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mercoledì 23 novembre 2022

Guido Crosetto – Armi, affari e tweet: chi è consigliere fidato di Giorgia Meloni che è finito alla Difesa (con l’ombra del conflitto d’interessi) - Giuseppe Pipitone - 22.ott.2022

 

Cresciuto nella Dc, passato con Forza Italia con quattro legislature alla Camera e tre anni da sottosegretario, il neo ministro della Difesa (che in origine sembrava destinato allo Sviluppo economico) è uno dei pochi fondatori di Fdi che non è cresciuto nell'estrema da destra. Consigliere ascoltato dalla premier, è il volto moderato di Fdi nei salotti buoni. Da quando si è dimesso da deputato, nel 2019, si è dedicato agli affari: ha guidato aziende attive nel mondo delle navi da guerra, ma anche una srl familiare che si occupa di lobbying. Nel giorno della nomina al governo ha annunciato di voler lasciare ogni incarico.

Il primo tweet dopo la nomina doveva servire ad allontanare ogni accusa di conflitto d’interesse. O almeno a provarci. “Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo: mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia società (tutte legittime). Rinuncio al 90% del mio attuale reddito”, ha scritto Guido Crosetto, un minuto dopo che Giorgia Meloni ha letto il suo nome come nuovo ministro della Difesa. Non è bastato visto che, nel giorno della nascita del nuovo governo, in tanti ricordano il suo recentissimo passato – praticamente presente – da imprenditore attivo nel ramo Difesa: lo stesso delicatissimo settore che ora gestirà da ministro. Proprio per questo motivo i rumors della vigilia accreditavano Crosetto allo Sviluppo economico. Alla fine, però, al Mise è andato Adolfo Urso, che invece al contrario sembrava certo della nomina alla Difesa. E’ probabile che sul destino dell’ex presidente del Copasir abbia pesato la moglie, che viene dal Lugansk, repubblica russofona inglobata da Vladimir Putin. Dopo le “sparate” di Silvio Berlusconi sull’Ucraina e sull’inquilino del Cremlino, era dunque il caso di metterlo al vertice della Difesa italiana? Chissà, forse gli alleati atlantici non avrebbero gradito. In ogni caso Meloni ha deciso di dirottare Urso allo Sviluppo economico, che ora si chiama ministero delle Imprese e del Made in Italy. E ha preferito rischiare di prendersi le accuse di conflitto d’interessi (avanzate per esempio da Angelo Bonelli dei Verdi), pur di piazzare alla Difesa uno dei suoi consiglieri più fidati. Uno di quelli che sta in Fdi fin dal principio.

Il gigante e la bambina – All’inizio gli appassionati di Lucio Dalla se l’erano cavata senza troppa originalità: il gigante e la bambina li avevano ribattezzati. La bambina era Meloni, il gigante ovviamente era Crosetto, un uomo di quasi due metri che all’Auditorium Conciliazione, a Roma, si era caricato in braccio la piccola aspirante leader, oggi presidente del consiglio. Era il 2012 e stava per nascere Fratelli d’Italia: dal Pdl uscirono Meloni, Ignazio La Russa e tutta una serie di ex An che non avevano seguito Gianfranco Fini nello strappo di Futuro e Libertà. E poi c’era lui, il piemontese col fisico da gigante e il volto buono che veniva da tutt’altra storia: niente fiamme tricolori e botte giovanili, niente braccia tese, il culto di Giorgio Almirante e nostalgici souvenir del ventennio. Se La Russa faceva rissa nel Fuan degli anni di piombo e Meloni ha scalato Azione giovani nei primi Duemila, Crosetto, infatti, è cresciuto sotto la rassicurante ombra dello Scudo crociato. “Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero…”, rivendicava su La7 con una mezza risata. Una battuta utile a difendere Meloni da chi ciclicamente insiste (o insisteva) chiedendole di prendere le distanze dal fascismo.

Il volto moderato di un partito non moderato – In effetti una delle cose che riesce meglio a Crosetto è proprio questa: offrire il suo corpo per difendere la ragazza della Garbatella che si è scelto come leader, in tempi non sospetti. Anni fa quando tutti parlavano ancora solo di Berlusconi e Matteo Salvini lui faceva notare come nei sondaggi Giorgia fosse avanti, anche se poi Fdi faticava a superare il 5 percento. I fatti gli hanno dato ragione: se oggi Meloni entra a Palazzo Chigi un po’ di merito è anche di Crosetto, il gigante buono che della capa di Fdi è ascoltatissimo consigliere. Da anni è Crosetto il volto moderato di un partito considerato troppo a destra: il profilo rassicurante, il mediatore, quello che ha accesso ai salotti bene e ha strappato alla Lega i voti degli imprenditori del Nord Ovest. La fonte che i giornalisti chiamano semplicemente per nome e il contatto al quale tutti possono sempre rivolgersi. Soprattutto ora che Fdi è la prima forza del Paese e “Guido” al telefono continua a rispondere a tutti. Tranne quando era all’estero e sosteneva di non saperne nulla delle trattative per la formazione del governo.

Lauree che non lo erano – Piccole bugie bianche. Come quando, meno di un mese fa, negava ogni ipotesi d’ingresso al governo. “Se aspetti me Ministro, muori di vecchiaia alla stazione”, scriveva sul suo seguitissimo profilo twitter (quasi 230mila follower). Dove ha dovuto aggiornare la sua biografia: “Libero da pregiudizi per convinzione, garantista per dna, conservatore per nascita, rispettoso per scelta. Ex tante cose. Ora uomo libero ed imprenditore”, è il modo con cui si presentava sul popolare social network, da quando – nel 2019 – riuscì finalmente a dimettersi dalla Camera al terzo tentativo. Da quel momento, pure senza mai lasciare Fdi, si è dedicato agli affari e ai commenti. Ogni giorno su twitter Crosetto spiega come la pensa su questo o quel fatto di cronaca politica, nera o sportiva: juventino, su twitter non si sottrae a risse e litigi a distanza. “Quando penso che una persona sia una ‘testa di beep‘ glielo dico tranquillamente”, spiegava al Sole 24 ore. Piemontese di Marene, provincia di Cuneo, dove ha fatto il sindaco per dieci anni e dove la sua famiglia produce rimorchi agricoli addirittura dal 1937, il gigante Crosetto comincia a interessarsi alla politica ai tempi dell’Università, leader del movimenti giovanili della Dc. Nel 1987, quando aveva solo 24 anni, Giovanni Goria, presidente del consiglio per nove dimenticabili mesi, lo vuole a Palazzo Chigi come consigliere economico. “Sì. Avevo 24 anni e mi ero appena laureato in Economia…”, raccontò lui a Sette del Corriere della Sera. E in effetti sul sito della Camera gli riconoscevano una laurea in Economia e Commercio che però, alla fine, lui non aveva mai preso. A scoprirlo fu un giornale locale piemontese, lo Spiffero. “Mi spiace. Ma lo ammetto: ho ceduto, sono stato debole… e ho raccontato una piccola, innocente bugia“, ammise Crosetto, che nel frattempo era già sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi.

Gli affari: soprattutto nel settore armi – Con la fine della Balena Bianca, infatti, Crosetto aveva trovato riparo in Forza Italia: consigliere comunale a Cuneo, coordinatore regionale del partito e infine deputato per tre legislature. La quarta, dopo una pausa di cinque anni, è durata pochi mesi: nel 2018, ottenuto il seggio con Fdi, si dimette quasi subito per dedicarsi agli affari. Che affari? Armi soprattuto, ma anche turismo. Senza mai uscire da Fdi, infatti, dal 2014 Crosetto era senior advisor di Leonardo, l’ex Finmeccanica fiore all’occhiello del Paese. Ma era pure presidente di Orizzonte Sistemi Navali, società statale (controllata sempre da Leonardo e pure da Fincantieri) del settore delle navi da guerra, e al vertice dell’Aiad, la Federazione delle aziende italiane dell’Aerospazio. Incarichi dai quali ha annunciato di essersi dimesso, proprio nel giorno della nomina a ministro della Difesa.

Il conflitto d’interesse – Per provare ad allontanare ogni spettro di conflitto d’interesse, infatti, Crosetto aveva annunciato di volersi disfare anche la Csc & Partners Srl, società di lobbying che possiede in società col figlio Alessandro e la compagna Graziana Saponaro. Dopo un esordio record (fatturato da 272mila euro e utile da 179mila euro), il neo ministro ha fatto recentemente sapere – sempre via twitter – di volerla liquidare: “Sono fatto così male che adesso che una mia amica, che fino a due giorni fa non contava, conterà, ho deciso di liquidarla perché nessuno possa fare illazioni”. Ma con chi ha lavorato la Csc? Chi erano i suoi clienti? A questa domanda, posta dal Fatto Quotidiano, Crosetto non aveva voluto rispondere. E inevasa era rimasta anche la domanda sui suoi redditi. “Sarebbe più veloce chiedermi il 740, visto che sono solo redditi legittimi e corretti”, replicava sempre su Twitter. Adesso la sua dichiarazione dei redditi dovrà pubblicarla sul sito del governo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/10/22/guido-crosetto-armi-affari-e-tweet-chi-e-consigliere-fidato-di-giorgia-meloni-che-e-finito-alla-difesa-con-lombra-del-conflitto-dinteressi/6846455/

venerdì 2 aprile 2021

Nel Recovery le armi tinte di “verde”. Dove finisce una parte dei fondi Ue. - Salvatore Cannavò

 

Il Parlamento ha votato la risoluzione al Pnrr del governo Conte chiedendo più fondi all’industria della Difesa.

Il Recovery Plan (Piano nazionale di ricostruzione e resilienza) di cui si erano perse le tracce, ha dato un colpo di vita ieri e l’altroieri con il voto del Parlamento sulle relazioni di indirizzo al governo. Voto a stragrande maggioranza (anche Fratelli d’Italia si è astenuta) come il governo Draghi esige. E voto che permette di fare il punto sulla situazione, ma anche di prendere la misura della disinvoltura delle indicazioni delle Camere.

Nei testi voluminosi approvati nei giorni scorsi, infatti, si possono trovare l’una accanto all’altra, frasi come questa: “Il Piano ricevuto dal Parlamento purtroppo non prevede nulla per la tutela della biodiversità e degli ecosistemi, né per la riparazione dei danni ambientali che si sono susseguiti nel tempo su tutto il territorio nazionale. È quindi indispensabile fare in modo che la ‘Missione Rivoluzione verde e transizione ecologica’ contenga in modo chiaro e organico il tema della biodiversità, degli ecosistemi e dei loro servizi, e del paesaggio”. Impegno di chiara matrice ecologista al di là di cosa voglia dire concretamente.

Arrivano le armi. Poco dopo si legge però anche che occorre “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.

Al di là del linguaggio involuto (di quelli che fanno inorridire il professor Cassese), il testo è molto chiaro e, come ha notato la Rete Disarmo, di fatto punta a destinare una parte dei fondi del Pnrr a rinnovare la capacità e i sistemi d’arma a disposizione dello strumento militare. “Un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi che la Rete Italiana Pace e Disarmo stigmatizza e rigetta”.

Questa attenzione al settore militare finora era rimasta sottotraccia, anche perché difficilmente compatibile con i vincoli e le indicazioni che il Next Generation Eu ha previsto (Digitale, Transizione ecologica, Coesione sociale). Ma nelle discussioni delle commissioni parlamentari, da cui quel testo proviene, la fantasia non manca e a qualcuno è sembrato naturale poter inserire il potenziamento del sistema militare all’interno della direttrice ecologica. Senza però trascurare quella digitale. E infatti in un altro passaggio “malandrino” della risoluzione della Camera si trova “l’esigenza di valorizzare il contributo a favore della Difesa sviluppando le applicazioni dell’intelligenza artificiale e rafforzando la capacità della difesa cibernetica”. Al Senato si scrive, invece, che si “ritiene opportuno valorizzare il contributo della Difesa al rafforzamento della difesa cibernetica, sostenendo i programmi volti a rafforzare questo settore dello strumento militare, anche nell’ambito dei progetti in corso di svolgimento a livello dell’Unione europea”.

È il piano Conte.L’aspetto buffo della vicenda, comunque, è che il Parlamento ha discusso e votato sul vecchio progetto presentato dal governo Conte e, come ha fatto notare la sola Fratelli d’Italia, non ha potuto mai essere aggiornato su quanto sta facendo il governo Draghi. Se il Pnrr, per la gran parte della stampa italiana, era in ritardo già prima di essere ideato, oggi che alla scadenza mancano 29 giorni, nessuno se ne preoccupa più.

Sia il Senato che la Camera hanno iscritto nelle loro raccomandazioni, l’esigenza di una puntuale informazione anche con un successivo passaggio parlamentare prima della presentazione del Piano oppure tramite una relazione periodica. “Dovrebbero essere fornite maggiori informazioni in merito al modello di governance del Piano”, si legge nel documento del Senato. Entrambe le Camere, poi, hanno ribadito che occorrerà una “piattaforma digitale” per verificare l’andamento del Piano riaffermando per l’ennesima volta la necessità di semplificare le norme per l’attuazione dei progetti e di avviare le solite riforme strutturali (giustizia, Pubblica amministrazione, mercato del lavoro) che l’Unione europea richiede.

Le promesse di Franco. Tutti i gruppi si sono poi, in sede di dichiarazione di voto, detti soddisfatti delle spiegazioni proposte dal ministro dell’Economia Daniele Franco che, in verità, non è andato oltre il generico. “Ogni euro che verrà impegnato, ogni euro che verrà speso dovrà essere rendicontato”, ha garantito Franco, anche perché “i contributi a fondo perduto impongono un onere per il bilancio europeo a cui il nostro Paese è poi tenuto a contribuire”. Il ministro si è sperticato in elogi per il lavoro parlamentare assicurando che ogni indicazione verrà presa in considerazione (anche quella sulle armi?) dando poi qualche informazione su quanto si sta elaborando presso il proprio dicastero, unico centro di comando nella gestione del Piano nazionale di ricostruzione e resilienza. Franco ha ricordato che al momento la dotazione del Piano è di 191,5 miliardi di euro di cui circa “il 60 per cento dovrà essere destinato a obiettivi di modernizzazione digitale del Paese e di transizione ecologica, e che devono essere indirizzati soprattutto a giovani e imprese. Mi riferisco, qui, alle imprese di tutti i settori: innanzitutto, il settore manifatturiero; i servizi, tra i quali, ovviamente, è fondamentale il turismo; l’agricoltura, che è stata spesso ricordata questa mattina”.

La centralità è al sistema produttivo, dunque, nella solita convinzione che basti finanziare, a fondo perduto, l’offerta perché ci sia sviluppo, crescita e benessere. Fuori da questa priorità ci sarà il sostegno all’occupazione (non precisata, in genere si tratta di incentivi alle imprese), finanziamenti all’imprenditorialità femminile, per rafforzare la parità di genere, con misure che dovrebbero garantire “una parità sostanziale nei diversi ambiti, non solo lavorativo, ma anche sociale e culturale”. Alla fine, però, stringendo un po’, l’unico termine che viene fuori sono gli asili nido.

Per ridurre gli squilibri territoriali, Franco annuncia che “le risorse destinate alle aree territoriali del Mezzogiorno supereranno significativamente la quota del 34 per cento”. Qui parliamo di Alta velocità, scuola, sanità e agricoltura. Infine, alcune informazioni sulla governance: “Vi anticipo – ha detto il ministro – che la proposta finale di Piano conterrà la descrizione di un modello organizzativo basato su una struttura di coordinamento centrale, collegata a specifici presidi settoriali preso tutte le amministrazioni coinvolte, unitamente a strumenti e strutture di valutazione, sorveglianza e attuazione degli interventi”.

È poi previsto un pacchetto di “norme di semplificazione procedurale che agevoli la concreta messa in opera degli interventi, anche nel caso di interventi la cui realizzazione sarà responsabilità degli enti territoriali”, quindi con una serie di deroghe, immaginiamo, che erano state fortemente contestate al precedente governo. Sarà poi prevista “una piattaforma digitale pubblica centralizzata, con i dati relativi all’attuazione dei progetti del piano”.

IlFattoQuotidiano

giovedì 24 settembre 2020

Lotta a difesa del clima: non abbiamo più scuse. - Luca Mercalli - 17 settembre 2020












Alla prossima emergenza climatica non si dica, come per la pandemia da coronavirus, che non si erano fatti per tempo piani di intervento e valutazioni dei rischi. È da decenni che se ne producono in tutto il mondo da parte dell’Onu-Ipcc (Intergovernmental Panel on climate change), della Banca Mondiale, dell’Unione europea. E pure qui da noi con la presentazione del rapporto “Analisi del rischio cambiamenti climatici in Italia” del CMCC di Lecce (Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici), abbiamo ora una fotografia aggiornata sugli impatti che il riscaldamento globale imporrà alla nostra società e alla nostra economia.

È un lavoro che ha coinvolto trenta ricercatori, basato sulla miglior conoscenza scientifica disponibile. Il clima italiano entro metà secolo si riscalderà, ma possiamo ancora decidere di quanto: da un paio di gradi in più, con danni moderati a cui possiamo far fronte, a cinque gradi in più se non si farà nulla, con calamità straordinarie e irreversibili.

Avremo più siccità estive, minore produzione agricola, più incendi boschivi, più ondate di calore soprattutto nelle zone urbane, meno neve d’inverno, più eventi meteorologici estremi (che negli ultimi vent’anni sono già cresciuti del 9 per cento), un aumento del livello dei mari con rischio di inabitabilità delle zone costiere. Recita il rapporto che “i cambiamenti climatici hanno un imponente costo economico. Il loro impatto da qui a fine secolo può arrivare fino all’8 per cento del prodotto interno lordo pro capite. Senza interventi per arrestare la marcia del riscaldamento climatico aumenterà anche la diseguaglianza economica Nord-Sud e tra fasce di popolazione più povere e più ricche”. Turismo, agricoltura e infrastrutture saranno i settori più colpiti, ma non bisogna sottovalutare che non tutto è monetizzabile, come la sofferenza delle persone.

Il rapporto CMCC spiega dove investire per diminuire i rischi e dimostra che una politica della prevenzione creerà anche nuove opportunità di lavoro, in sintonia con il Green Deal promosso dalla Commissione Ue.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/17/lotta-a-difesa-del-clima-non-abbiamo-piu-scuse/5934314/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=fatto-for-future&utm_term=2020-09-22

sabato 28 settembre 2019

Renzi “assolve” l’ex Cav. sulle stragi di mafia. - Marco Lillo

Renzi fa il Caimano e “assolve” l’ex Cav. sulle stragi di mafia

Sfida aperta a magistrati e sentenze - Il capo di Italia Viva attacca i pm di Firenze (che processano i suoi genitori) e spaccia per assolto il prescritto Papa.

La linea di Italia Viva sulla giustizia arriva con un post su Facebook a metà mattinata: “Vedere che qualche magistrato della Procura della mia città da anni indaghi sull’ipotesi che Berlusconi sia responsabile persino delle stragi mafiose o dell’attentato a Maurizio Costanzo mi lascia attonito (…) Berlusconi va criticato e contrastato sul piano della politica. Ma sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell’attentato mafioso contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle Istituzioni italiane. Di tutte le Istituzioni”. Firmato: non Maurizio Gasparri o Daniela Santanché ma Matteo Renzi, già premier e segretario del Pd, ora grande elettore del governo giallo-rosso.
Matteo Salvini e Giorgia Meloni, risvegliati dalla tromba renziana, si ricordano di essere stati fedeli alleati del Cavaliere ai tempi d’oro. Per Salvini è ora di dire: “Basta a giudici che usano risorse pubbliche per indagini senza logica. Siamo seri: indaghiamo su stupratori, ‘ndranghetisti e camorristi”, possibilmente escludendo i condannati per mafia come Dell’Utri che sono stati nostri alleati, si potrebbe aggiungere. Ma il leader della Lega tralascia. Giorgia Meloni invece rispolvera il grande classico: “Accanimento giudiziario”.
In serata a Zapping Renzi rilancia mettendo sotto la sua ala anche l’ex deputato Pdl Alfonso Papa: “È possibile – si è chiesto l’ex premier - che ci siano imputati che restano per 16 anni imputati e poi vengono assolti? Faccio un nome: Angelucci. O Alfonso Papa con i titoloni sulla P4 e poi è stato assolto”. Peccato che per alcuni reati Papa sia stato assolto grazie alla prescrizione.
La manovra di Renzi è chiara. Lo sgonfiamento di Forza Italia ha lasciato orfani i fan del mantra delle toghe politicizzate. Lo “sdoganamento” sul fronte antimafia di Berlusconi (solo indagato) e anche di dell’Utri (indagato per strage nella stessa inchiesta a Firenze ma già condannato per mafia) è utile anche per convincere i transfughi berlusconiani a salire sulla scialuppa di Italia Viva rendendo meno imbarazzante l’imbarcata.
La mossa però non ha solo una spiegazione politica. Renzi parla ‘pro domo sua’.
I magistrati contro i quali ha scatenato un attacco in stile Sgarbi, si chiamano Giuseppe Creazzo e Luca Turco, quelli che hanno osato chiedere e ottenere gli arresti domiciliari per i genitori di Renzi con l’accusa di bancarotta. Non bastasse, Turco, insieme a Christine von Borries, ha portato a processo babbo e mamma Renzi anche per la storia delle fatture per operazioni inesistenti. Il 7 ottobre chiederanno la condanna e magari Matteo sarà convinto della loro innocenza e certo dell’assoluzione. Però i maliziosi notano che ha spostato alla Cassazione il suo giudizio, come a dire che la condanna in primo grado lo lascia indifferente, soprattutto con quei magistrati. “Non è la prima inchiesta che viene dal procuratore Luca Turco e dal suo capo Creazzo: sono certo che non sarà l’ultima. Che lavorino tranquilli sui numerosi dossier che hanno aperto: noi rispettiamo i magistrati e aspettiamo le sentenze della Cassazione, come prevede la Costituzione. Tutto il resto è polemica sterile”, ha detto Renzi al Messaggero dopo la notizia delle indagini fiorentine dei soliti Turco e Creazzo sull’avvocato Alberto Bianchi, già presidente della Fondazione renziana Open, e sull’amico nonché organizzatore della Leopolda: Patrizio Donnini.
Non bastasse Luca Turco è l’aggiunto che ha seguito in prima persona anche l’inchiesta sul fratello del cognato di Renzi, Alessandro Conticini, per la distrazione dei fondi Unicef verso attività private, che marginalmente coinvolge anche il cognato di Renzi, Andrea Conticini.
A dire il vero un tempo i rapporti di Matteo Renzi con Creazzo e Turco non erano così negativi. Erano gli anni in cui Renzi era premier e Turco e Creazzo archiviavano (senza nemmeno iscrivere un reato o il suo nome sul registro degli indagati) gli esposti che lo mettevano nel mirino. Andò così nell’ottobre 2015 con l’esposto che chiedeva lumi sui contributi pagati da Comune e Provincia di Firenze a Matteo, grazie alla sua assunzioni nell’azienda di famiglia pochi giorni prima della sua investitura formale come candidato del Pds e della Margherita alla presidenza della provincia nel 2003. Il Fatto aveva descritto la vicenda spiegando come Renzi era riuscito ad accumulare un Tfr (poi incassato) e un’invidiabile anzianità pensionistica. Paolo Bocedi, presidente dell’Associazione Sos Italia Libera aveva presentato un esposto, iscritto a modello 45 e quindi archiviato senza nemmeno iscrivere un nome.
Stesso destino, archiviazione senza l’iscrizione di un indagato, aveva avuto sempre nel 2015 l’esposto presentato dal dipendente comunale Alessandro Maiorano, seguito dall’avvocato Carlo Taormina, sull’affitto della casa usata da Matteo e pagata dal suo amico imprenditore Marco Carrai. Allora Turco e Creazzo andavano bene ai renziani.
Poi sono arrivate le indagini su cognati, amici e gli arresti domiciliari dei genitori. Il clima è cambiato.
Dalle intercettazioni sul caso Csm trascritte dalla Guardia di finanza si scopre che l’allora compagno di partito e amico di Renzi, Luca Lotti, parlava con alcuni membri del Csm e con l’ex consigliere e leader della corrente di magistrati Unicost, Luca Palamara, proprio del pm Giuseppe Creazzo, candidato alla Procura di Roma. La strategia enunciata da un consigliere del Csm amico di Palamara, Luigi Spina, era fare in modo che Creazzo lasciasse Firenze senza però ‘promuoverlo’ alla Procura di Roma. “Noi te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile“, diceva Spina a Lotti. “Se lo mandi a Reggio (Calabria, ndr) liberi Firenze”, diceva Palamara. E Lotti concordava: “Se quello di Reggio va a Torino, è evidente che questo posto è libero. E quando lui capisce che non c’è più posto per Roma, fa domanda”. A quel punto il deputato allora del Pd Cosimo Ferri chiede a Palamara: “Ma secondo te poi Creazzo, una volta che perde Roma, ci vuole anda’ a Reggio Calabria o no?”. Palamara risponde: “Gli va messa paura con l’ altra storia, no? Liberi Firenze, no?”.
L’altra storia forse è un esposto presentato da un pm di Firenze, estraneo a queste vicende, contro Creazzo. A distanza di quattro mesi quell’esposto non sembra aver fatto molta strada. Creazzo è ancora in pista per Roma. Bisogna alzare un fuoco di sbarramento con altre munizioni. E l’inchiesta per strage contro dell’Utri e Berlusconi, anche se risale al 2017, può tornare utile.

domenica 26 agosto 2018

Difesa, la spesa italiana crescerà anche nel 2018: alle armi 25 miliardi, il 4% in più rispetto al 2017. - Luisiana Gaita - 2 febbraio 2018

militare italiano con sniper

I dati dell'Osservatorio Milex: la spesa militare vale l'1,4% del Pil. Pesa, oltre ai bilanci di Difesa, l'aumento dell'importo destinato al ministero dello Sviluppo per l'acquisto di nuovi armamenti. E una quota è destinata al Nuclear Sharing, le spese di mantenimento dell'arsenale nucleare Usa dislocato in Italia.


Ammonta a 25 miliardi di euro la spesa militare italiana per il 2018, l’1,4 per cento del Pil, con un aumento del 4 per cento rispetto al 2017. Si tratta ormai di una tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (con un 8,6 per cento in più rispetto al 2015) che non accenna a fermarsi. Nel 2018, infatti, crescono anche il bilancio del Ministero della Difesa (21 miliardi, il 3,4% in più rispetto al 2017) e i contributi del Ministero dello Sviluppo Economico all’acquisto di nuovi armamenti (3,5 miliardi di cui 427 milioni di costo mutui, ossia il 115% in più nelle ultime tre legislature). A rivelarlo è il Rapporto MIL€X 2018, a cura di Enrico Piovesana, cofondatore dell’osservatorio sulle spese militari italiane e di Francesco Vignarca della Rete italiana per il Disarmo. Il dossier è stato presentato oggi presso la sala stampa della Camera dei Deputati alla presenza di Daniel Högsta, coordinatore della campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons), premio Nobel per la Pace 2017. Il rapporto analizza i costi della ‘servitù nucleare’ legata alle spese di stoccaggio e sorveglianza delle testate atomiche tattiche americane B-61 nelle basi italiane e alle spese di stazionamento del personale militare USA addetto e di mantenimento in prontezza di aerei e piloti italiani dedicati al ‘nuclear strike’. “Questi dati – ha commentato Daniel Högsta – dimostrano come la presenza di armi nucleari abbia impatto negativo per i Paesi che le ospitano non solo dal punto di vista politico, ma anche della spesa pubblica. L’opinione pubblica dovrebbe rendersene conto”.

Tra gli ulteriori focus del dossier quelli sulle le spese italiane di supporto alle 59 basi USA in Italia (520 milioni l’anno) e di contribuzione ai bilanci Nato (192 milioni l’anno), sui costi nascosti (Mission Need Urgent Requirements) delle ‘infinite’ missioni militari all’estero (16 anni di presenza in Afghanistan e 14 anni in Iraq), il costo della base militare italiana a Gibuti intitolata all’eroe di guerra fascista Comandante Diavolo (43 milioni l’anno) e lo ‘scivolo d’oro’ dimenticato per gli alti ufficiali ma condannato dalla Corte dei Conti e l’onerosa situazione dei 200 cappellani militari ancora a carico dello Stato (15 milioni l’anno tra stipendi e pensioni).
LA CORSA ITALIANA ALLE ARMI – La corsa italiana agli armamenti è tutta nei dati. “Le spese per armamenti continuano ad aumentare – spiega Francesco Vignarca a ilfattoquotidiano.it – siamo a 5,7 miliardi nel 2018, l’88% in più nelle ultime tre legislature”. E si conferma la distorsione per cui essi sono possibili solo grazie ai contributi finanziari del Ministero dello Sviluppo Economico, anch’essi in aumento. “Finanziamenti sempre più ingenti e onerosi per la collettività e gravosi per il debito pubblico – spiega il rapporto – tenuto conto il sistematico ricorso del Mise a finanziare tali programmi richiedendo a istituti di credito (soprattutto IntesaBBVA e Cassa Depositi e Prestiti) prestiti bancari concessi a tassi improponibili (fino al 40% del finanziamento erogato)”. Il costo annuale degli interessi, riportato nei bilanci del Mise, è estremamente elevato: se nel 2017 è stato di 310 milioni, per il 2018 si pagheranno 427 milioni. “Tra i programmi di riarmo nazionale in corso i più ingenti – continua Vignarca – sono le nuove navi da guerra della Marina (tra cui la nuova portaerei Thaon di Revel), i nuovi carri armati ed elicotteri da attacco dell’Esercito e i nuovi aerei da guerra Typhoon e F-35”. Agli F-35 il rapporto dedica un approfondimento che analizza costi effettivi (50 miliardi con i costi operativi), reali ricadute industriali e occupazionali e “difetti strutturali – spiega il rapporto – che rischiano di mettere fuori servizio gli F-35 finora acquistati dall’Italia per 150 milioni l’uno e funzione strategica di questo sistema d’arma prettamente offensivo e intrinsecamente contrario all’articolo 11 della Costituzione Italiana e al Trattato di non Proliferazione Nucleare”.

LA PREVISIONE PER IL 2018 – I dati contenuti negli stati di previsione allegati alla Legge di Bilancio 2018, approvata dal Parlamento il 23 dicembre 2017, mostrano un incremento annuo del 3,4% (circa 700 milioni) del budget previsionale del Ministero della Difesa, che passa dai 20,3 miliardi del 2017 ai quasi 21 miliardi del 2018. Si tratta di un aumento che rafforza la tendenza di crescita avviata due leggi di Bilancio fa dal governo Renzi con circa 1,6 miliardi in più rispetto al bilancio Difesa del 2015 (l’ultimo a risentire degli effetti della spending review decisa nel 2012 dal governo Monti e applicata dal successivo governo Letta anche al ministero della Difesa). Siamo all’1,3% in più rispetto all’inizio dell’ultima legislatura e al 18% in più nelle ultime tre legislature.
PER ARMI E INFRASTRUTTURE 2,3 MILIARDI IN PIÙ –Analizzando il dettaglio delle voci di spesa previste per il 2018 spicca un aumento del 9,7% dei fondi ministeriali per gli investimenti in nuovi armamenti e infrastrutture (2,3 miliardi). In aumento del 4,6% anche la spesa per il personale di Esercito, Marina e Aeronautica (10,2 miliardi) nonostante la riduzione degli organici dettata dalla Riforma Di Paola, a causa degli aumenti stipendiali per gli ufficiali superiori previsti dal recente riordino delle carriere. Questo per quanto riguarda i fondi preventivi relativi al solo bilancio del Ministero della Difesa, anche se ormai da anni i bilanci consuntivi diffusi in seguito risultano mediamente superiori di circa 2 miliardi ai preventivi.

LE VOCI EXTRA-BILANCIO DELLA DIFESA – L’aumento delle spese italiane per la Difesa risulta ancor più consistente se si tiene conto di tutte le altre voci di spesa militare sostenute da altri Ministeri ed enti pubblici: “I 3,5 miliardi (+5% rispetto al 2017) dei contributi del Ministero dello Sviluppo Economico per l’acquisizione di nuovi armamenti made in Italy (contributi pari al 71,5% del budget totale del Mise 2018 per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane), i circa 1,3 miliardi di costo delle missioni militari all’estero sostenute dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, gli oltre 2 miliardi del costo del personale militare a riposo a carico dell’Inps e il mezzo miliardo di spese indirette per le basi USA in Italia”. Aggiungendo queste voci di spesa e sottraendo invece i costi non propriamente militari, il totale delle spese militari italiane per il 2018 sfiora i 25 miliardi: +4% rispetto al 2017 (un miliardo in più).
SPESE NATO, BASI USA E NUCLEARE – Anche essere membri della Nato ha un costo per l’Italia. “Non solo le spese per la partecipazione alle missioni militari dell’alleanza – spiega il rapporto – ma anche quelle per la contribuzione diretta pro-quota (ultimamente pari all’8,4%) al budget militare e civile della Nato e al Programma d’investimento per la sicurezza Nsip (Nato Security Investment Programme). Complessivamente ogni anno il contributo dell’Italia (per il 2018 ma anche per gli anni precedenti e fino al 2020) ammonta a 192 milioni di euro: circa 125 milioni destinati al budget Nato (oltre 100 milioni al budget militare, il resto al budget civile) e 66,6 milioni destinati agli investimenti infrastrutturali. A questi contributi diretti vanno poi aggiunti ‘i contributi indiretti alla difesa comune’, vale a dire i costi sostenuti dall’Italia a supporto delle 59 basi americane in Italia (il nostro Paese è il quinto avamposto statunitense nel mondo per numero d’installazioni militari, dopo Germania con 179 basi, Giapponecon 103, Afghanistan con 100 e Corea del Sud con 89). La cifra esatta non viene resa nota dal 2002, nonostante recenti interrogazioni parlamentari al riguardo. All’epoca il contributo italiano era calcolato dal Pentagono in 366,5 milioni di dollari, un terzo rispetto all’abbondante miliardo di dollari che veniva pagato a fine anni ’90.

Una particolare voce di spesa legata alla presenza militare USA in Italia, è quella relativa all’accordo di ‘condivisione nucleare’ (Nuclear Sharing) per cui il nostro Paese, fin dagli anni ’50, ospita una cinquantina di bombe atomiche americane B-61: una trentina nella base USA di Aviano e altre venti nella base italiana di Ghedi. Altre bombe erano custodite a Comiso fino al 1987 e a Rimini fino al 1993. “In definitiva – rileva il rapporto – la spesa direttamente riconducibile alla presenza di testate nucleari statunitensi sul suolo italiano ha un costo minimo di almeno 20 milioni annui, ma con tutti gli elementi coinvolti (anche per progetti straordinari di ammodernamento) potrebbe giungere anche ad essere stimata attorno ai 100 milioni di euro l’anno”.

domenica 18 giugno 2017

Il governo stanzia 10 miliardi alla Difesa. - Giulio Marcon

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Un decreto della presidenza del consiglio ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni. Ma il 22% del totale verranno destinati al Ministero della Difesa. Circa 10 miliardi di euro sottratti a investimenti e sviluppo infrastrutturale che verranno utilizzati per produrre carri da combattimento e elicotteri da attacco.
Oggi, 14 giugno, se non fosse stata messa la fiducia sulla riforma del processo penale la Commissione Bilancio della Camera si sarebbe dovuta occupare di un decreto della presidenza del consiglio che ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni, di cui 10 ai sistemi d’arma e agli interventi militari. Se ne parlerà domani o la prossima settimana.
Di che si tratta? L’ultima legge di bilancio (al comma 140) stabiliva un piano di investimenti (46 miliardi) da qui al 2032 su vari assi: trasporti, ricerca, periferie, difesa del suolo, lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, bonifiche, informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria, ecc. ecc. Di difesa e armi non si parlava nella legge di bilancio, anche se tra le priorità venivano citate le “attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni”, che vuol dire tutto e niente.
Nella tabella del decreto in distribuzione scopriamo che 9.988.550.001 (in pratica 10 miliardi, il 22% del totale) saranno destinati al ministero della difesa. Ma le spese militari non erano inserite tra le priorità del comma 140 della legge di bilancio. Per cosa serviranno questi 10 miliardi? Come ricorda Milex saranno usati per circa la metà dell’importo (5,3 miliardi) per produrre carri da combattimento Freccia e Centauro 2, le fregate Fremm, gli elicotteri da attacco Mangusta e tanto altro ancora. Soldi che serviranno a realizzare (ben 2,6 miliardi) anche il “Pentagono de noantri” (un mega centro servizi e comandi) nel quartiere periferico di Centocelle, a Roma. L’aspetto ridicolo e paradossale è che questa spesa di 2,6 miliardi per il Pentagono nostrano viene inserita sotto il titolo del paragrafo del decreto: “edilizia pubblica, compresa quella scolastica”. Scolastica?
Due riflessioni. La prima: un fondo di 46 miliardi per “assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastruttale del paese” cede il 22% della sua dote al Ministero della Difesa per fare carri armati ed elicotteri di combattimento e centri comandi. Che c’entra? Una scorrettezza politica e formale grande come una casa. Secondo: si sacrificano gli investimenti civili a quelli militari. Mentre si destinano 10 miliardi alle armi, si concedono in questo piano pluriennale solo 500 milioni agli interventi in campo ambientale, meno di 600 ai beni culturali e 287 (sempre milioni) alla salute. E allo “sviluppo economico” (ci si aspetterebbe la fetta di torta più grande) vengono dati 3,5 miliardi di euro, appena poco più di 1/3 di quanto si destina a contraeree e fregate.
Nonostante le lamentele della ministra Pinotti e delle gerarchie militari, al ministero della Difesa arrivano sempre tanti, troppi soldi.
Ma il paese ha bisogno di lavoro, non di carri armati.

lunedì 3 agosto 2015

F35, altra beffa: aereo inaffidabile per operare dalle navi. - Toni De Marchi

F35, altra beffa: aereo inaffidabile per operare dalle navi

Chi è J. Michael Gilmore e perché parla male dell’F-35? 
Prendendolo a prestito da un famoso film del 1971 con Dustin Hoffman, potrebbe essere questo il titolo dell’ennesima puntata della commedia tragica dell’F-35 e delle sue varianti. L’ultima viene da un’anticipazione di Jane’s, una delle più importanti fonti informative sulla difesa. Dice Jane’s, citando un rapporto del 22 luglio non ancora reso pubblico, che l’F-35B ha mostrato di essere poco affidabile (“demonstrated poor reliability”) durante le prove in mare a bordo della nave da assalto anfibio USS Wasp. Secondo il rapporto citato da Jane’s, dei sei aerei imbarcati non più di due o tre erano in condizioni di volare in un dato giorno. L’affidabilità e la manutenzione dell’aereo imbarcato “costituiscono un problema a breve termine” e che gli stessi “saranno molto più difficili quando l’aereo dovesse essere impiegato in una missione operativa”.
Il rapporto porta la firma di Michael Gilmore, che non è uno dei tanti pacifisti imbelli che si sono fatti un nome contestando l’aereo delle meraviglie, ma il Director of the Operational Test and Evaluation Directorate del Pentagono, cioè l’uomo incaricato di valutare i sistemi d’arma che devono entrare in servizio nelle forze armate statunitensi. Non proprio un avversario preconcetto, ma certo uno da cui negli ultimi anni sono arrivate le critiche più dettagliate e documentate a questo programma. E non a caso: è lui a disporre per primo dei risultati di tutti i test condotti sul e con il velivolo.
La notizia, ammettetelo anche voi altri convinti che tutti i critici dell’F-35 siano niente più che talpe del Kgb risvegliate dal loro sonno stile The Americans, è un altro brutto colpo alla credibilità del programma proprio mentre i marines si accingono a dichiararne la cosiddetta IOC, Initial Operational Capabilitycapacità operativa iniziale. Il primo squadron di dieci aerei dovrebbe infatti essere operativo nei prossimi giorni.
È probabile che la IOC sarà dichiarata comunque: la Lockheed e i marines hanno troppo bisogno di di mettere un punto fermo positivo prima che in troppi si interroghino sul senso di questo aereo. Quando si dice IOC, comunque, già si parla di un mezzo in gran parte ancora immaturo: vola ma le missioni che riesce a svolgere sono soltanto quelle di base, nel caso dell’F-35 la prima versione completa del software di missione sarà disponibile solo nel 2017. Campa cavallo, anche perché con 24 milioni di righe di codice del software stesso, i problemi una volta in servizio non sono una possibilità ma una certezza.
Lo ha rilevato nei giorni scorsi un’altra voce certo non ostile all’aereo, la segretaria all’Air Force Deborah Lee James. Parlando all’Aspen Security Forum, uno di quei posti dove non vai a raccontare troppe fregnacce se non vuoi giocarti la carriera, la James ha detto tre cose sostanzialmente: la prima è che non faremo mai più volare un aereo mentre lo stiamo sviluppando; la seconda che ci sono ancora molti problemi di sviluppo che riassume in una parola, “software”; la terza che l’F-35 non ha fatto bella figura nel combattimento ravvicinato con un F-16, un aereo di quasi venti anni fa.
Insomma, come stiamo dicendo da troppi anni una ciofega. Per tutti, salvo che per gli entusiasti sostenitori italioti, ‘generala’ Pinotti in testa. D’altronde, qualcuno un giorno, scherzando, le ha detto che lei era la ministra e l’ingenua capo Scout ci ha creduto e da allora deve per forza tenere un certo contegno. Che comprende raccontare storielle al Parlamento, comperare F-35 come noccioline tanto i soldi non sono suoi, stringere estasiata le mani al segretario alla Difesa americano Ash Carter, dare soldi a palate per commissionare navi militari ai cantieri liguri, solo per caso suo collegio elettorale. E far fuori Giampiero Scanu, suo collega di partito, che per aver osato avanzare dubbi sull’F-35 si è giocato il posto di presidente della commissione Difesa della Camera.
Della serie: chi tocca l’F-35 muore.
Leggi anche: 
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F-35: spazzatura che non preoccupa Russia e Cina.

Non potendo più nascondere che l’F-35 non può manovrare, il Pentagono ha iniziato a dire che ciò non importa perché potrà abbattere i caccia nemici prima che possano avvicinarglisi, tuttavia anche questo appare sempre più improbabile.
Malcolm Davis Australian Strategic Policy Institute – Russia Insider
Dopo la diffusione di un rapporto sul recente fallimento di un F-35 nel battere in combattimento un F-16D, il dibattito si è intensificato sulla natura del futuro combattimento aereo.
In un recente articolo sul Strategist Post, Andrew Davies identifica l’importanza di combinare l’ingaggio aria-aria a lungo raggio tramite i Beyond-Visual Range Air to Air Missiles‘ (BVRAAM) con il vantaggio della tecnologia stealth per ridurre la tracciabilità del velivolo e sfruttando sensori, elaborazione informazioni e capacità di guerra elettronica superiori. Davies rileva inoltre che va ancora dimostrato quanto siano efficaci tali capacità nel futuro contesto operativo, dichiarando ‘…ci sono motivi per chiedersi quanto sarà efficace la borsa dei trucchi dell’F-35 in futuro, tanto più che i sistemi contro-furtivi si evolvono, e mi piacerebbe vederlo trasportare più armi a lunga gittata...’
Chiaramente l’F-35 è stato progettato per intraprendere un particolare approccio al combattimento aria-aria (attacchi a lungo raggio), piuttosto che al dogfighting ravvicinato. Ciò evidenza una domanda chiave che apre un dibattito significativo: “La nostra ipotesi sul futuro aereo da combattimento, secondo cui il BVR dominerà e i ‘duelli’ hanno i giorni contati, è corretta?” La base di fondo delle ipotesi attuali sull’ascesa del combattimento aria-aria a lungo raggio e la fine del dogfight è che Stati Uniti e forze alleate avranno sempre un chiaro e durevole ‘margine di conoscenza’ su qualsiasi avversario, acquisendo una cognizione della situazione superiore per consentire l’uso illimitato dei BVRAAM.
A tal proposito, il vero successo dell’F-35 nella tattica della guerra aerea-aria può infatti dipendere dalla capacità di conservare un vantaggio cognitivo a livello strategico a fronte degli sforzi risoluti dei futuri avversari di vincere in modo netto la guerra delle informazioni all’avvio di ogni conflitto futuroConsiderando gli avversari futuri, la dottrina della guerra delle informazioni cinese evidenzia la necessità di attaccare i sistemi C4ISR, tra cui i satelliti, fin dall’inizio o anche prima in qualsiasi conflitto militare. Tale guerra delle informazioni sarà combattuta nello spazio, cyberspazio e spettro elettromagnetico.
L’EPL vede le informazioni sul campo di battaglia come ambiente integrato che comprende cyberspazio e guerra elettronica, e basa l’approccio a questi ambiti con il concetto di Integrated Electronic Network Warfare (INEW). Il Generale dell’EPL Dai Qingmin afferma che obiettivo chiave dell’approccio dell’EPL al INEW è interrompere il normale funzionamento dei sistemi informativi sul campo di battaglia del nemico, proteggendo i propri, con l’obiettivo di avere superiorità informativa. Pertanto, conquistare l’aria contro la PLAAF può essere determinato tanto dal vincere la guerra delle informazioni quanto dal successo nella tattica degli ingaggi aria-aria oltre l’orizzonte.
S’immagini l’assenza di collegamenti dati tra F-35 e AWACS; i radar AESA di un E-7AWedgetail disturbati; attacchi ASAT che abbattono le comunicazioni strategiche, attacchi informatici che colpiscono la logistica o i segnali GPS disturbati, i primi colpi sparati non saranno missili ma satelliti sabotati via computer dagli hacker o disturbati da terraInoltre ci sarà motivo di colpire con rapidità e decisione, avviando la ‘prima salva della guerra’ delle informazioni. Senza la flessibilità concessa da questi sistemi, il pilota dell’F-35 deve affidarsi a sensori di bordo come il radar AESA e l’Electro-Optical Targeting System (EOTS) per rilevare, tracciare e ingaggiare bersagli, aumentando la tracciabilità del velivolo e possibilmente farlo entrare nel campo visivo dei sistemi avversari.
La dipendenza dell’F-35 dalla superiorità delle informazioni lo rende inefficace?
Se l’F-35 è relegato al ruolo BVRAAM a lungo raggio, e se la futura dottrina del potere aereo viene formulata con tale approccio, allora l’efficacia della piattaforma, e del potere aereo occidentale, è a rischio se i sistemi C4ISR saranno attaccatiA tal proposito, qualsiasi ipotesi secondo cui le moderne forze aeree non abbiano la capacità di dogfight è pericolosa e non è credibile, dato che alcuna forza aerea cederebbe il controllo dell’aria semplicemente perché non può sfruttare tutti i vantaggi desiderati. Le aeronautiche devono prepararsi al dogfight, anche se dotate dell’F-35. Infine, i futuri avversari non saranno così cortesi da combattere Stati Uniti ed alleati nei loro termini e in modo da rafforzarne il vantaggio. Il nemico conta sempre.
In futuro, per conquistare l’aria prima si deve vince la guerra delle informazioni nello spazio, cyberspazio e spettro elettromagnetico, acquisendo una cognizione della situazione superiore, negandola all’avversario a livello strategico, operativo e tattico. L’incapacità di contrastare i sistemi di guerra dell’informazione dell’avversario ridurrà significativamente la capacità degli aerei da combattimento tattici come l’F-35 di avere sufficiente cognizione della situazione per impiegare efficacemente i BVRAAM, e quindi combattere secondo l’approccio preferito nelle operazioni aeree. Sembra improbabile che i nostri avversari futuri combattano nel modo più idoneo alla propria sconfitta, ed è una scommessa sicura che gli analisti cinesi e russi conoscano tutte le debolezze dell’F-35 e come condurre la guerra aerea sfruttando al meglio queste debolezze. L’F-35 sarà costretto al dogfight quando sarà impiegato in una guerra vera contro un nemico intelligente, ben attrezzato e determinato.660x371xchinese_military_hacking.jpg.pagespeed.ic.LLQLXze4DXTraduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora