sabato 2 marzo 2024

Una spiegazione semplice dell’entanglement quantistico. - Elena Buratin

 

L'entanglement, o correlazione quantistica, è un legame fra due o più particelle che hanno proprietà correlate.

L'entanglement, anche chiamato correlazione quantistica, è un legame fra due o più particelle che hanno proprietà correlate, chiamate stati quantici. Ma che cos'è esattamente l'entanglement? A che scala si manifesta? Chi lo ha teorizzato? Scopriamolo insieme!

Alcune nozioni base.

La meccanica classica, quella di Newton per intenderci, descrive le proprietà e il comportamento della materia a grande scala. La meccanica quantistica, invece, descrive  il comportamento microscopico di singole particelle che si comportano in modo contro-intuitivo, diversamente da come ci verrebbe spontaneo pensare. L'aggettivo "quantistico" deriva dal termine latino "quantum" riferito alla quantità che identifica il più piccolo pacchetto indivisibile di una certa grandezza.

Cos'è l'entanglement?

"Entanglement" (in inglese, "groviglio", "intreccio") è un termine coniato da Erwin Schrödinger nel 1935 e in meccanica quantistica indica un legame fra particelle. È definito da una funzione, chiamata funzione d'onda di un sistema, che descrive le proprietà delle particelle come fossero un unico oggetto, anche se le particelle si trovano ad enorme distanza. Questa correlazione permette alla prima particella di influenzare la seconda istantaneamente, e viceversa.

Ma non tutte le particelle sono "entangled", ovvero aggrovigliate. Affinché questa correlazione abbia luogo, cioè per far sì che le due particelle abbiano stati quantici correlati, queste due particelle devono essere prodotte simultaneamente da un'interazione fisica. Un tipico esempio di stato quantico è lo spin di una particella. Esso può assumere valore positivo o negativo. Quando abbiamo a che fare con particelle "entangled", quindi unite nel legame, la somma degli spin delle due particelle è pari a zero. Dunque se si misura lo spin di una delle due, automaticamente ed istantaneamente si conoscerà anche lo spin dell'altra.

È un po' come prendere un paio di guanti e di chiuderli separatamente in due scatole diverse. Se aprendo la prima scatola trovate il guanto destro, saprete immediatamente che nella seconda scatola c'è quello sinistro.

Ma com'è fatta la realtà quando nessuno la guarda? Gli spin delle due particelle sono definiti già in partenza o si materializzano solo nel momento dell'osservazione?

Diversi punti di vista.

Una prima corrente di pensiero fu capitanata da Niels Bohr, grande sostenitore della meccanica quantistica. Questa corrente riteneva che le particelle nascessero quando osservate e che solo la loro funzione onda del sistema fosse reale prima dell'osservazione.

Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen, invece, erano convinti che le particelle nascessero già con le loro caratteristiche (realismo locale), in quanto la relatività aveva dimostrato che nessuna informazione poteva trasmettersi istantaneamente, viaggiando più veloce della luce.

Questo fenomeno istantaneo, l'entanglement, doveva quindi essere legato a delle variabili nascoste, a noi sconosciute, le quali definiscono lo spin delle particelle prima ancora di effettuare l'osservazione.

Questi scienziati definirono la meccanica quantistica incompleta e mossero le loro critiche nel famoso paradosso EPR, acronimo derivato dalle loro iniziali.

Verifica sperimentale.

Nel 1964 John Bell identificò un metodo basato sulle probabilità, chiamato teorema di Bell, per capire se lo stato quantico delle due particelle entangled fosse definito fin dall'inizio (seguendo l'idea di Einstein, Podolsky e Rosen) o se si manifestasse solo a conseguenza dell'osservazione (come nell'ipotesi di Bohr).

A causa di difficoltà tecnologiche si dovette aspettare fino al 1982, quando Alain Aspect misurò il comportamento di fotoni entangled e validò la teoria di Bohr. Einstein aveva quindi torto.

Fintantoché le due particelle non vengono osservate, i loro spin rimangono indefiniti, ovvero entrambe le particelle hanno al tempo stesso spin positivo e negativo, secondo il principio di sovrapposizione degli stati. È la sola presenza dell'osservatore ad interferire con il sistema e a calarlo nella "realtà".

Conoscenza istantanea.

L'entanglement permette di conoscere istantaneamente il comportamento della seconda particella, non per via di un trasferimento di informazioni più rapido della luce, ma perché le due particelle sono di fatto un unico sistema governato da una sola funzione d'onda.

Una perturbazione esterna locale, come l'arrivo di un fotone o di un osservatore, non altera solo il comportamento della prima particella, ma influenza tutto il sistema, e di conseguenza definisce lo stato quantistico anche della seconda.

Una piccola precisazione finale. L'esempio dei guanti, utile per comprendere il fenomeno, non calza più perfettamente. Il guanto destro e quello sinistro, infatti, sono definiti fin dall'inizio, mentre lo stato quantico delle particelle non lo è. È un'interferenza esterna a definirne lo stato.

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martedì 27 febbraio 2024

Perché questo enorme labirinto in Egitto è nascosto al pubblico? - Deslok

 

Nel 2008, un gruppo di ricercatori si è recato in Egitto per condurre un’indagine su un labirinto perduto che era stato descritto da diversi autori classici. Secondo i racconti, il tempio sotterraneo conteneva 3000 stanze ed era pieno di arte antica.

Il labirinto sparì due millenni fa sotto la vasta sabbia egiziana. I ricercatori hanno esaminato il territorio utilizzando tecnologie che non erano mai state utilizzate in una spedizione. La spedizione iniziò il 18 febbraio e durò fino al 12 marzo. Alla fine della loro indagine, i ricercatori hanno concluso che esisteva, in effetti hanno scoperto un tempio sotterraneo all’interno dell’area.

I ricercatori hanno, quindi, presentato il risultato delle loro ricerche e tenuto una conferenza per spiegare al pubblico ciò che avevano scoperto. Sfortunatamente, da quando è successo, c’è un totale silenzio su questo argomento. Sebbene le loro scoperte sono state messe su Internet, ad oggi trovare informazioni sulla spedizione non è un compito semplice.

Erodoto ha spiegato dettagliatamente il labirinto nella sua scrittura:

“Il labirinto ha 12 campi coperti: sei file rivolte a nord e sei file rivolte a sud. All’interno, l’edificio è su due piani e contiene 3.000 stanze, di cui la metà sono sotterranee e l’altra metà direttamente sopra di loro. Sono stato portato al piano di sopra, quindi quello che dirò è la mia osservazione, ma posso parlare solo secondo il rapporto, perché gli egiziani per ordini superiori hanno rifiutato di lasciarmi vedere tutto, dato che contiene tombe dei re che costruirono il labirinto e anche le tombe dei sacri coccodrilli. Le stanze superiori, al contrario, le ho viste davvero, ed è difficile credere che siano opera degli uomini; i passaggi confusi e intricati da una stanza all’altra…erano una meraviglia infinita per me mentre passavamo da un patio alle stanze, dalle gallerie alle gallerie a più stanze, e da lì a più cortili. Il tetto di ogni camera, patio e galleria è, come le pareti, di pietra. Le pareti sono ricoperte di figure scolpite e ogni corte è squisitamente costruita in marmo bianco e circondata da un colonnato.

È oltre il mio potere descrivere. Deve essere costato di più in termini di lavoro e denaro rispetto a tutte le opere pubbliche dei greci messi insieme – sebbene nessuno possa negare che i templi di Efeso e Samo siano edifici notevoli. Le piramidi sono strutture sorprendenti, ciascuna uguale a molte delle opere più ambiziose della Grecia; ma il labirinto li sopraffà.”

Ed Erodoto non è il primo o il solo storico a parlare del labirinto. Una varietà di autori classici tra cui Manetho Aegyptiaca, Diodoro Siculo, Strabone, Plinio e Pomponio Mela sostenevano anche di aver visto il labirinto in prima persona. Inoltre, le diverse descrizioni fornite dagli scrittori sembrano essere coerenti tra loro.

Sfortunatamente cercando su internet non si trova quasi nessuna notizia del labirinto. Tuttavia, potete guardare la seguente lezione tenuta dai ricercatori che l’hanno visto in prima persona. Diffondi questo articolo e fai pressioni sul mondo per ottenere risposte. Perché un labirinto così incredibile è tutt’oggi tenuto nascosto?

https://www.hackthematrix.it/perche-questo-enorme-labirinto-in-egitto-e-nascosto-al-pubblico/?feed_id=170922&_unique_id=65d6ff051ee0f&fbclid=IwAR1_I3baCCtZccbbM9OC_PXhEQ7X1-ZRlP-HAS9Erse2-1ub61whyjJrBGw

PLATONE AVEVA RAGIONE? - Minerva Elidi Wolf

 

Il grande filosofo Platone, una delle menti più grandi della storia umana, sul finire della sua carriera venne deriso dai suoi contemporanei a causa di uno scritto che stava componendo. La delusione fu così grande che egli decise di non completare il secondo dei tre racconti sull’argomento, e di non iniziare nemmeno a scrivere il terzo (doveva essere, infatti, una trilogia). Perché i Greci, un popolo abituato ad ascoltare storie di ogni genere, e spesso a crederci, derisero nientemeno che il grande Platone?
Ebbene, nel dialogo “Timeo” e nel dialogo parziale “Crizia” (rimasto incompiuto), Platone racconta che alcuni “misteriosi sacerdoti egiziani” della città di Sais, raccontarono al celebre statista ateniese Solone (638 a.C. – 558 a.C.) una storia. Platone (428 a.C. – 348 a.C.), circa 200 anni dopo, ricevette per vie traverse questa storia, e l’ha usata come una delle fonti da cui ricavare il suo racconto. E fin qui nulla di strano.
In questo racconto Platone dice molte cose. Tra l’altro, racconta l’esistenza di una “Grande Isola” vicino alle “Colonne D’Ercole” Sardegna, Sicilia ,Corsica?. Lui la chiama “Atlantide” o “Terra di Atlante”. I greci del suo tempo sapevano che oltre 40 anni prima di Platone, il celebre storico Erodoto (484 a.C. – 430 a.C.), nelle sue “Storie” chiamò con il nome “Atlante” la catena montuosa dell’odierno Marocco. Tra l’altro, ancora oggi conserva quel nome: Monti dell’Atlante. Per un greco di quel tempo, il nome “Atlantide” o “Terra di Atlante” indicava una terra che si trovava evidentemente ai piedi del monte Atlante. Ma tutti sapevano che non c’era nessuna “grande isola” ai piedi dell’Atlante.
Nel suo racconto, citando i “misteriosi sacerdoti egizi”, Platone affermava che quell’isola esisteva 9.000 anni prima di Solone, quindi 11.500 anni fa. E qui scoppiarono le risate. Per la gente di quel tempo, 9.000 anni prima di Solone il mondo non esisteva nemmeno (per esempio, la tradizione ebraico-cristiana pone la nascita del mondo al 4.000 a.C. circa). Per circa 2.000 anni la gente ha riso di questa affermazione di Platone. Non trovando nessuna “Grande Isola” vicino al monte Atlante, diversi scrittori la hanno “piazzata” un po' ovunque: chi in Sardegna, chi in Irlanda, chi a Cuba, chi in Indonesia. Onesti tentativi di risolvere il “rebus”.
Ma “la Terra di Atlante” è sempre rimasta lì, dove aveva detto Platone. Infatti, pochi anni fa, un piccolo, minuscolo oggetto di metallo, il satellite giapponese PALSAR, ha reso giustizia al celebre filosofo greco. Chiunque siano stati i “misteriosi sacerdoti egiziani” che avevano raccontato a Solone (e tramite lui a Platone) che vicino ai monti di Atlante, nella Terra di Atlante (o Atlantide) esisteva una grandissima isola, avevano ragione. L’articolo della rivista “Nature”, del 10 Novembre 2015, intitolato “African humid periods triggered the reactivation of a large river system in Western Sahara”, a prima firma di C. Skonieczny, parla “di un grande sistema fluviale nel Sahara occidentale, che trae le sue sorgenti dagli altopiani dell'Hoggar e dalle montagne dell'Atlante meridionale in Algeria. Questa cosiddetta valle del fiume Tamanrasett è stata descritta come un possibile vasto e antico sistema idrografico”. L’articolo continua scendendo nei dettagli dal punto di vista geologico. Per farla breve, il PALSAR ha scoperto un mega-fiume gigantesco, oggi inaridito, che partiva proprio dai monti di Atlante e tagliava tutto l’angolo a Nord-Ovest dell’Africa, sfociando nella odierna Mauritania.
La “valle del fiume” del Tamanrasett ha una ampiezza di 90 km circa. La foce di questo mega-fiume, oggi situata sotto il mare, era larga 400 km. Era un “mostro” paragonabile al Rio delle Amazzoni, un fiume così grande che in diversi punti è indistinguibile dal mare. Questo vuol dire che questo fiume poteva raggiungere una ampiezza simile da costa a costa. Immaginate un osservatore a livello del terreno. Come avrebbe fatto a capire che si trattava di un fiume, oppure di un mare, se la costa opposta era a 90 km di distanza? Ad eccezione della salinità delle acque (ma non sappiamo se questo aspetto fosse compreso), nulla avrebbe permesso a quell’osservatore di capire se si trattasse di un fiume o di un mare. Tanto per dire, è una distanza superiore allo stretto di Messina e allo Stretto di Gibilterra messi insieme.
Guardando la regione dall’alto, si comprende che quando scorreva il mega-fiume Tamanrasett, durante “l´Ultimo Periodo Umido Africano”, (tra 14.500 e 7.000 anni fa circa, con strascichi fino a 5.500 anni fa), tranne che per un piccolissimo pezzettino a Nord-Est, la “Terra di Atlante”, o “Atlantide”, o territori a Sud del Monte Atlante, era davvero un´isola. A Nord era circondata dal Mar Mediterraneo. Ad Ovest era circondata dall’Oceano Atlantico. A Sud era circondata dal mega-fiume Tamanrasett. Ad Est era quasi completamente circondata dallo stesso fiume, tranne un pezzetto costituito dalla catena montuosa di Atlante. Si può davvero chiamarla “isola”? Nel senso greco “Sì”.
Tutti conosciamo cosa è il Peloponneso, una delle zone più importanti della Grecia. Ebbene, il Peloponneso ha esattamente la stessa conformazione geografica della “Terra di Atlante”. È una “quasi isola”, attaccata alla terraferma da un piccolo istmo. Cosa vuol dire il termine Peloponneso? Questa parola deriva dal greco Πέλοπος νῆσος (Pelopos Nesos), vale a dire “Isola di Pelope”. Questa è una prova non confutabile che per i greci dei tempi antichi, una “quasi isola” come il Peloponneso poteva essere considerata un νῆσος, o “isola”. Nulla di strano quindi se Solone, e dopo di lui Platone, chiamarono la “quasi isola” del Monte Atlante, o Atlantide, con νῆσος, o “Nesos”, il termine che noi traduciamo con isola nel senso moderno del termine.
Quella era davvero l’Isola di Atlantide? Quella “quasi isola” non può essere considerata “Atlantide” se non supera “l’esame dei cerchi”. Cosa vogliamo dire? Nel suo racconto Platone dice che nelle vicinanze dell’Isola di Atlantide si trovavano 2 strutture uniche nel loro genere. Secondo il racconto, una di queste strutture geologiche naturali era stata creata direttamente da Poseidone, e quindi la chiamiamo “Isola di Poseidone”. Si trattava di una montagnetta centrale, attorno alla quale c’erano 3 anelli di mare e 2 di terra, perfettamente concentrici. Non viene detto nulla riguardo alla sua grandezza. Viene detto che era “sacra”, inaccessibile e disabitata.
La seconda struttura, su cui gli umani edificarono una città, la possiamo chiamare “Isola della Metropoli”. Era una struttura geologica naturale che ricalcava molto da vicino la precedente, ma in questo caso vengono date le sue misure. C’era un’isola centrale pianeggiante ampia circa 900 metri, seguita da 3 cerchi di mare e 2 di terra, perfettamente concentrici. Il totale dell’ampiezza era circa 5 chilometri. Attorno a questa struttura geologica naturale (in cui risiedeva il re e la nobiltà) si estendeva la città vera e propria di Atlantide.
Quante possibilità ci sono di trovare vicino al percorso dell’antico fiume Tamanrasett non una, ma due strutture geologiche naturali formate da cerchi concentrici, una delle quali deve essere ampia 5 chilometri, e avere una specie di isola centrale ampia 900 metri? Direte: “Nessuna!”. Ebbene, come viene detto nel libro “Atlantide 2021 – Il continente ritrovato”, ancora una volta grazie ai satelliti, queste due strutture sono state scoperte proprio lungo il percorso del fiume Tamanrasett.
La prima struttura geologica naturale viene chiamata “Cupola di Semsiyat”. Si trova sull'altopiano di Chinguetti, nel deserto della Mauritania, a 21° 0' Nord di latitudine e 11° 05' Ovest di longitudine. Le sue misure sono esattamente quelle indicate da Platone per l’Isola della Metropoli. La sua ampiezza massima è esattamente di 5 chilometri. Al centro si trova una formazione ampia esattamente 900 – 100 metri, quanto era “l’isola centrale” della Metropoli di Atlantide. Si intravede anche un secondo cerchio interno, esattamente della misura descritta da Platone. La seconda struttura si chiama “Struttura di Richat”, e si trova a circa 20 chilometri di distanza. È ampia circa 40 km, ed è composta da una zona centrale dalla quale partono una serie di “cerchi di roccia”. Ci sono i chiari resti che indicano che una volta quello era un lago da cui affioravano dei “cerchi di terra”. È la rappresentazione perfetta “dell’Isola di Poseidone” descritta da Platone.
Oggi i satelliti hanno mappato tutta la superficie terrestre. Non esistono altre strutture simili sulla Terra che abbiano quelle misure o quelle caratteristiche. Sono “uniche”. Quindi, finché non verrà scoperto nulla di simile in giro per il mondo, in base a tutte le prove fornite dalla più moderna tecnologia, possiamo dire di aver davvero trovato la terra di cui parlava Platone: Atlantide.
Quindi i “misteriosi sacerdoti egiziani” non avevano mentito a Solone, e di conseguenza a Platone, quando gli dissero che ai piedi del monte Atlante, circa 11.500 anni fa, si trovava “una Grande Isola”. Ma questo fa sorgere altre importantissime domande: come lo sapevano? Quale civiltà era a conoscenza di fatti accaduti tra 14.500 e 7.000 anni fa? Questa zona dell’Africa è mai affondata? E che relazione ha “Atlantide” con Nan Madol e il “Continente sommerso” di Sundaland e Sahuland, recentemente scoperto dai ricercatori? Dove sono andati a finire tutti quanti? Un possibile indizio può darlo un unico disegno riportato in tutte le culture antiche, ossia la spirale, la troviamo ovunque sul pianeta. Che il misterioso popolo di Atlantide si sia, dopo la sua distruzione per cause ancora da scoprire, disperso in tutto il globo?

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lunedì 26 febbraio 2024

IL MISTERO DELLA SCOMPARSA DEI “VARNA”.

 

Fino a non molto tempo fa, la scienza si era convinta che gli uomini che vivevano in Europa circa 7.000 anni fa erano poco più che dei cavernicoli, che vivevano in capanne. Ora sappiamo che non potevamo essere più lontani dalla realtà. È solo da alcuni decenni che, infatti, in maniera del tutto casuale, venne scoperta una necropoli a Varna, una cittadina portuale e balneare bulgara sul Mar Nero, che conta oggi circa 330.000 abitanti. In quella zona sono state ritrovate circa 294 tombe, risalenti ad almeno 6.600 anni fa. Vale a dire che queste tombe sono almeno 1.400 anni più antiche della datazione comunemente affibbiata alle piramidi di Giza. È difatti la più antica necropoli d’Europa, ed è stata costruita in un periodo in cui, normalmente, si pensava non dovessero esistere delle necropoli. Perché?

Le necropoli altro non sono che gli antichi cimiteri. Ma se esiste un cimitero, ossia un luogo dove un gruppo di persone seppellisce i suoi cari, è ovvio che debba esistere un villaggio o una città in cui quei cari, prima di morire, sono vissuti. Ma era opinione comune che circa 7.000 anni fa in Europa gli umani non vivessero né in villaggi né tantomeno in città. Quindi l’esistenza di una necropoli di almeno 6.600 anni fa smentisce platealmente quello che pensavano gli archeologi. (Va detto che l’insediamento di Varna da cui provenivano quelle salme non è stato ancora ritrovato. Forse si trova interrato chissà dove).

Ma la necropoli di Varna non è un cimitero qualsiasi. Cosa ci si aspetterebbe di trovare in una necropoli così antica, della cosiddetta “età della pietra”? Pelli? Punte di frecce? Asce di pietra? E invece in molte di quelle tombe è stato trovato il più antico tesoro in oro della storia dell’uomo. Bracciali in oro, orecchini in oro, perfino oggetti a carattere sessuale in oro. Nel libro “Il mondo perduto della vecchia Europa – la valle del Danubio – 5.000 – 3.500 A.C.” viene detto che “il peso e il numero di oggetti d’oro trovati nella necropoli di Varna superano più volte il peso combinato e il numero di tutti i reperti d'oro trovati in tutti i siti di scavo dello stesso millennio, 5000-4000 a.C., provenienti da tutto il mondo, compresa la Mesopotamia e l’Egitto”. Avete capito bene. Nello stesso periodo, c’erano più oggetti d’ oro lavorati a Varna che in tutto il resto del mondo messo assieme. Il periodo in cui viveva la cultura Varna, quindi, più che “età della pietra” andrebbe chiamata “età dell’oro”.

La presenza di tanti oggetti d’oro in un numero elevato di tombe, evidenzia che questi oggetti fossero di uso comune per la gente di quel tempo, fino al punto di metterli nelle tombe con i loro morti. Questo indica che quella civiltà di ben 6.600 anni fa aveva un’ottima conoscenza della lavorazione dell’oro. Ma, secondo lo schema che l’archeologia ha avuto finora, quella civiltà in quella zona non avrebbe dovuto avere tale abilità.

Inoltre, non tutte le tombe avevano la stessa quantità di oggetti preziosi. Poche tombe erano stracolme di oro, altre avevano solo alcuni oggetti in oro. Questo vuol dire che esisteva già una società, delle classi sociali, e sicuramente del commercio in oro. La necropoli di Varna lascia supporre che coloro che la costruirono erano molto più vicini ad una civiltà intesa in senso moderno, che non a un gruppo di cacciatori-raccoglitori che lottava per sopravvivere, come si pensava in precedenza. Avevano la loro struttura sociale, il loro credo nei defunti, il loro commercio, il loro senso artistico, esattamente come li abbiamo noi oggi. Tutto questo lascia presupporre l’esistenza di villaggi/città, che non sono ancora stati ritrovati.

Dove sono finiti i villaggi o le città da cui provenivano le persone sepolte nella necropoli di Varna? Non sono stati mai ritrovati. Ma, come abbiamo detto precedentemente, è una ovvietà che se esiste un cimitero, deve esistere almeno un villaggio di grosse dimensioni da cui provenivano i morti. E doveva essere la città/villaggio di gran lunga più ricca e avanzata di qualsiasi altra città del mondo dello stesso periodo di tempo, visto che le loro tombe erano più ricche di quelle di tutto il mondo messo insieme (ovviamente rapportato allo stesso periodo).

Cosa ha spazzato via la misteriosa “Cultura Varna”?

L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA

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Blanet: esistono i pianeti che orbitano intorno ai buchi neri? - Angelo Petrone

La possibilità che esistano dei pianeti che orbitano intorno ai buchi neri è concreta.

Nell’infinita vastità dello spazio, dove le leggi della fisica sono sottoposte a prove estreme, si pongono domande che sfidano la nostra comprensione dell’universo. Una di queste domande affascinanti è se potrebbero esistere pianeti che orbitano attorno ai buchi neri. Questa idea potrebbe sembrare al di là della fantasia, ma gli sviluppi recenti nella nostra comprensione dei buchi neri e dei sistemi planetari ci portano a considerarla seriamente. Un buco nero è una regione dello spazio dove la gravità è così intensa che nulla, nemmeno la luce, può sfuggire alla sua attrazione. Tuttavia, ciò non significa che la presenza di un buco nero escluda la possibilità di esistenza di pianeti nelle sue vicinanze. In effetti, la presenza di un buco nero potrebbe persino favorire la formazione di pianeti intorno ad esso. La chiave per comprendere questa possibilità risiede nella cosiddetta “zona abitabile” attorno al buco nero. Questa zona si trova ad una distanza tale dal buco nero che le condizioni permettono la presenza di acqua liquida sulla superficie di un pianeta. Anche se la presenza di un buco nero potrebbe comportare intense radiazioni e turbolenze gravitazionali, una distanza sufficientemente grande potrebbe consentire la formazione e il mantenimento di pianeti in orbite stabili.

Le simulazioni al computer suggeriscono che, in certe circostanze, potrebbe addirittura verificarsi la formazione di pianeti rocciosi o giganti gassosi in orbite stabili intorno ai buchi neri. Questi pianeti potrebbero avere condizioni atmosferiche e climatiche uniche, influenzate dalle particolari caratteristiche del loro ambiente cosmico. Tuttavia, trovare evidenze dirette di pianeti in orbita attorno ai buchi neri rimane una sfida tecnologica significativa. Gli attuali metodi di osservazione astronomica potrebbero non essere sufficientemente sensibili per rilevare tali pianeti, specialmente considerando che potrebbero essere oscurati dalla luminosità del buco nero stesso. Nonostante le sfide, la possibilità di pianeti orbitanti attorno ai buchi neri continua ad intrigare gli astronomi e gli appassionati di astronomia. Questo concetto non solo stimola la nostra immaginazione, ma potrebbe anche offrire nuove prospettive sulla diversità dei sistemi planetari e sull’ampia gamma di condizioni che possono supportare la vita nell’universo. In definitiva, mentre continuiamo a esplorare le profondità dello spazio e a scoprire nuovi misteri dell’universo, la domanda se possano esistere pianeti in orbita attorno ai buchi neri rimane una delle più affascinanti e stimolanti da esplorare.

https://www.scienzenotizie.it/2024/02/07/blanet-esistono-i-pianeti-che-orbitano-intorno-ai-buchi-neri-4079587?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook

domenica 25 febbraio 2024

Scoperta la “Città di Dio” nello spazio: la nostra visione dell’Universo cambia radicalmente. - Francesca Zavettieri

 

Era il 26 dicembre 1994 quando una fotografia della galassia NGC3079 ha catturato l'attenzione degli astronomi di tutto il mondo.

Nel vasto e infinito regno dell’Universo, l’umanità ha sempre contemplato con meraviglia il mistero delle stelle. Da tempi remoti, le domande sulla possibile presenza di vita al di là del nostro mondo hanno alimentato il fervore della curiosità umana, spingendo scienziati e appassionati a scrutare il cielo notturno con occhi speranzosi. Tuttavia, niente avrebbe potuto prepararci al polverone alzatosi nel 1994 dopo la scoperta di quella che un giornale del tempo ha definito la “Città di Dio” nello spazio.

Come tutto è iniziato: uno scatto di Hubble

Tutto ha avuto inizio con una singola immagine, immortalata dal celebre telescopio spaziale Hubble. Era il 26 dicembre 1994 quando una fotografia della galassia NGC 3079 ha catturato l’attenzione degli astronomi di tutto il mondo. Situata a una distanza di 55 milioni di anni luce, questa galassia sembrava ospitare un dettaglio particolare: una macchia bianca, apparentemente fluttuante tra le stelle.

Ciò che è seguito è stato un processo di speculazione senza precedenti. I ricercatori hanno studiato attentamente l’immagine, ingrandendo e scrutando ogni singolo pixel. Fino a quando la popolazione si è divisa in due categorie: i ricercatori che ammiravano la bellezza della galassia, senza rinvenire alcun dato sulla presunta Città di Dio e chi, invece, ci immaginava una struttura che ricordava una città, sospesa nell’oscurità dello spazio. A questa scoperta sono seguiti numerosi dibattiti non scientifici in cui ognuno ha espresso la propria opinione, generando caos e confusione.

La “Città di Dio” esiste?

Fu solo questione di tempo prima che la notizia si diffondesse al di fuori dei circoli scientifici, arrivando alla luce del giorno attraverso le pagine di una testata giornalistica. Il World Weekly News, nel 1995, dedicò a questa scoperta un titolo in prima pagina: “Scoperta la Città di Dio“. Questo titolo, tanto sensazionale quanto evocativo, ha dato il via all’isteria comune e alle teorie del complotto.

C’è chi ha ipotizzato che la presunta immagine della Città di Dio sia stata pubblicata e poi “eliminata per non rivelare il segreto“, chi, invece, affidandosi alla scienza ha creduto all’evidenza dei fatti.

L’immagine, non presente in nessuno dei canali ufficiali, sarebbe questa. Sembra inutile precisare quanto sia palese la sua non veridicità.









Perché ne parliamo adesso? Siamo arrivati ad un punto tecnologico tale da poter discernere la veridicità delle immagini spaziale, perciò è nostro dovere fare chiarezza su quelle vicende perse nel dimenticatoio, che ogni tanto risalgono e fanno scalpore.

Le domande che questa scoperta solleva vanno ben oltre la semplice ricerca di vita extraterrestre: mettono in discussione le nostre concezioni più profonde della realtà e la capacità dell’uomo di trovare risposte anche se non ci sono, per soccombere al non volere accettare l’unica realtà: non abbiamo tutte le risposte.

https://www.meteoweb.eu/2024/02/scoperta-la-citta-di-dio-nello-spazio-e-una-rivoluzione/1001363396/

lunedì 19 febbraio 2024

Il popolo dei Guanci: gli ultimi atlantidei. - Deslok

 

Le Isole Canarie furono abitate dai Guanci dalle abitudini così strane da porre ben più di un interrogativo agli studiosi. Furono i veri sopravvissuti all’inabissamento di Atlantide?

Quando gli Spagnoli nel XIII secolo approdarono sulle Isole Canarie ed entrarono in contatto con i suoi abitanti, i Guanci, questi ultimi rimasero scioccati: essi erano infatti convinti di essere gli unici sopravvissuti ad un’antica catastrofe che serbavano indelebilmente nella loro memoria mitica. Dissero agli Spagnoli che le isole che formavano l’arcipelago, in realtà, erano i resti delle cime delle montagne facenti parte di un’antica terra sommersa dalle acque dopo un violento cataclisma. Alcuni cronisti riportano anche che essi sostenevano di provenire originariamente da una grande isola scomparsa nell’oceano. Si narra inoltre che gli Arabi, quando nel 1016 scoprirono l’arcipelago, le chiamarono Khaledat (l’isola che non scompare).

Dei Guanci si sa poco e nulla. A parte alcune incisioni simboliche e indecifrabili all’interno delle caverne, essi non hanno lasciato pressoché alcuna testimonianza scritta della loro storia. Le uniche informazioni disponibili sono state raccolte da cronisti, storici ed esploratori spagnoli in seguito alla conquista avvenuta a partire dal XIII secolo. I Guanci passarono alla storia come il primo popolo ad essere vittima del colonialismo di matrice ispano-cattolica. Fisicamente, si presentavano generalmente alti di statura—i maschi adulti avevano un’altezza media di circa 1,80 m—di corporatura robusta e possente. Avevano la pelle bianca e, i più, capelli biondi o rossi e occhi azzurri o grigi. Gli uomini portavano inoltre lunghe e folte barbe.

Un popolo dai grandi misteri.

Gli spagnoli, al momento del loro arrivo tra i Guanci, vi trovarono una cultura più unica che rara. Essi vivevano perlopiù in grotte naturali o artificiali, che decoravano con figure astratte e geometriche, simboli misteriosi formati da spirali e triangoli, similmente ai Cro-Magnon europeidi dell’Era Glaciale. Scavavano nel tufo le proprie architetture, creando colonnati quadrati scolpiti nelle pareti di roccia. Erano pressoché rimasti all’età della pietra: non conoscevano la lavorazione dei metalli ed usavano utensili di pietra, osso, legno, conchiglie e terracotta.

L’aspetto sconcertante riguardava però la cultura di queste genti, assurdamente complessa ed evoluta soprattutto dal punto di vista sociale. È noto, infatti, che normalmente le società cosiddette ‘primitive’ non hanno classi né gerarchie; i Guanci, al contrario, avevano re, principi, nobili, dinastie, una classe sacerdotale ben organizzata e una casta di guerrieri, come se fosse una società urbana. La trasmissione ereditaria della regalità avveniva per via matrilineare, cioè sebbene l’autorità fosse detenuta dal re, egli ereditava la sua dignità dalla madre.

Possedevano inoltre una scrittura alfabetica, stranamente somigliante all’alfabeto libico parlato nella regioni del Sahara dai Tuareg/Berberi di etnia caucasica. Gli Spagnoli constatarono, inoltre, che le donne godevano degli stessi diritti degli uomini e supposero che, forse, in passato la società guanche fosse fondata su una struttura matriarcale, simile a quella della Creta arcaica o della Sicilia delle Dee Madri. Per esempio, una regola consuetudinaria proibiva ad un uomo di rivolgere la parola per primo ad una donna, obbligandolo ad aspettare pazientemente che fosse quest’ultima a farsi avanti.

Per quanto riguarda la componente maschile della società guanche, ancora oggi vengono ricordati i nomi degli antichi re ed eroi che governarono prima dell’arrivo degli Spagnoli e che si opposero fieramente per oltre un secolo alla loro conquista: Tinerfe, da cui il nome dell’isola di Tenerife, Pelinor, Bencomo, Achaimo, Doramas. Sul pontile del porto di Tenerife si possono ammirare le statue dei re guanche, chiamati Menceyes. Curiosamente, al momento dell’arrivo degli Spagnoli, il territorio guanche era suddiviso in 10 distretti, ognuno governato da un Mencey. Il parallelismo con il governo di Atlantide per come ce lo racconta Platone è evidente.

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I Guanci depositari della cultura di Atlantide.

A Guimar, sulla costa orientale di Tenerife, a metà degli anni ’80 nel corso di uno scavo vennero alla luce alcune costruzioni piramidali, ciascuna costituita da cinque gradoni di pietra lavica di forma rettangolare, che assomigliano stranamente a quelle edificate in Messico dai Maya e dagli Aztechi e in Medio Oriente dai Babilonesi. Le piramidi originariamente erano nove, ma ne sono rimaste soltanto sei. Vennero scoperte, studiate e rese note al mondo dal lavoro del celebre ricercatore e navigatore Thor Heyerdahl, il quale mise in evidenza che le piramidi avevano un preciso orientamento astronomico.

Tutte le piramidi, infatti, presentano sul lato occidentale una scalinata, salendo la quale è possibile seguire il percorso del Sole nascente nel giorno del solstizio d’inverno. Nel giorno del solstizio d’estate si può assistere, invece, a un doppio tramonto dalla sommità della piramide più elevata: il Sole scende dapprima dietro la vetta di un’alta montagna, la oltrepassa, appare di nuovo per poi tramontare dietro la montagna accanto alla prima. La presenza di piramidi, tuttavia, viene segnalata già nel 1632 dal frate francescano Juan de Abreu, che ne descrive alcune anche sull’isola di La Palma. Il cronista riferisce inoltre che tali costruzioni erano state costruite a imitazione di “una sorta di piramide naturale” costituita da un solo blocco di roccia, che veniva chiamata dai Guanci ‘Idafe‘, nome di una misteriosa divinità alla quale era consacrata.

Le divinità Guanci.

Credevano innanzitutto in un Dio Creatore, superiore a tutti gli altri, chiamato in vari modi: Acoran a Gran Canaria, Achaman a Tenerife, Eraoranhan a El Hierro, Abora a La Palma, Orahan a La Gomera. Alcuni studiosi lo ritengono identificabile con l’egizio Amun. Adoravano anche Magec, il Dio del Sole.

Credevano, inoltre, che l’anima immortale di tutti gli uomini provenisse dalla Luce del Sole e fosse della medesima sostanza: conseguentemente a tale credenza, pensavano che tutti gli uomini fossero i figli divini e immortali di Magec e che, dopo la morte, sarebbero tornati nel suo Regno di Luce. Culti solari del genere si svilupparono poco prima dell’inizio della nostra era in tutta l’area mediterranea, e tali credenze erano anche vive nelle antiche civiltà precolombiane, in Messico come in Perù, nonché presso molteplici popolazioni native dell’America Settentrionale.

Tributavano culto, inoltre, a una Grande Dea Madre che chiamavano Chaxiraxi, denominata la ‘Madre del Sole’ e ‘Colei che governa il mondo’. Quando, all’inizio del XV secolo, ripescarono dal mare una statua lignea della Madonna cristiana, probabilmente frutto di un naufragio occorso a un veliero spagnolo, la identificarono immediatamente con Chaxiraxi e la adorarono in una sorta di culto sincretistico come ‘Madre della Luce del Mondo’.

Un’altra corrispondenza sconcertante con le civiltà italo-elleniche e precolombiane si ritrova nell’istituzione, presso i Guanci, di un collegio sacerdotale di monache, che vivevano in un monastero dove nessun uomo poteva avvicinarsi. Questa sorta di Vestali proto-storiche erano considerate le ‘Spose del Sole’ e il loro compito era quello di tenere sempre acceso il fuoco sacro, simboleggiante la luce e la vita eterna portata dal Dio del Sole. La somiglianza con il culto latino di Vesta (e quello ellenico di Estia), nonché con le tradizioni di numerose popolazioni amerindie (tra cui i Natchez del Mississippi meridionale) è ineccepibile.

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Le origini del popolo Guanci.

L’origine dei Guanci rimase a lungo un mistero. I ricercatori pensano che i primi coloni siano giunti nelle Canarie intorno al 3000 a.C., provenienti dall’Africa. Ciò sembrava essere in linea con il fatto che il loro alfabeto fonetico ricordava quello delle popolazioni berbere; per questo, alcuni studiosi ipotizzarono che i Guanci fossero gli ultimi superstiti di primitive popolazioni dell’Africa Settentrionale, forse di etnia fenicia o cartaginese) che anticamente si erano spinte sull’isola e ivi avevano posto i loro insediamenti.

Tuttavia, il fatto che i Guanci non praticassero assolutamente la navigazione al punto di non saper nemmeno costruire una zattera e di non essere mai entrati in contatto con le popolazioni che abitavano le isole limitrofe sembra contrastare fortemente con questa ipotesi, così come anche le caratteristiche etniche europeidi di questo popolo misterioso sembra mettere definitivamente una pietra sopra l’argomento.

Studiosi di lingua germanica videro nei Guanci i discendenti dei Vandali che anticamente invasero il Nord Africa ai tempi della caduta dell’Impero Romano. Questa ipotesi avrebbe spiegato il loro aspetto, non invece la loro lingua (nella quale non si ritrova traccia di alcuna influenza germanica) né la loro completa ignoranza della navigazione. La loro lingua, infatti, somigliava più all’antico idioma berbero parlato ancora oggi in alcune regioni dell’Atlante e dell’Algeria, nelle quali ci si può imbattere talvolta in nomadi berberi dalla pelle chiara e dagli occhi azzurri.

L’analisi forense diede la soluzione all’enigma, mediante lo studio della forma dei crani e l’analisi del DNA delle mummie ritrovate nelle catacombe all’interno delle grotte dell’isola. Con sconcerto, si scoprì che i Guanci appartenevano all’antichissima specie dei Cro-Magnon che comparve improvvisamente in Europa circa 35.000 anni fa, e che popolò l’Europa fino alla fine dell’ultima l’Era Glaciale. Gli antropologi riconobbero corrispondenze genetiche con i Baschi, i Longobardi, i Togar siberiani e—incredibilmente—con gli Indiani Dakota del Nordamerica, più noti con il nome di Sioux. In seguito a queste ricerche si determinò che, ai fini della ricostruzione dell’aspetto fisico guanche, ci si sarebbe dovuti immaginare:

« un rappresentante delle tribù di Pellerossa del Nord America, con il grosso naso aquilino e il volto quadrato, dai tratti arcaici, ma con una pigmentazione nordica. »

Si scoprì che queste popolazioni discesero dalla Francia e dalla Spagna verso lo stretto di Gibilterra e popolarono la zona del Sahara, che al tempo dell’Era Glaciale non era un deserto, ma un immenso altopiano paludoso denominato dagli antichi autori greci e latini ‘Lago Tritonide‘. Il Mare Mediterraneo, al tempo, era molto meno profondo di adesso e l’arcipelago delle Canarie formava un isolotto piuttosto grande, diviso dall’Egitto dalle fanghiglie impenetrabili del Lago Tritonide, alle cui estremità oceaniche sorgeva il monte Atlante. L’altopiano paludoso che esisteva al tempo nel Sahara occidentale nell’età greco-romana era chiamato ‘lago Tritonide’ o ‘palude Tritonide’ (Tritonias limne in greco; Tritonis lacus o T. palus in latino). Si tratta dell’attuale Schott el-Jarid, una depressione salata che si trova nella Tunisia centrale, nei pressi della città di Gafsa, oggi notevolmente ridimensionata rispetto ad un tempo e, diversamente da allora, molto più arida. È da notare il fatto che nell’area in cui risiedono gli attuali berberi, ai piedi della catena dell’Atlante, le prospezioni geologiche dicono che in passato doveva trovarsi un mare interno, ogni prosciugato, probabilmente da identificarsi con il Lago Tritonide degli autori classici, nominato da Apollonio Rodio come il luogo del naufragio degli Argonauti.

Alcuni hanno ravvisato questo legame anche nel nome con cui i Berberi del Marocco e dell’Algeria si riferiscono a sé stessi: Amazigh, estremamente simile ad ‘Amazzoni’. Vi sono poi alcune tribù berbere della Tunisia indicate col nome di ‘Figli della Sorgente’ e ‘sorgente’, nella loro lingua, si dice Attala; secondo i linguisti il fonema ATL- è da ricondurre all’acqua, non solo nella lingua dei berberi sahariani, ma persino in quella degli Aztechi, i quali denominano il luogo donde anticamente si mossero i loro antenati Aztlan.

Gli antichi Egizi sostenevano che a Ovest dell’Egitto vivessero i Libu (da qui il nome odierno della regione, la Libia), loro acerrimi nemici, dai capelli biondi o rossi e dagli occhi azzurri, che portavano in testa diademi di piume (allo stesso modo dei Nativi Americani, ci viene spontaneo notare). Negli annali egizi, tali popolazioni sono conosciute anche con la denominazione generica di «Popoli del Mare», dei quali si pensa facessero parte anche gli Shardana, antichi abitatori della Sardegna, ai quali l’isola deve l’attuale nome. Effettivamente, una parentela di sangue tra Guanci e Shardana è probabilissima, ma tutti questi riferimenti al mare e alla navigazione continuano a contrastare con l’ignoranza assoluta a riguardo da parte dei superstiti Guanci al momento della conquista spagnola.

Plinio il Vecchio riferisce che, secondo Giubia, re di Mauritania, i Cartaginesi avrebbero visitato l’arcipelago intorno al 50 a.C., sotto la direzione dell’esploratore Annone, e lo avrebbero trovato deserto. L’avrebbero però trovato disseminato di rovine ciclopiche di una civiltà scomparsa. Riguardo alla testimonianza cartaginese che riferisce l’assenza completa di popolazioni sul territorio, alcuni sostengono che essi non procedettero ad un’esplorazione dettagliata dell’arcipelago, ma si fermarono solo su poche isole.

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D’altro canto, un altro autore antico riferisce che i Greci, durante le loro esplorazioni, le trovarono popolate di una razza di ‘rossi satiri‘, con tutta probabilità un epiteto usato per indicare genti villose dai capelli rossi. Questa descrizione degli abitanti è perfettamente in linea con le caratteristiche fisiche e somatiche degli ultimi residenti delle Canarie, i Guanci incontrati dagli Spagnoli all’inizio del XIII secolo.

Il vero enigma risultano però essere i resti ciclopici di questi antichissimi agglomerati urbani. Dal momento che i Guanci, al momento della conquista spagnola, non sapevano edificare abitazioni con la pietra, si ritenne che gli attuali abitatori non erano stati i primi abitatori dell’isola. Tuttavia è anche lecito supporre che le antiche popolazioni si trovarono improvvisamente isolate dal resto del territorio in seguito a un maremoto che fece inabissare l’isola, eccezion fatta per le cime montuose più elevate, sulle quali sopravvissero appunto gruppi sporadici e degenerati degli antichi popoli atlantici. Il trauma atavico del cataclisma avrebbe fatto il resto, tenendoli per millenni lontani dall’oceano e dalla navigazione.

Alcuni studiosi fanno risalire il maremoto a 9.000 anni prima di Platone (metà del I millennio a.C), richiamandosi al racconto sull’inabissamento di Atlantide, raccontato da un sacerdote egizio di Sais a Solone circa nel 600 a.C. e riportato nel Timeo. Dal racconto si rileva che «l’Atlantide era un’isola immensa, situata nell’Oceano di faccia alle colonne d’Ercole e gli Atlantidi sarebbero stati una razza di semidèi che, degenerando dalla loro origine celeste, si corruppe frammischiandosi alle figlie dei mortali, sicché Giove li punì distruggendone la razza e il paese» (De Sanctis/Mangelli, Primitivi, religione magia e poteri occulti, 1935, p.339).

Ma la tesi che fa risalire l’inabissamento di Atlantide a 9.500 anni prima della nostra era sembra essere maggiormente in linea con la tradizione. Proclo, ad esempio, ci dice che Atlantide era formata da sette isole fra le quali sembra ci fossero anche le attuali Canarie (o meglio, la terra emersa che un tempo comprendeva tutto l’arcipelago) e che la più grande di esse, chiamata Poseidonis dal nome del sovrano del regno, esisteva ancora undicimila anni prima dell’era nostra. La tradizione indiana calcola che la sommersione sia avvenuta undicimila anni prima della nostra era ed è dunque in perfetto accordo con la tradizione greca.

Secondo molte tradizioni antiche, l’isola parzialmente sommersa undicimila anni fa (le attuali Canarie) non era che una parte dell’Atlantide originaria, mentre il continente stesso, molto più vasto, si sarebbe inabissato in epoche molto anteriori. L’eruzione di Thera (l’odierna isola di Santorini), molto più recente, avrebbe inabissato definitivamente gli ultimi territori abitati dai discendenti degli Atlantidi, tra cui gli appartenenti alla civiltà minoico-cretese.

In questo quadro, i Guanci sarebbero della stessa linea etnica originaria (quella dei Cro-Magnon proto-indoeuropei, poi suddivisasi in ‘Popoli del Mare’ o Atlantidi, Minoici, Amazzoni e più di recente berberi e tuareg) ma sarebbero rimasti isolati dalle altre popolazioni in seguito al cataclisma datato 9.500 prima della nostra era. Gli unici che si salvarono dall’inabissamento del territorio originario delle Canarie furono i pochi gruppi isolati sulle vette delle montagne. Forse proprio per questa ragione i Guanci rimasero sempre all’età della pietra e non conobbero mai la navigazione.

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