fa due palle così sul dl Zan e ora, nell’editoriale di Stefano Folli, confessa che non gliene frega nulla: ciò che conta davvero è l’Innominabile, guai se il Pd lo “tiene fuori dalla porta”; urge un “compromesso” con Salvini per evitare “massimalismi” e scongiurare “un rafforzamento del rapporto Pd-M5S”, che va superato in vista di “nuovi scenari”. Tipo una “contaminazione” col “centrodestra con cui peraltro si governa insieme”, cioè una gaia fusione Lega-FI-Pd-Iv. Il tutto sulla prima di Repubblica, unico caso al mondo di giornale di centrodestra letto da gente di centrosinistra che non se n’è ancora accorta.

ILFQ

I “contiani” fanno saltare il blitz del Clan dei Vitalizi. - Ilaria Proietti


Il blitz, o colpo gobbo, che dir si voglia, è fallito. Per il momento. Perché dopo le polemiche deflagrate per la convocazione dell’organismo del Senato chiamato a decidere sulla legittimità del taglio dei vitalizi proprio la sera della semifinale Italia-Spagna, è stato tutto rinviato al prossimo 13 luglio. “I lavori d’aula si sono protratti oltre il previsto”, minimizza il presidente del collegio dei “giudici” interni di Palazzo Madama, il forzista Luigi Vitali. A cui per tutto il giorno sono fischiate le orecchie data la gragnuola di critiche che gli è piovuta addosso. “La verità è che è scoppiato un casino, altro che aula” spiega un papavero del Pd che sceglie di non esporsi.

Ma l’attesa decisione ha fatto scoppiare una grana soprattutto in casa 5 Stelle dove per tutta la mattinata di ieri si è litigato eccome sul che fare in attesa della sentenza, poi slittata all’ultimo momento.

Perché i senatori che si iscrivono tra i contiani sono arrivati a minacciare l’arma di fine mondo: per loro il Movimento 5 Stelle deve esser pronto a uscire dalla maggioranza nel caso in cui al Senato venga confermato il ripristino dei vitalizi e per questo in giornata hanno spinto per dare alle stampe una nota ufficiale in cui si mettessero in chiaro le cose, già prima della sentenza. Per tutta risposta i grillisti hanno accolto la proposta degli emissari dell’ex premier con sospetto per usare un eufemismo: l’accusa è più o meno quella di voler usare la battaglia contro il privilegio della casta, come grimaldello per lasciar intendere che nel Movimento già comanda Giuseppe Conte e che le sue truppe sono pronte a mettere in discussione anche l’appoggio a Mario Draghi. Benvenuti al Senato, un martedì da leoni.

La guerra in corso tra Giuseppe Conte e l’Elevato fondatore manda in fibrillazione gli eletti pentastellati spaccati giusto a metà e non solo sulla faccenda dei vitalizi, ma pure sulla Rai. Una dramma familiare dove ci si guarda in cagnesco che neppure in Kramer contro Kramer, ma non è un film. Un grande macello che inizia di buon mattino a suon di messaggi whatsapp sulla chat del gruppo dove spirano venti di divorzio e intanto volano i calci negli stinchi tra veleni e sospetti reciproci. Sicché anche il che fare rispetto alla imminente sentenza sui vitalizi attesa a Palazzo Madama diventa una questione più grande.

S’ode a destra uno squillo di tromba, con i contiani che la mettono più o meno così: “Mandiamo un avviso ai naviganti forte e chiaro: non si può stare in una maggioranza che spazza via il taglio degli assegni”. A sinistra risponde uno squillo dei beppegrillisti: “Ma che c’entra la maggioranza e Draghi? Questa è una decisione che verrà assunta da un organismo giurisdizionale del Senato. Se usiamo questa minaccia preventiva finiamo per regalare ai giudici della Lega un’arma micidiale: cancelleranno il taglio invocando qualche codicillo e potranno ben dire di non essersi fatti condizionare neppure dalle nostre minacce. E così Salvini ne esce pulito pulito, al massimo tirerà le orecchie ai suoi che gli hanno disobbedito”.

Ma non è tutto perché poi affondano pure il fendente, bersaglio principale Paola Taverna. “Invece di minacciare di far saltare il governo, perché invece non si dimette chi tra noi ha poltrone nell’organo politico di Palazzo Madama ossia il Consiglio di presidenza?”. Un messaggio in bottiglia nemmeno tanto oscuro all’indirizzo della vicepresidente del Senato accusata dai fedelissimi di Beppe Mao di intelligenza con il nemico che poi sarebbe Conte.

La mattinata scivola così: dopo essersela data di santa ragione, i due fronti si sterilizzano a vicenda. Alla fine, intorno all’ora di pranzo, esce una nota comune che non scioglie il vero nodo politico. Chi decide cosa farà il Movimento nel caso in cui il Senato dovesse cancellare il taglio degli odiati vitalizi?

La questione è rinviata di una settimana. Il big bang è il 13 luglio, la stessa data in cui a Palazzo Madama ci sarà la battaglia sul ddl Zan, la legge sui diritti civili. Una giornata campale.

ILFQ

"I biocarburanti dell'Ue hanno causato la deforestazione di un'area grande come l'Olanda".

 

La stessa Commissione europea ha ammesso che il biodiesel derivato dagli oli vegetali di palma e soia inquina dalle due alle tre volte di più rispetto al diesel fossile.

Negli ultimi dieci anni, i biocarburanti voluti dall’Ue per rimpiazzare i combustibili fossili hanno causato la scomparsa di un’area totale di foresta pari alla superficie dell’Olanda e hanno emesso fino a tre volte più CO2 rispetto al diesel che hanno sostituito. Queste le conclusioni poco incoraggianti dello studio condotto da Transport & Environment (T&E), un’organizzazione attiva sui temi della mobilità sostenibile. Il documento mette in evidenza, oltre alle scelte discutibili fatte da Bruxelles, quali sono i Paesi che hanno scommesso di più sui carburanti di nuova generazione. Nel 2020, l’Italia è stata la terza produttrice europea di biodiesel, alle spalle di Spagna e Paesi Bassi, e la quarta per consumi. 

“Nel 2009 - si ricorda nello studio - è stata introdotta la direttiva Ue sulle energie rinnovabili (Red) per promuovere l’uso” delle fonti alternative a quelle fossili “nel settore dei trasporti”. La norma ha obbligato “gli Stati membri, entro il 2020, a rispettare una quota del 10% di energia rinnovabile nel consumo finale di energia dei trasporti”. Tuttavia, tali regole “hanno trascurato le salvaguardie della sostenibilità e non hanno tenuto conto dell'intero ciclo di vita delle emissioni legate alla catena di approvvigionamento del carburante e all'uso del suolo”. In altre parole, “il consumo della gran parte di biocarburanti” ha portato ad “emissioni complessive di gas serra superiori rispetto ai combustibili fossili”. 

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Ad esempio, la domanda di biodiesel dell’Ue ha richiesto la coltivazione di 1,1 milioni di ettari di palme nel sud-est asiatico e di 2,9 milioni di ettari di semi di soia in Sud America. Superfici strappate ai preziosi milioni di ettari di foresta, riconvertita alle monocolture necessarie per le produzione dei carburanti. Il documento di T&E ricorda che nel 2012 e nel 2016 la Commissione europea ha pubblicato due studi che hanno quantificato le emissioni di biocarburanti legate all'uso del suolo. In entrambe le occasioni, l’esecutivo Ue ha ammesso “che quando si prendono in considerazione le emissioni previste per il cambiamento indiretto della destinazione del suolo, tutti i biodiesel a base di olio vegetale comportano più emissioni del diesel fossile”. “Il rapporto più recente - si precisa - ha mostrato che le emissioni sono particolarmente elevate per l'olio di palma e di soia, che causano rispettivamente tre e due volte le emissioni del diesel fossile”.

“Una politica che avrebbe dovuto salvare il pianeta in realtà lo sta distruggendo”, è il commento di Laura Buffet, direttrice energetica di T&E. “Gli sforzi per sostituire i combustibili inquinanti come il diesel con i biocarburanti stanno paradossalmente aumentando le emissioni di anidride carbonica che riscaldano il pianeta”, ha concluso Buffet.

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Photo By ADPartners. Credit: commons.wikimedia.org

EUROPATODAY

martedì 6 luglio 2021

Gioca la Nazionale? E il Senato decide se deve cancellare il taglio dei vitalizi per 700 ex. L’organo di Palazzo Madama convocato alle 19. - Ilaria Proietti

 

Casta - Durante la semifinale dell’Italia.

Quella volta lì, con gli italiani incollati ai destini della Nazionale, il governo Berlusconi pensò bene di varare il decreto salva-ladri per liberare dalle patrie galere i poverelli di Tangentopoli, altro che magie alla Roberto Baggio. E così, quel lontano 13 luglio 1994, pare oggi un ricorso della storia, ché stasera – mentre l’Italia di Roberto Mancini si gioca un biglietto per la finale agli Europei – in 700 ex senatori si giocano la partita della vita: la restituzione dei vitalizi tagliati appena due anni fa e oggetto di una valanga di ricorsi accolti già in primo grado dai “giudici” interni guidati dal più berlusconiano di tutti, Giacomo Caliendo.

Ora si disputa il finale di partita di fronte all’altro forzista Luigi Vitali, che presiede la commissione di appello: ore 19, il fischio di inizio a Palazzo Madama, salvo sorprese dell’ultima ora. Perché c’è già stato un rinvio, ma l’occasione è ghiotta causa ridotta attenzione da tifo pallonaro. E pure per il pressing dell’Associazione degli ex parlamentari, che in settimana ha tirato addirittura in ballo il capo dello Stato Sergio Mattarella lamentando che al Senato e soprattutto alla Camera si fa melina sulla loro pelle e soprattutto sul loro portafogli.

“Al Senato la sentenza di primo grado della Commissione contenziosa è stata impugnata – le parole del presidente Antonello Falomi durante l’assemblea annuale dell’associazione – Non ripeto, in questa sede, il giudizio che abbiamo dato su quell’impugnativa, e sulla connessa decisione del Consiglio di garanzia (ossia l’organismo di appello, ndr), di sospendere, in attesa della conclusione del giudizio, gli effetti della sentenza di primo grado. Il dibattimento tra le parti è terminato ormai da tre mesi, ma la sentenza non è ancora intervenuta, nonostante le nostre continue sollecitazioni”. Durante l’assemblea degli ex parlamentari, Falomi ha denunciato anche “la campagna di odio e denigrazione” perpetrata ai danni dei vitaliziati. Per poi ricapitolare lo stato dei ricorsi: nonostante il piccolo dispiacere di non aver riavuto il malloppo subito all’esito della sentenza Caliendo di primo grado, al Senato la faccenda sembrava in verità mettersi benissimo. Ma poi è deflagrato il caso Formigoni con polemiche annesse: la restituzione del vitalizio ai condannati come il Celeste da parte dell’organismo presieduto da Vitali – grazie ai voti decisivi dei due giudici leghisti, che hanno fatto finire nel tritacarne Matteo Salvini – è, a suo dire, la probabile ragione dello slittamento della decisione sul taglio degli assegni, che dovrà esser decisa nella stessa sede.

“Per l’Associazione degli ex parlamentari, la sentenza che ha eliminato la revoca del vitalizio a Formigoni è ineccepibile”, ha spiegato Falomi auspicando che quei “giudici”, a dispetto delle polemiche che ne sono seguite, siano coerenti. Ossia che non pensino alle ricadute elettorali e restituiscano loro l’agognato malloppo: fatto 30, si faccia anche 31 in quel Senato dove regna Maria Elisabetta Alberti Casellati.

E alla Camera? Roberto Fico pare un osso più duro talché bisogna usare la clava. Perché, stando a Falomi, è accusato di “assistere impassibile, se non complice, a comportamenti che dovrebbe censurare e a violazioni delle regole che dovrebbe far rispettare”. Il presidente della Camera dei deputati avrebbe “lasciato correre, senza battere ciglio, dichiarazioni pubbliche di autorevolissimi esponenti parlamentari che tentavano apertamente di condizionare l’operato dei componenti degli organi di autodichia. Altrettanta inerzia vi è stata, da parte del presidente della Camera, nell’assicurare il rispetto del Regolamento di tutela giurisdizionale di fronte a un Consiglio di giurisdizione chiaramente inadempiente: a due anni e mezzo dal deposito di circa 1400 ricorsi contro il ricalcolo retroattivo con metodo contributivo dei vitalizi e degli assegni di reversibilità il Consiglio di giurisdizione non ha ancora pronunciato la sentenza di primo grado”. Ed ecco allora l’appello a Mattarella perché faccia sentire la sua voce o anche meno, basta che intervenga in favore di Lorsignori. Per i quali, quella sui vitalizi è la linea del Piave: altro che difesa di un privilegio, qui è in ballo l’onore del Parlamento. Patrioti.

ILFQ

Ddl Zan, perché la modifica proposta da Italia Viva rischia di rendere incostituzionale il testo. - *Luigi Testa


Che le fattispecie coperte dal ddl Zan possano essere affette da vaghezza, è stato detto. È stato pure detto, d’altra parte, che ogni disposizione normativa ha una sua naturale, ineliminabile, vaghezza, ma che l’ordinamento ha tutti gli “anticorpi” del caso. Il diritto non è fato di minuziose casistiche. Lo sapeva pure chi scriveva i primi codici, più di due secoli fa: “la dangereuse ambition de vouloir tout régler et tout prévoir”, la chiamavano.

Quello che ancora non era stato detto – e che ci si augurava non fosse detto, per la verità – è che per ridurre questa vaghezza, la cosa migliore sarebbe stato – indovinate cosa? – andare a eliminare l’articolo del ddl che contiene le “definizioni” delle parole chiave della normativa (come del resto fa l’art. 1 della gran parte dei testi normativi).

Così, se prima si poteva stare tranquilli – salvo posizioni ideologiche, ovvio –, ora sì che c’è da temere. Perché la (principale) modifica richiesta da Italia Viva, in realtà, rende veramente pericolosamente indeterminate le fattispecie penali previste dal ddl Zan. Rischiando, peraltro, di essere a ragione cassata di incostituzionalità dalla Consulta.

Dire – come si chiede – che sono puniti gli atti “fondati su omofobia e transfobia” è, infatti, incomparabilmente più vago di quel tuziorista elenco di definizioni che si andrebbe ad eliminare. Anche solo fermandosi ad un piano di analisi del linguaggio, “omofobia” e “transfobia” sono concetti che si definiscono per relationem, che non si definiscono autonomamente, ma che necessitano a loro volta che sia definito l’oggetto primario. Che è quello proprio che tentava di definire l’art. 1, che si vuole cancellare con colpo di spugna.

Che poi, a dirla tutta, è chiaro che a dar fastidio ai più non è mica tutto l’art. 1. L’uomo nero – absit iniuria – è uno solo: l’identità di genere. Solo che dire “cancelliamo tutto l’art. 1” fa meno brutto che dire “cancelliamo l’identità di genere” – salvo la disastrosa eterogenesi dei fini che poi ne vien fuori, come si diceva appena sopra.

Una volta che è chiaro che la proposta emendativa in commento mira in realtà a stralciare il riferimento all’identità di genere, va riconosciuto che si tratta di una proposta infelice almeno sotto tre profili: uno politico, uno giuridico in senso stretto, ed uno che forse si potrebbe definire di politica costituzionale.

Da un punto di vista politico, è almeno assai stravagante che una formazione politica, che in prima lettura alla Camera ha espresso il proprio voto favorevole per il testo di un disegno di legge, muti di parere ora che il testo è approdato alla Camera sorella. Beninteso, si tratta di una scelta che può sorprendere, ma che resta del tutto legittima: ironia della sorte, a permetterlo è proprio quel bicameralismo perfetto che la riforma Renzi aveva tentato di rottamare senza successo nel 2016.

Spostandoci su un piano più strettamente giuridico, l’obiezione che muove la proposta emendativa sembrerebbe essere, in definitiva, la mancanza di una generale condivisione del concetto di identità di genere.

Bene, qui va anzitutto chiarito che ‘identità di genere’ non è certo un concetto nuovo nel nostro ordinamento (e di cui quindi manchi una geografia definitoria): basti pensare alla legge sulla rettificazione del sesso del 1982, e alla giurisprudenza che ne è derivata, sia dalla Cassazione che dalla Corte costituzionale. Addirittura nel 2015 la Consulta parlava di un “diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” – anche quando, peraltro, non vi è una modificazione chirurgica dei caratteri sessuali (sent. 221/2015). Senza contare i vincoli che discendono per il nostro Paese dal diritto internazionale.

D’altra parte, qui va chiarito con lucidità un equivoco di fondo. È vero che la questione dell’identità di genere presenta una serie di implicazioni giuridiche non facili. Ma il ddl Zan non mira a regolare effetti, conseguenze e limiti della scelta in materia identità di genere: su questo interverranno altri strumenti legislativi. Semplicemente offre protezione giuridica a chi subisce discriminazione e violenza solo perché si percepisce (e manifesta) in maniera divergente dal sesso biologico. Una ben più modesta ambizione, tutto sommato.

E poi l’ultimo argomento. Lo stralcio dell’identità di genere dal ddl Zan ridurrebbe evidentemente il novero dei soggetti cui l’ordinamento presterebbe tutela da atti discriminatori e violenti. Una tutela che – se si potesse fare una triste classifica – forse sarebbe ancora più urgente di quella pur necessaria da prestare alle altre categorie interessate nel ddl Zan. Ebbene, uno Stato di diritto non può permettersi di negare questa forma di tutela solo perché non si è tutti d’accordo (circostanza, peraltro, tutta da verificare) sulla definizione della categoria delle vittime. È una tentazione frequente, questa, per un giurista: leggere la realtà alla luce delle sue categorie, e non piuttosto adattare le sue categorie alla realtà. Ma un legislatore che cadesse nella stessa trappola avrebbe fallito, senza mezzi termini.

(*Assistant Professor di diritto costituzionale all’Università Bocconi)

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Un altro fenomeno. - Marco Travaglio

 

Siccome non si finisce mai di imparare, ci siamo segnati alcune perle di Stefano Bonaccini, incalzato dal Corriere con domande ficcanti del tipo “Presidente Bonaccini, Emilia-Romagna caput mundi?”. 

1) “Dobbiamo ritrovare un’identità ben definita”. Parole sante, se Bonaccini non fosse affiliato a Base Riformista per Altezza Renziana, la corrente pidina che lavorò alacremente per indebolire il governo Conte in cui il Pd era protagonista e sostituirlo col governo Draghi in cui il Pd è la ruota di scorta. 

2) Conte è caduto perché “a un certo punto gli sono mancati i numeri in Parlamento”. Ma tu pensa. E chissà chi glieli ha fatti mancare: dev’essersi scordato (anche lui) come si chiama. 

3) “Io ero fortemente contrario con la linea del mio partito che diceva o Conte o morte. È stato un grave errore”. In effetti è bizzarro che, con 7 ministri su 21, il Pd appoggiasse il Conte-2 in piena pandemia, campagna vaccinale e scrittura del Pnrr. Avrebbe dovuto unirsi alle opposizioni a urlare “Conte a morte”, per riportare al governo Lega e FI e passare da 7 ministri a 3. Purtroppo Zinga non è astuto come Bonaccini e non ci pensò. 

4) “Draghi non deve essere messo in discussione, mi auguro che rimanga fino al termine della legislatura… L’Italia ha bisogno di stabilità per uscire dalla pandemia”. Ma tu guarda. Sei mesi fa, con l’Italia in zona rossa per la seconda ondata, era sbagliato dire “o Conte o morte” per garantire la stabilità sino a fine legislatura; ora viceversa, con tutta l’Italia in zona bianca, bisogna dire “Draghi o morte” perché Bonaccini ha scoperto improvvisamente il valore della stabilità sino a fine legislatura. E, fra Draghi e la morte, ha scelto entrambe. 

5) “Da quando sono presidente di Regione ho già avuto a che fare con 5 esecutivi”. Povera stella: a pensarci prima, i suoi amichetti renziani avrebbero potuto risparmiargli almeno il quinto, se avessero detto “o Conte o morte”. Ma fino a cinque per lui va bene: è l’idea del sesto che lo angoscia. 

6) “L’agenda Draghi contiene gran parte delle nostre sensibilità”. Che poi è la stessa cosa che dicono Lega, FI, Confindustria e Iv. L’intervistatore si scorda di domandargli quali sensibilità, ma le riassumiamo noi: condono fiscale, sanatoria dei precari della scuola, sblocco dei licenziamenti, taglio dei fondi al Sud, alla sanità territoriale e all’ambiente nel Pnrr, stop al cashback e al salario minimo, infornate di lobbisti turboliberisti ecc. 

7) “L’alleanza col M5S? No a decisioni a tavolino”. Qui, volendo, si poteva domandargli con chi, in alternativa al M5S, dovrebbe allearsi il Pd, visto che ha il 18% e le destre il 50: Iv? Calenda? Otelma? Ma qui la Volpe di Campogalliano non ha torto: se il Pd è la robaccia che ha in mente lui, i 5S devono fuggirne a gambe levate.

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Carni sintetiche, gli investitori ci credono. Entro il 2030 business da 25 miliardi $. - Micaela Cappellini

 

Oggi il mondo della bistecca sintetica comprende meno di 100 start-up. Nel 2020, nonostante la pandemia, ha attirato circa 350 milioni di dollari in investimenti e dall’inizio di quest’anno è già arrivata ad altri 250 milioni. 

Oggi, per mettere in tavola un vassoio di manzo wagyu, la preziosissima carne giapponese, si spendono fino a mille euro al chilo. Eppure tra meno di dieci anni, di euro, ne basteranno solo dieci. Fantascientifico? Non troppo: benvenuti nel futuro della carne sintetica, dal laboratorio alla padella senza passare dalla stalla. Perché tra microscopi e alambicchi, si può riprodurre di tutto, persino il manzo wagyu. O il salmone selvaggio del Nord, le ostriche di Normandia e, perché no, anche la carne di Dodo, l’uccello ormai estinto. Tutto al prezzo politico di cinque dollari al chilo.

Sembra fantascienza, ma sono previsioni da non sottovalutare, queste, perchè portano la firma degli analisti McKinsey. E se un think tank di questo calibro si è cimentato nel primo studio organico del settore, significa che la carne sintetica è destinata a diventare un business di un certo peso. Per l’esattezza, un affare da 25 miliardi di dollari entro il 2030. In Europa le associazioni degli allevatori - con quelle italiane in testa - combattono contro i tentativi di Bruxelles anche solo di sdoganare il nome hamburger per le polpette fatte di carne-non carne. In Italia il fenomeno carne sintetica di fatto lo si subisce. Ma altrove, nel mondo, la ricerca corre e fa passi da gigante. Per esempio, alla Orbillion Bio già si studia come replicare il manzo wagyu, mentre alla Vow si lavora sulla fedele riproduzione del gusto della carne di canguro e di alpaca.

350 milioni nel 2020.

Oggi il mondo della bistecca sintetica comprende meno di 100 start-up. Nel 2020, nonostante la pandemia, ha attirato circa 350 milioni di dollari in investimenti e dall’inizio di quest’anno è già arrivata ad altri 250 milioni. Sul settore si sono buttati alcuni tra i più grandi player internazionali del settore delle proteine animali (come Tyson e Nutreco) e investitori del calibro di Temasek e SoftBank.

Per produrre hamburger e filetti che abbiano lo stesso odore, lo stesso gusto e la stessa consistenza dei loro omologhi naturali ci sono varie tecniche: dall’estrusione alla stampa 3D, dall’utilizzo di proteine vegetali alla coltivazione in laboratorio di cellule animali. Secondo gli esperti della McKinsey, più ancora che le resistenze filosofiche, è il costo lo scoglio più grande da superare per convincere i consumatori a passare alla carne sintetica. Ma anche su questo fronte l’industria ha fatto passi da gigante. Nel 2013, per il primo hamburger prodotto con carne coltivata in laboratorio, si spendono 300mila dollari. Passano neanche tre anni, e il prezzo di mercato di una polpetta prodotta dalla Memphis Meat scende a 20mila dollari alla libbra. Fino ad arrivare all’inizio di quest’anno, quando la Future Meat Technologies annuncia di essere riuscita a realizzare un petto di pollo da 160 grammi a soli quattro dollari. Da qui alla soglia dei 5 dollari al chilo, il passo è davvero breve. Gli analisti della McKinsey non hanno dubbi: entro il 2030, la carne sintetica arriverà a costare tanto quanto quella animale.

Il bilancio occupazionale.

A quel punto, molto del futuro della carne di laboratorio dipenderà dalle scelte dei consumatori e da quelle della politica. Calcola sempre McKinsey che per produrre 500mila tonnellate di proteine sintetiche occorrono circa 5mila lavoratori, che è più o meno quanti ne occupa oggi la filiera della carne convenzionale. I governi che scelgono di andare in questa direzione, insomma, non andrebbero incontro a una perdita di posti di lavoro. Alle fabbriche produttive, poi, andrebbe aggiunto tutto l’indotto, a cominciare dalle materie prime come il tradizionale zucchero, ingrediente fondamentale di ogni processo di fermentazione. Per produrre 1,5 milioni di tonnellate di carne sintetica servono fino a 440 milioni di litri di soluzione, l’equivalente di 176 piscine olimpioniche.

Attualmente, però, di questo liquido per la coltura cellulare l’industria farmaceutica ne produce solo 20 milioni di litri. È facile intuire che la carne-non carne si candida a diventare un affare anche per Big Pharma.

IlSole24Ore