venerdì 6 agosto 2021

Colpa per colpa, tutti i carnefici di Mps. - Nicola Borzi e Carlo Di Foggia

 

Nomi e ruoli. L’agonia della banca. Quante distrazioni Da Mussari e i suoi fino ai “vigilanti” Draghi, Tarantola, Vegas, a Orcel e all’ex ministro Padoan: ecco attori e comparse del disastro senese.

L’ultima tappa del disastro Mps – lo spezzatino e la cessione a UniCredit – costerà allo Stato almeno 8 miliardi. A dispetto della cifra, però, nessuno, né il ministro dell’Economia né le autorità bancarie, si prende la briga di spiegare come si è arrivati a questo punto. Ecco una breve e inesaustiva lista dei volenterosi carnefici del Monte.

Giuseppe Mussari. Avvocato cresciuto nei Ds, banchiere dilettante per sua stessa ammissione, nasce dalemiano ma si fa apprezzare dai potentati senesi che lo fanno presidente della fondazione che controlla l’istituto. Nel 2006 si fa nominare presidente della banca e l’anno dopo decide lo sciagurato acquisto di AntonVeneta: la paga tre volte il valore pagato all’olandese Abn Amro dal Santander di Emilio Botin, che gliela vende a scatola chiusa tramite il capo italiano, Ettore Gotti Tedeschi, seguace dell’Opus Dei come Botin. L’acquisto, chiuso a crisi finanziaria mondiale già scoppiata, scasserà la banca. Le famose operazioni in derivati (Alexandria e Santorini) serviranno solo tamponare le falle. Chi ha appoggiato Mussari? La lista di chi applaudì all’operazione è lunghissima. In cima ci sono Franco Bassanini e Giuliano Amato, per un decennio eletti a Siena e forti influencer delle sorti di Mps.

Annamaria Tarantola. Nel 2007, responsabile dell’area vigilanza della Banca d’Italia, è la burocrate addetta a interfacciarsi coi vertici del Monte per l’acquisto di AntonVeneta. Li incontra più volte, una anche con il governatore Draghi. “Ci raccomandammo con Mussari di fare l’acquisto per bene”, spiegò ai pm senesi. Nessuno dei vertici di Bankitalia impone una due diligence della banca. “Non ci fu segnalato che Mps aveva acquisito AntonVeneta senza due diligence. Per prassi, Banca d’Italia caldeggia sempre, in caso di acquisizioni, la due diligence preventiva”, spiegò ai magistrati l’allora dg di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, deceduto nel 2019. Monti promuove Tarantola nel 2012 alla presidenza della Rai. Oggi è consigliera economica a Palazzo Chigi.

Vincenzo De Bustis. Banchiere dalemiano, a fine ’99 convince Mps a strapagare per 1,3 miliardi Banca 121, che guida. Operazione che inizia a picconare i conti: lui passa armi e bagagli a Siena, insieme ad alcuni manager fidati. Plurimultato dalle autorità di vigilanza, il suo nome comparirà anche nel disastro della Popolare di Bari.

Mario Draghi. È il governatore di Bankitalia quando Mussari decide di strapagare AntonVeneta. Nel 2008 autorizzò l’acquisto perché “non in contrasto con la sana e prudente gestione della banca”. Eppure la Vigilanza sapeva che AntonVeneta era decotta perché l’aveva ispezionata a fine 2006. Dopo che Mussari e il dg Antonio Vigni lo incontrano in Via Nazionale, il secondo si appunta “Bankitalia sarà al vs fianco”. A gestire la pratica ci sono Tarantola e Saccomanni. Draghi è riuscito a non essere mai sentito da nessuno sulla vicenda: né dai pm, né nei procedimenti giudiziari, né dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche dove il presidente Pier Ferdinando Casini si guardò bene dal convocarlo per non attirare le ire del Quirinale. A novembre 2011 passa alla Bce. Gli ispettori inviati a Siena hanno scoperto il derivato Alexandria. Nello stesso mese, il suo successore Visco convoca Mussari e Vigni e gli dice di togliersi di mezzo. “La Banca d’Italia ha fatto con Montepaschi tutto quanto doveva, in modo appropriato e a tempo debito. Si tratta di un caso isolato e legato non tanto alla gestione quanto a condotte criminali”, spiegherà qualche mese dopo.

Giuseppe Vegas. È un monumento al vigilante distratto. Alla guida della Consob dal 2010, riesce, come la vigilanza di Bankitalia, a non vedere o a intervenire sempre in ritardo. Il trionfo è sulle operazioni in derivati usate dalla banca per mascherare le perdite. Basta leggere la sentenza che ha condannato a 6 anni per falso in bilancio i successori di Mussari e Vigni, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, chiamati a risolvere la grana senese. Nel settembre 2011, l’Authority di Borsa attiva gli ispettori di Bankitalia dopo un esposto anonimo (l’autore è un manager di Mps) sull’operazione Alexandria. Gli ispettori capiscono che si tratta di un derivato creditizio e affidano il sospetto a un rapporto che consegnano (giugno 2012) alla Consob, titolare del potere di vigilanza sui bilanci. Consob avvia un iter lungo e farraginoso per decidere se sono derivati o no e quindi come contabilizzarli (nel primo caso a “saldi chiusi” nel secondo a “saldi aperti”, con riflessi immediati sui bilanci). Insieme a Bankitalia, l’8 marzo 2013 redigono un documento per stabilire che vanno contabilizzati a “saldi aperti” e – incredibilmente – solo dopo chiede un parere agli organismi internazionali di settore. Pochi giorni dopo, il 21 marzo, redige una nota in cui i tecnici dell’Authority scrivono di ritenere Alexandria e Santorini due derivati a tutti gli effetti. Ma non accade nulla.

Risultato: solo nel 2015 Consob decide che Mps deve correggere i bilanci perché, trattandosi di derivati, andavano contabilizzati a “saldi chiusi” mentre l’omologa tedesca Bafin aveva imposto a Deutsche Bank di considerare Santorini come tale già nel 2013. Le multe per la vicenda a Mussari e compagnia arrivano solo nel 2018, sei anni dopo, e per questo gigantesco ritardo sono state quasi tutte annullate. La Corte d’appello di Catanzaro, per dire, ha annullato quella di Mussari “per decadenza della Consob dall’esercizio della potestà sanzionatoria, in ragione della riscontrata inerzia nel- l’accertamento degli illeciti” visto che l’Authority “già dal 2014 era al corrente almeno del nucleo essenziale delle condotte contestate”.

Pier Carlo Padoan. È il conflitto d’interessi incarnato. Nel 2016, da ministro dell’Economia lascia il Monte in crisi a bagnomaria per non disturbare la campagna referendaria di Renzi, di cui accetta tutti i diktat, compreso quello di cacciare l’ad di Mps Viola per far posto a un manager gradito a Jp Morgan, con cui Renzi si era speso in promesse. Nel 2017 nazionalizza Mps con 5,4 miliardi. Dopo averli bruciati, si candida a Siena col Pd, poi abbandona il seggio dopo la nomina a presidente di UniCredit, la banca che ora si prenderà la polpa di Mps dopo la pulizia a carico dello Stato.

Andrea Orcel. Oggi guida UniCredit e il cerchio si chiude. Dalla banca d’affari Merrill Lynch partecipa a tutte le tappe del disastro (non il solo della sua lunga carriera). È il consulente dello spezzatino di Abn Amro: prima rifila l’Antonveneta a Botin, poi convince Mussari a prendersela al triplo. Oggi, in UniCredit, può godersi il frutto di quelle scelte.

ILFQ

Tanti elogi a Renato: così l’agente Betulla è ritornato a Palazzo. - Romana Allegra Monti e Giacomo Salvini

 

Neo-assunto. Il giornalista ha scritto diversi articoli celebrativi su ministro e governo.

Niente da dire: Renato Farina alias “agente Betulla”, si è conquistato sul campo l’assunzione come consulente giuridico del ministro Renato Brunetta. Da quando il governo Draghi si è insediato, sulle colonne di Libero il giornalista un tempo al servizio dei Servizi ha elogiato e celebrato le magnifiche gesta del premier, del commissario straordinario Figliuolo e di tutti i suoi ministri (tranne uno: Speranza, da lui considerato un pericoloso bolscevico). Ma ancora più di Draghi, Betulla ha dimostrato un particolare affetto nei confronti di Brunetta che, 6 mesi dopo, lo ha portato con sé al ministero della Funzione Pubblica.

Il 14 febbraio, dopo il giuramento, Libero apre il giornale con un titolo al limite del grottesco: “Brunetta ministro di alto profilo”. Svolgimento di Farina: “È la garanzia del ‘nessun dorma’”, “Il migliore che sia capitato all’Italia nel settore della Pubblica amministrazione”, “un professore di rilievo internazionale”. E ancora, il ritratto di Brunetta è un lungo florilegio di note biografiche in cui il ministro appare come il nuovo De Gaulle: “Nasce da famiglia poverissima”, “ha dovuto conquistarsi il diritto di svettare, trasformando le difficoltà in trampolino delle volontà”, “la carriera universitaria sfolgorante” e “una spasmodica lotta ai fannulloni”. Poi, la rivelazione di Farina: “Confesso, non parlo per sentito dire, non ho letto il suo profilo di Wikipedia: lo conosco”. Infatti hanno curato insieme una collana di libri su Libero e per cinque anni sono stati nello staff alla Camera di Forza Italia. E così il giudizio non può che essere imparziale e pungente: “Mi sono convinto per esperienza – scriveva Farina il 14 febbraio – che quest’uomo sia uno dei pochi giganti del pensiero in circolazione”. Un Nobel mancato. Betulla tesse le lodi anche dell’autrice della futura riforma della giustizia, a suo dire denigrata dal centrosinistra: “La Cartabia – scrive Farina il 16 febbraio – è riuscita a far funzionare come un orologio svizzero la Corte costituzionale che con lei, anche se positiva al Covid, marciava al galoppo”. E dal galoppo al galoppino, è un attimo.

L’inarrestabile Farina appunta al petto di Draghi e Cartabia una medaglia al valore per la cattura dei “brigatisti e assassini che se la spassavano in Francia”, definendola una “grande operazione” con un titolone sull’edizione di Libero del 29 aprile 2021. Come se li avessero catturati loro, a mani nude. Certo il soggetto preferito del suo lambire è il sommo Draghi, che affianca in ogni fondamentale e cruenta battaglia, come quella contro l’eccessivo utilizzo di parole inglesi: “Smart working, babysitting… chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”. Una frase che Farina definisce come “memorabile, penetrata negli animi ben oltre la crème intellettuale. […] Un sano moto di rivolta, in fondo patriottica”. Lo ha incensato persino quando, in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid, Draghi ha chiuso la porta ai giornalisti (quindi la sua categoria, almeno sulla carta). Ma non basta. Quando il governo annuncia le riaperture di bar e ristoranti del 26 aprile, il merito di questo incredibile risultato è di Draghi e del suo “algoritmo di buon senso e e buon governo: salute + serenità sociale, fiducia nei cittadini + ragionevolezza = apertura progressiva”. Qualsiasi cosa voglia dire. Ma che ne pensa Betulla delle nomine volute dal premier? Su Libero del 21 aprile, Farina definisce Figliuolo come “l’uomo scelto perché stimato universalmente quale campione di logistica militare”. Mica come Arcuri. Lui ha le medaglie sul petto: “Figliuolo risolve i problemi quando fischiano i proiettili o sono lì per arrivare i missili”. Uno così non poteva che meritare una promozione.

ILFQ

Un Betulla è per sempre. - Marco Travaglio

 

L’arruolamento di Renato Farina nello staff del ministro Renato Brunetta in qualità nientemeno che di “consulente giuridico” è un segnale incoraggiante per almeno tre motivi. Il primo è etico: il Governo dei Migliori premia un giornalista che violò la legge prendendo soldi dai servizi segreti come “agente Betulla”. Il secondo è deontologico: il Governo dei Migliori porta a esempio per i giovani un giornalista espulso dall’albo per aver venduto la professione al Sismi del generale Niccolò Pollari e del fido Pio Pompa non per 30 denari, ma per 30mila euro, pubblicando fake news e realizzando false interviste per carpire informazioni ai pm e depistare l’indagine sul sequestro dell’imam Abu Omar, rapito e deportato in Egitto dalla Cia per torturarlo in santa pace. Il terzo è meritocratico: se il Governo dei Migliori ha un tale culto della competenza da promuovere a “giurista” un tizio che ha patteggiato 6 mesi per favoreggiamento in sequestro di persona, c’è speranza per tutti. Si dice sempre che l’America è il paese delle opportunità: e l’Italia, allora? Basta conoscere le lingue, ma soprattutto la lingua come ascensore sociale, e nessuna via è preclusa. Il 14 febbraio, appena Brunetta tornò sul luogo del relitto, cioè della PA, Farina gli dedicò su Libero un sobrio ritratto dei suoi: “Meno male che c’è lui. È l’unica autentica sorpresa di questo governo… È un numero primo. Il migliore ministro che sia capitato all’Italia nel settore… Un professore di rilievo internazionale… la stampa internazionale l’aveva individuato nel campo dell’economia del lavoro come un potenziale Nobel… uno dei pochi giganti del pensiero in circolazione… altissimo profilo intellettuale e morale”. Infatti gli ha fatto un contrattino piuttosto stitico da 18mila euro l’anno: solo per il rimborso saliva, meritava ben di più, specie ora che a Libero gli Angelucci tagliano i compensi.

Il curriculum del giureconsulto è di tutto rispetto. Ciellino, prima al Sabato, poi all’Indipendente e al Giornale con Vittorio Feltri, si sbuccia le ginocchia intervistando B. e si specializza in bufale: interviste mezze inventate alla Ariosto e a Massimo Fini, campagna contro la Boccassini accusata di “rapire bambini”, cose così. Nel ’94 diventa portavoce di Irene Pivetti, di cui – politicamente, s’intende – si invaghisce. Un giorno Feltri gli racconta, d’accordo con l’intera redazione, di avere in pagina un servizio fotografico della Pivetti senza veli: lui se la beve, le prova tutte per bloccare la pubblicazione e alla fine, fra l’ipossia e l’ictus, s’inginocchia al direttore sporgendogli un assegno ed esalando un “Ti prego, le foto le ricompro io, metti tu la cifra”, prima di essere sommerso da una risata omerica.

Lo nota subito l’Ufficio Disinformatija del Sismi, diretto da Pompa, che i giornalisti scomodi li spia e quelli come lui li arruola. “Io – gli dice Farina – ti do anche la pattumiera, poi sei tu a scegliere, perché molte cose che girano nell’ambiente giornalistico sono anche tentativi di depistaggio, no?”. In cambio di cotanta monnezza, Pompa gli passa “soffiate” basate sul nulla, che Betulla mette in pagina sotto dettatura e senz’alcun controllo. Annuncia attentati di al Qaeda mai esistiti. Sputtana nemici veri o presunti del Sismi, tipo Prodi e De Gennaro. Insulta gli ostaggi italiani in Iraq: Simona Pari e Simona Torretta (“le vispe terese”), Giuliana Sgrena (rapita dai “suoi amici terroristi”), Enzo Baldoni (“un pirlacchione” da “vacanze intelligenti”). In cambio si contenta di poco: ai Mondiali in Germania, Pompa gli regala due biglietti di tribuna per Italia-Ghana e lui lo ringrazia sulla prima di Libero, in codice cifrato: “Ho usato amici che la sanno lunga. Fatta! Grazie a Pio e a Dio”.

Nel maggio 2006, in missione per conto di Pio, realizza una falsa intervista ai pm Spataro e Pomarici che indagano sul sequestro Abu Omar per rubare i segreti dell’inchiesta. Non sa che Pompa è intercettato e dunque pure lui che lo chiama mentre va all’appuntamento per ripassare le domande. Pensa di buggerare i due pm, che invece lo aspettano al varco per buggerare lui. Domanda loro cosa sappiano di Pollari, con una scusa astutissima: “Io sono cattolico, Pollari è cattolico, mi spiacerebbe se un cattolico facesse cose brutte”. Manca poco che i pm finiscano sotto il tavolo per le risate. Poi, appena esce, l’agente Farina Doppio Zero fa rapporto telefonico a Pompa: “È stata durissima, quasi quasi Pomarici mi voleva arrestare, ma alla fine li ho messi nell’angolo e ho avuto quel che cercavo”. Stavolta i pm all’ascolto possono sbudellarsi tranquillamente. Indagato per favoreggiamento, si difende alla grande. Si dipinge come un patriota della “quarta guerra mondiale” (senza spiegare quale sia la terza) in difesa della “civiltà ebraico-cristiana”. Sostiene di aver mediato nel ’99 nientemeno che tra Milosevic e D’Alema (che smentisce). Racconta di aver aderito al Sismi perché “è come se mi fossi innamorato di Pollari”. Ricorda una velina su eventuali attentati a Londra che lui, su Libero, tradusse così: “Tettamanzi e Formigoni nel mirino del terrorismo”, ma ammette: “Fu una mia esasperazione”. E ai 30mila euro preferiva “una nomina a commendatore”, però la cosa sfumò e allora li prese, ma solo per donarli a un santuario. Alla fine patteggia. E vince di diritto un seggio di FI alla Camera, poi torna sparare betullate su Libero. Voi capite perché ora è “consigliere giuridico” dei Migliori. Averne.

ILFQ

Lotta all’evasione, ecco dove colpirà il fisco. - Marco Mobili e Giovanni Parente

 

Guardia di Finanza e agenzia delle Entrate rivedono insieme gli indici di rischio per contrastare frodi e illeciti tributari. Bloccate compensazioni indebite per 1,2 miliardi di euro.

Falsi crediti, fuga di capitali all’estero, commercio elettronico, aiuti Covid e compliance. Si possono sintetizzare così le nuove rotte dell’evasione su cui Guardia di Finanza e agenzia delle Entrate hanno concentrato una revisione congiunta delle analisi di rischio. A chiedere di intensificare il coordinamento e la complementarietà tra le componenti dell’amministrazione finanziaria è l’atto di indirizzo per gli obiettivi di politica fiscale 2021-2023, anticipato dal Sole 24 Ore e diramato dal ministro dell’Economia, Daniele Franco.

L’ANDAMENTO DELLE COMPENSAZIONI

I crediti compensati nel modello F24. Importi in miliardi di euro.

Il rapporto di collaborazione si è ulteriormente consolidato durante la pandemia: l’amministrazione finanziaria si è concentrata sempre più sui contribuenti ad alta pericolosità fiscale e, in particolare, verso le frodi, l’utilizzo indebito di crediti d’imposta (ad esempio, il bonus per ricerca e sviluppo) e di altre agevolazioni, come quelle per fronteggiare il Covid.

«Queste analisi di rischio, condotte a livello centrale, consentono alle unità operative sul territorio di orientare l’attività in modo “chirurgico” e con modalità istruttorie adeguatamente calibrate al profilo di rischio dei contribuenti selezionati», sottolinea Giuseppe Arbore, capo del III reparto Operazioni del Comando generale delle Fiamme gialle. «Non di rado, costituiscono l’input anche per indagini di polizia giudiziaria riguardanti non solo i reati tributari ma anche altri fenomeni di illegalità collegati, come il riciclaggio e l’indebita percezione di finanziamenti pubblici». Ma vediamo nel dettaglio.

Indebite compensazioni.

Un primo filone di analisi (anche a tutela dei saldi di finanza pubblica) ha riguardato l’utilizzo in compensazione di debiti tributari e previdenziali con crediti d’imposta inesistenti a seguito di atti di accollo del debito, come pure la compilazione di deleghe di pagamento con un importo dovuto pari a pochi centesimi di euro. Proprio per arginare gli illeciti, il collegato fiscale alla manovra di bilancio 2020 (Dl 124/2019) ha vietato la compensazione intersoggettiva dei crediti tributari tramite l’accollo prevedendo che i versamenti effettuati in violazione di questa previsione normativa si considerano non avvenuti a tutti gli effetti di legge. Ha inoltre previsto che le compensazioni dei crediti maturati a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2019 devono transitare obbligatoriamente sui canali telematici gestiti dall’Agenzia. Questo ha consentito finora di bloccare l’utilizzo in compensazione di oltre 1,2 miliardi di euro di crediti fittizi.

Boom dei crediti d’imposta per ricerca.

Un discorso a parte va fatto sulla crescita esponenziale di crediti d’imposta per ricerca e sviluppo nei modelli di pagamento. Tale circostanza, da un lato, può essere spiegata da dinamiche fisiologiche, legate al legittimo utilizzo del credito a fronte di effettivi investimenti agevolabili, dall’altro, può essere attribuita alla diffusione di fenomeni evasivi e fraudolenti di varia natura, spesso ideati da società di consulenza e da pseudo-organismi di ricerca che forniscono documentazione solo formalmente corretta, la relativa certificazione e anche l’assistenza nella fase contenziosa.
Su queste premesse, il settore contrasto illeciti dell’Agenzia ha recentemente realizzato un’analisi di rischio, condivisa con la GdF, sui contribuenti che hanno utilizzato in compensazione crediti d’imposta per ricerca e sviluppo nei periodi d’imposta dal 2016 al 2021 e che risultano connotati da rilevanti indici di anomalia (ad esempio ricerca e sviluppo difficilmente compatibile con l’attività economica dichiarata, con la struttura organizzativa dell’impresa, con l’assenza di costi per l’attività interna nei bilanci depositati o negli anni precedenti all’istituzione del credito d’imposta, eccetera). Come spiega al Sole 24 Ore, Paolo Valerio Barbantini, vicedirettore e capo della divisione Contribuenti delle Entrate, «sono state selezionate circa 4mila posizioni caratterizzate da un elevato profilo di rischiosità su cui sono in corso i necessari approfondimenti degli uffici dell’Agenzia e della Guardia di Finanza».

Commercio elettronico.

Nel mirino di GdF ed Entrate è finito anche il boom registrato dall’e-commerce nel pieno della pandemia. L’incrocio dei dati commerciali comunicati all’Agenzia sui fornitori per i soggetti passivi (residenti o meno), che gestiscono interfacce elettroniche per facilitare le vendite a distanza di beni importati o di beni nella Ue tra fornitori e acquirenti, insieme ad altri dati acquisiti dalle Fiamme gialle dai principali gestori delle piattaforme, ha consentito di avviare un’analisi di rischio dedicata, rivolta sia ai soggetti passivi residenti che ai contribuenti che si sono identificati in Italia.

Vigilanza anche sui contribuenti che, pur con volumi di vendita molto rilevanti, non hanno presentato dichiarazioni dei redditi e Iva, conseguendo così un indebito vantaggio a danno degli operatori tradizionali.

Lettere di compliance.

Le analisi congiunte guardano anche i soggetti destinatari delle comunicazioni per l’adempimento spontaneo che non hanno giustificato anomalie comunicate o non hanno modificato il loro comportamento a seguito dell’invito dell’Agenzia. Particolare attenzione ai contribuenti rimasti inerti dopo le lettere di compliance fondate sulle informazioni relative ai redditi esteri arrivati grazie al Common reporting standard (Crs), o sui dati della fatturazione elettronica obbligatoria e dei corrispettivi telematici, che - come ricorda Barbantini - «sono di fondamentale importanza per le attività di controllo, in quanto consentono, oltre all’attività di promozione della compliance e la prevenzione dei fenomeni evasivi, l’immediato confronto con i dati dichiarativi permettendo di avviare, in presenza di anomalie, istruttorie più approfondite».

Contributi a fondo perduto.

Non solo lotta all’evasione ma anche tutela della spesa pubblica. Con un protocollo d’intesa sottoscritto nel novembre 2020, sono state sviluppate analisi del rischio mirate sul diritto di accesso ai contributi a fondo perduto erogati con i provvedimenti emergenziali. I criteri di rischio, ad esempio, si riferiscono alla verifica della condizione dei ricavi (se prevista), della corretta indicazione della percentuale del contributo in base alla dimensione del richiedente, della congruità dell’importo delle operazioni 2019 e 2020, della ricorrenza dei firmatari e della presenza di eventuali indici di frode fiscale a loro carico.

Illustrazione di Giorgio De Marinis / 

Il Sole 24 Ore

giovedì 5 agosto 2021

Il Tesoro chiude ai partiti: “Mps andrà all’Unicredit”. - Marco Palombi

 


L’audizione - Il ministro difende il regalo, con dote pubblica, a Padoan e soci: “Banca in difficoltà, da sola non ce la farebbe. Ma tuteleremo Siena e Toscana”.

Lo stanco rito si compie quando ormai è ora di cena: Daniele Franco si presenta alle commissioni Finanze di Camera e Senato, come peraltro prescrive la legge, per informarle che per il Monte dei Paschi si sta seguendo la via maestra del mercato – indicata anche dalla Bce, giuste le linee guida di un Dpcm del governo Conte-2 e della Commissione Ue –, che l’unica offerta in campo è quella di UniCredit e che il governo vigilerà sulle ricadute sociali ed economiche dell’eventuale vendita, e lotterà come un leone per difendere l’interesse pubblico. Seguono raccomandazioni, critiche, un po’ di “se”, qualche “ma”, alcuni “Padoan” assortiti delle forze politiche: infine la promessa di non far mancare informazioni al Parlamento da parte del ministro dell’Economia. Pace e bene, ci si rivede dopo le ferie.

Il senso è questo: a tempo debito, e comunque entro l’anno, come da accordo con Bruxelles, la banca presieduta da Pier Carlo Padoan – cioè il ministro che nazionalizzò Mps e poi si fece eleggere deputato proprio a Siena – si prenderà le parti buone del Monte dal Tesoro con cospicua dote pubblica, la cui entità è ancora da definire. Nessuno ha la forza di opporsi e soprattutto nessuno può garantire che l’istituto senese potrebbe restare in piedi da solo senza diventare un inceneritore di risorse pubbliche. In ogni caso, “non si tratterà di una svendita di proprietà statali”.

Il ministro Franco, con tono monocorde e retorica in grisaglia, non lascia spazi a rinvii e ripensamenti. La tesi è questa: il Monte dei Paschi è messo male, le sue performance sono assai sotto la media, gli obiettivi del piano industriale definito con l’ingresso dello Stato “sono stati conseguiti solo parzialmente”, soprattutto quanto a “redditività ed equilibrio tra costi e ricavi”. E dunque i fan dell’opzione “stand alone”, cioè di Mps che va avanti da sola, devono sapere che già così gli esuberi previsti sono 2.500 e la Commissione chiederà di aumentarli perché Mps ha ancora troppi costi; l’aumento di capitale da 2,5 miliardi ipotizzato finora, poi, è oggi largamente insufficiente (e non a caso la Bce non si è ancora espressa). Insomma, secondo Franco e Mario Draghi, dire no a UniCredit costerebbe assai di più dell’operazione che si va definendo. Quanto alla scelta di vendere, dice Franco, è prevista da “un Dpcm del 16 ottobre 2020” (epoca Conte), che affida al Tesoro il compito “di dare avvio alla procedura” e indica tra le strade “una operazione straordinaria di integrazione”. È dall’autunno scorso, dice il ministro, che il Mef e la banca cercano un partner, tanto è vero che “la data room è aperta da gennaio”. Perché UniCredit? Perché l’unico altro interlocutore, il Fondo Apollo, dopo un sondaggio a febbraio è sparito: è l’unica offerta in campo e “non ci sono le condizioni per mettere in discussione la cessione della banca”.

I termini dell’eventuale accordo con la banca guidata da Orcel e Padoan sono quelli noti: niente danni al capitale di UniCredit, esclusione del vecchio contenzioso e dei crediti deteriorati, accordo sul personale, via libera dell’Ue (che dovrà garantire che il tutto avvenga a “condizioni di mercato”). L’apporto dello Stato? Ancora non si sa, ma se UniCredit non deve metterci capitale sarà di sicuro cospicuo e alla fine il Mef potrebbe ritrovarsi azionista di UniCredit.

Ora le rassicurazioni. Franco non vede “rischi di smembramento della banca” e quanto agli esuberi (5-6mila su 21mila secondo indiscrezioni) attenuarli, così come tutelare il marchio della più antica banca del mondo, è “una priorità del governo”: “Garantiremo la massima attenzione alla tutela dei lavoratori nell’ambito degli spazi negoziali e una pluralità di strumenti e iniziative” per chi resterà fuori. Infine il comma Letta, cioè la frase che ammicca all’uscita di ieri del segretario Pd e candidato a Siena alle Suppletive: “La valorizzazione e il rilancio di Siena e della provincia è una priorità indiscussa e incomprimibile per il governo”.

Insomma, a poco servirà – per fermare il treno della vendita all’acquirente unico (difficile strappare qualcosa in una trattativa se non ci sono alternative) – l’utile che oggi la banca senese riporterà nella sua semestrale: Mps doveva morire, Mps morirà annegata nel secondo polo bancario italiano. Chi ha avuto ha avuto…

ILFQ

Se è lecito. - Marco Travaglio

 

In un Paese senza bussola, ogni tanto è il caso di mettere i puntini sulle “i”. A cominciare da quel che si dice in giro del Fatto. Noi giudichiamo tutti in base alle cose che dicono e fanno alla luce delle nostre idee. Che sono piuttosto note e non usiamo cambiarle appena gira il vento. Ai blocchi di partenza, tutti i governi sono uguali (salvo quelli guidati da delinquenti): poi sono le loro azioni a fare la differenza. Questa è l’imparzialità: applicare le proprie idee a tutti. Il governo Renzi, da quel che diceva il premier nel 2014 (molto simile a ciò che dicevamo noi), partì sotto i migliori auspici. Poi fece l’opposto: Italicum, schiforma costituzionale, Jobs act, Buona scuola, norme pro-evasori e anti-magistrati, rilancio del Ponte sullo Stretto e altre porcate di B., inerzia sui crac bancari. Tutte cose che combattemmo perché erano l’opposto delle nostre idee. Il Conte-1 fece molte cose che reclamavamo anche prima che nascesse il Fatto: spazzacorrotti, blocca-prescrizione, reato di voto di scambio, Reddito di cittadinanza, Quota 100, blocca-trivelle, dl Dignità, analisi costi-benefici sulle grandi opere, taglio dei parlamentari e dei vitalizi, politica estera meno appiattita sugli Usa e più multilaterale verso Est, economia a forte presenza pubblica: applausi. Varò pure il mini-condono fiscale, la (il)legittima difesa e i decreti sicurezza: fischi.

Anche il Conte-2 fece molte cose buone, alcune riprese dalle battaglie del Fatto (e non viceversa): manette agli evasori, limiti al contante e incentivi alla moneta elettronica (cashback), fuori i Benetton da Autostrade, Green new deal; poi bloccò l’aumento dell’Iva, diede più soldi a sanità e istruzione, gestì bene pandemia e i ristori fino al miracolo del Recovery fund: applausi. Ma fece anche una Sblocca-cantieri spericolata e svuotò il reato di abuso d’ufficio: fischi. Ora c’è Draghi: sulla persona e sui trascorsi di banchiere europeo, nulla da dire. E sulla lotta al virus, applausi. Ma, oltre a riportare al potere B. e la sua banda più Salvini&C., ha fatto il condono fiscale, la sanatoria dei precari della scuola, una “riforma” della giustizia da far impallidire B. (anche se alla fine Conte ha evitato i danni peggiori), cancellato cashback e salario minimo, sbloccato i licenziamenti, ingaggiato i responsabili e gli ideologi dei disastri del passato (Brunetta, Gelmini, Fornero, Giavazzi e turboliberisti minori), riasservito l’Italia agli Usa, riesumato il Ponte, avviato politiche anti-ambientali, rallentato a suon di stop&go la campagna vaccinale, rimesso a tavola le lobby e ancora dorme sulla scuola. Perciò speriamo che duri il meno possibile. Non perché siamo vedovi di chi c’era prima: perché – parlando con pardòn, se è ancora lecito – non siamo d’accordo.

IlFQ

Riecco il ponte: altri 50 milioni per lo studio. - Carlo Di Foggia

 

La storia infinita del grande spreco.

Nella pluridecennale vicenda del Ponte sullo Stretto di Messina, sembra di rivivere il “giorno della marmotta”. Quasi dieci anni fa, il governo Monti ha archiviato la mega-opera perché considerata un inutile spreco di denaro, scatenando un maxi-contenzioso con il consorzio Eurolink, capeggiato da Salini-Impregilo, vincitore della gara. Oggi si riparte dal più classico “studio di fattibilità tecnico-economica”. L’ufficialità è arrivata ieri dal ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, in audizione alle Camere. Due ore surreali in cui la parola “ponte” non si è sentita per 40 minuti, sostituita da un più laico “attraversamento stabile dello Stretto di Messina”. È toccato al renzianissimo deputato Luciano Nobili, dire pane al pane e vino al vino: “Possiamo togliere l’ipocrisia del lavoro degli ultimi mesi e parlare di ponte?”.

Giovannini è riuscito nell’impresa di scontentare pure i pasdaran dell’opera, che in realtà si spendono per Pietro Salini e Webuild, il colosso delle costruzioni nato dopo che la Cassa depositi e prestiti ha messo in sicurezza con soldi pubblici la Salini-Impregilo.

Breve premessa. Il mese scorso, la Camera ha approvato a larghissima maggioranza (tranne Leu e M5S) una mozione che “impegna il governo ad adottare le opportune iniziative al fine di individuare le risorse necessarie per realizzare un collegamento stabile, veloce e sostenibile dello Stretto di Messina estendendo, così, la rete dell’Alta velocità fino alla Sicilia”. Il ponte è la conclusione logica del mega-progetto dell’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria (22 miliardi, di cui 10 già finanziati nel fondo complementare al Pnrr) anch’esso fermo allo “studio di fattibilità tecnico-economica”.

Giovannini si è presentato per elogiare il lavoro consegnato dalla commissione di esperti nominata a suo tempo da Paola De Micheli. L’illustre task force è stata chiamata a rifare una discussione chiusa 40 anni fa: meglio un ponte, un tunnel sotto il fondale (sub alveo) o solo ancorato al fondale (alveo)? Vale a dire, le opzioni del concorso internazionale di idee del 1969, chiuso 20 anni dopo con la scelta del ponte, l’unica considerata percorribile. Il team di esperti ministeriali – dove non compare nessun ingegnere strutturista esperto di costruzioni di ponti – ha concluso che in effetti il ponte è l’unica soluzione, ma ha ipotizzato che forse invece di quello a un’unica campata, oggetto della gara del 2006, si può fare a più campate. Il costo, però, deve sobbarcarselo tutto lo Stato. Quanto? I 10 miliardi del vecchio progetto? Non si sa, e per questo serve lo studio. Giovannini ha annunciato che ci sono già 50 milioni stanziati nella vecchia legge di Bilancio, e a farlo sarà Italferr, controllata di Fs: si dovrebbe chiudere entro la primavera 2022 per arrivare poi al dibattito pubblico e a stanziare i fondi in autunno con la legge di Bilancio.

Ai parlamentari di Lega, Forza Italia e Italia Viva, che lo accusavano di prender tempo per non fare nulla, il ministro ha replicato che lui l’opera la vuole fare e di averne discusso con Mario Draghi e il resto del governo: “Sposando la linea del gruppo di lavoro non riteniamo affatto che quest’opera sia inutile, anzi: motivazioni di carattere trasportistico, economico e sociale la giustificano”. E quindi si farà e “verrà chiesto alla Ue di partecipare al finanziamento”. Sembra una barzelletta: in studi, lavori, consulenze e altro, per il ponte sono stati spesi già 960 milioni (300 nel solo 2010-2013); intanto la concessionaria, la Stretto di Messina Spa, da 10 anni in liquidazione, è ancora lì. Ora si riparte.

Nelle slide illustrate da Giovannini, tra le “motivazioni socio-economiche” che giustificano il ponte c’è l’arretratezza dell’area: calo ventennale della popolazione (-1,2% tra 2000 e 2019 rispetto al Nord); dell’occupazione (-11,7% rispetto al Centro-Nord e allo stesso Mezzogiorno) e del Pil (-15,3% rispetto al Centro-Nord). Dati che dovrebbero migliorare grazie a una mega-opera di cui non si conoscono nemmeno le stime di traffico. Giovannini ha spiegato che “l’assenza di un collegamento stabile penalizza in modo rilevante il traffico ferroviario, gli spostamenti di breve distanza e quelli da e per il Mezzogiorno” e che l’attraversamento “potrebbe modificare nel tempo le scelte di approdo di taluni traffici”. Quali? Non si sa, ma a braccio (il testo non compare nelle slide) il ministro ammette che “analisi condotte mostrano che gran parte del traffico merci marittimo non si fermerebbe in Sicilia, ma proseguirebbe verso scali del Centro-Nord, Genova e Trieste per i costi decisamente più bassi”.

Curioso, visto che la mozione parlamentare motiva il ponte con la possibilità di “intercettare il traffico merci che, dal Canale di Suez, oggi si dirige verso Gibilterra per puntare sui porti del Nord Europa, quando invece la Sicilia col porto di Augusta collegato all’Alta velocità potrebbe rappresentare un hub strategico nel Mediterraneo”. Giovannini è costretto ad ammettere che il ponte lo deve pagare lo Stato, perché “se anche partecipassero i privati il costo di realizzazione e manutenzione imporrebbe dei canoni di utilizzo estremamente elevati che finirebbero per scaricarsi sulla finanza pubblica”. Tradotto: il progetto non sta in piedi a meno di chiedere dei pedaggi ad auto e treni così elevati da renderli anti-economici (e quindi, alla fine, pagherebbe comunque lo Stato).

Centrodestra e Iv, come detto, si sono scagliati contro il ministro. Vorrebbero che si ritornasse al progetto di Eurolink. Subito. “Si mette in discussione un iter iniziato da qualche decennio, con atti che sono ancora validi – dice Stefania Prestigiacomo (Fi) –. Il progetto ha superato tutti i vagli di legge”. La realtà è ovviamente diversa. Giovannini ha dovuto ricordare che il vecchio progetto ha problemi enormi: non ha mai ottemperato a tutte le prescrizioni della valutazione di impatto ambientale e che per una parte dell’anno il ponte a campata unica dovrebbe stare chiuso a causa del vento, costringendo comunque a mantenere in vita il sistema dei traghetti.

L’impatto ambientale, peraltro, è assente nella relazione dei tecnici ministeriali: verrà approfondito più avanti, pare, visto che la commissione non aveva al suo interno tecnici del settore. Senza considerare il fatto che il progetto, in qualunque caso, non potrà essere finanziato dal Pnrr o altro, perché “non rispetta il requisito di non danneggiare l’ambiente”.

Vale la pena, a questo punto, ricordare che Eurolink ha fatto causa allo Stato. Mentre Renzi e Di Maio lo elogiavano, Salini chiedeva 700 milioni di danni: in primo grado ha perso, la sentenza d’appello è attesa a breve. Ora ha delle ragioni in più: il suo progetto potrebbe essere recuperato. Mal che vada, c’è comunque qualche decina di milioni in nuove consulenze…

ILFQ