Nei disastri bancari è difficile trovare chi è senza peccato, si sa, ma almeno qualcuno dovrà spiegare cos’è successo. Palazzo Chigi fa filtrare che i partiti non devono ostacolare l’imminente spezzatino del Montepaschi e annessa cessione della polpa a Unicredit a carico dello Stato. Sui giornali retroscena identici narrano di un Draghi deciso a “tirare dritto” e a “mettere in sicurezza il sistema del credito”. Il premier, pare, considera Mps il tema più sensibile tra quelli che ha sul tavolo. Ecco perché.
Il disastro Mps ha un’origine. Nel 2007 il presidente Giuseppe Mussari – dalemiano, poi tremontiano, ma soprattutto caro alla massoneria senese, padrona della banca – decide di strapagare Antonveneta. Il 17 marzo 2008 il governatore di Bankitalia Mario Draghi autorizza l’operazione: “Non risulta in contrasto col principio della sana e prudente gestione”, scrive. Mussari paga 9 miliardi e se ne accolla 7,5 di debiti: 17 miliardi per un istituto che il venditore, il Santander di Emilio Botin, aveva pagato tre volte meno pochi mesi prima rilevandolo da Abn Amro. Botin, legatissimo all’Opus Dei, gliela vende a scatola chiusa. Pochi mesi prima la finanza cattolica italiana gli aveva sbarrato la strada della scalata al San Paolo Imi: i torinesi preferirono consegnarsi alla Banca Intesa di Giovanni Bazoli. Il sistema italiano ricompensa Botin girandosi dall’altra parte quando Mussari decide l’azzardo. Per quegli strani giri dei disastri italiani, a consigliarlo, per conto della banca d’affari Merryll Lynch, è Andrea Orcel, che oggi guida Unicredit destinata a prendersi Mps. Quel che avviene prima e dopo è un trionfo di irresponsabilità e silenzi.
La vigilanza sapeva che Mussari stava suicidando la banca. Pochi mesi prima, una lunga ispezione aveva trovato una situazione critica in Antonveneta. L’ispezione si chiude a dicembre 2006 con un esito “in prevalenza sfavorevole” e la richiesta di multare vertici e collegio sindacale: 64 pagine che prefigurano la futura esplosione delle sofferenze (i crediti inesigibili), pari a 4 miliardi, più un altro miliardo di incagli e la previsione di nuove perdite per 2,8 miliardi; altri 1,8 miliardi sono “a rischio di decadimento qualitativo”. La gestione dell’istituto viene fatta a pezzi con 5 voti negativi su 6: perde clienti; è ingessata; i controlli gestionali “non prevedono analisi di redditività” e la contabilità “è connotata da prassi poco efficaci e da aree di manualità”.
Perché allora Bankitalia dà l’ok? Ai magistrati senesi che indagarono sul disastro, Mussari (nel 2006 acclamato alla guida dell’Abi) spiegò di “non ricordare come si svolsero le trattative”. Non ci fu due diligence, cioè una profonda analisi dei conti di Antonveneta. Il 26 novembre 2007 i vertici di Mps vengono ricevuti da Draghi e dai vertici della Banca d’Italia. Mussari e il dg Antonio Vigni illustrano l’acquisto. Ai pm attoniti, l’allora capo della vigilanza Annamaria Tarantola racconta che governatore e soci si “raccomandarono coi vertici di Mps di ‘fare per bene’ l’acquisizione”. Vigni appunta sulla sua agenda: “Bankit sarà al vs fianco”. Chi lo ha detto? Tarantola si limita a dire che “sicuramente abbiamo detto che Banca d’Italia li avrebbe seguiti e indirizzati”. Sarà la capacità di indirizzo il motivo per cui nel 2011 Monti la vuole presidente della Rai e Draghi l’ha appena chiamata a Palazzo Chigi come consigliere economico.
Quel che succede dopo è ancor più indicativo. L’operazione si conclude nel 2008 quando la crisi mondiale è già in atto. La storia è nota. Per tamponare l’emorragia e abbellire i bilanci Mps metterà in piedi le operazioni in derivati (i famosi “Alexandria” e “Santorini”). Nell’aprile 2016, alle Camere, il governatore Ignazio Visco rivendicò di essere stato lui, appena arrivato, a chiedere a Mussari e Vigni di andarsene. Non altri. Visco li convoca a novembre 2011 e gli dice di andarsene: “Non avevo potere di farlo, ho corso un rischio personale”. In quei giorni Draghi si insedia alla Bce.
La vulgata vuole che siano stati i nuovi vertici di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, a scoprire il trucco dei derivati trovando nella cassaforte di Vigni il contratto con Nomura su Alexandria (lo rivelò il Fatto a gennaio 2013). Eppure i processi hanno mostrato anche altro. Mussari&C. sono stati assolti dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza. Già nel 2010 le strane operazioni in liquidità avevano spinto Bankitalia a mandare gli ispettori. La situazione è così critica che ci ritornano a settembre 2011. Il team guidato da Giampaolo Scardone viene avvisato da Consob (attivata da un esposto anonimo) di indagare su Alexandria: si scopre che una serie di operazioni apparentemente scollegate prefigurano “nella sostanza, piuttosto che nella forma, un Cds”, cioè un derivato: “Era parsa l’unica soluzione plausibile”. Ma, dice Scardone al Tribunale di Siena, senza il mandate agreement è una cosa “che non ci siamo sentiti di contestare perché oggettivamente era fondata su valutazioni di tipo esperienziale”.
L’ispezione si svolge nelle settimane cruciali della caduta del governo Berlusconi, l’arrivo di Monti e, come detto, l’insediamento di Draghi alla Bce. Forse la storia sarebbe cambiata se la bomba Mps fosse esplosa prima. Fatto sta che oggi Palazzo Chigi “tira dritto”.
IlFQ