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domenica 18 aprile 2021

Pagato in contanti? Sorpresa: di’ addio alle detrazioni fiscali. - Patrizia De Rubertis

 

Ops… Spese sanitarie, asili, polizze, etc: dal 2020 per avere lo sconto sulle tasse bisognava pagare con la carta. Solo che quasi nessuno lo sa.

Un’incognita da oltre un miliardo pende sulla testa (e sulle tasche) di milioni di contribuenti che rischiano di vedersi negare il rimborso di una quindicina di sconti fiscali nella dichiarazione dei redditi. Nei prossimi 730 o Redditi (l’ex Unico) non ci saranno milioni di spese che consentono la detrazione del 19% come, ad esempio, quelle sanitarie presso liberi professionisti, i dentisti, l’asilo nido, la palestra per i figli o i premi per le polizze infortuni, vita o per l’abbonamento ai mezzi pubblici. Il motivo? L’ultima legge di Bilancio ha introdotto l’obbligo, a partire dal 1° gennaio 2020, di utilizzare sistemi tracciabili (bancomat, carta di credito, carte prepagate, assegno, versamento bancario o postale) per i pagamenti di queste spese. Una di quelle cosiddette rivoluzioni fiscali rimaste però sottotraccia e di cui poi si sono perse le tracce.

Così lo scorso anno, spiegano dalla Consulta dei Caf che ha lanciato l’allarme, la maggior parte dei contribuenti avrebbe continuato a pagare queste spese in contanti, precludendosi ora la possibilità di scaricarle nella dichiarazione dei redditi. Unica eccezione riguarda le spese per l’acquisto di medicinali e dispositivi medici acquistati in farmacia e per le visite mediche presso strutture pubbliche o accreditate, che si possono continuare a pagare in contanti.

“Molte persone – spiega Giovanni Angileri, coordinatore della Consulta nazionale dei Caf – anche a causa dell’insufficiente pubblicità data a questo obbligo, ne hanno ignorato l’esistenza continuando a fare pagamenti cash per tutte le spese interessate. Si tratta soprattutto di contribuenti appartenenti alle fasce più deboli del Paese, che per ragioni anagrafiche e culturali sono meno abituate all’utilizzo della moneta elettronica”. Ma non solo. L’Italia, in attesa del potenziamento del piano Italia Cashless – su spinta del Cashback o della lotteria degli scontrini – resta di fatto un’economia basata sui contanti ed è tra le 35 peggiori economie al mondo per incidenza del contante sul Pil (11,8%). A dimostrazione che anche i contribuenti più giovani ora rischiano di veder sfumare la detrazione se non hanno pagato con carte, bonifici o assegni le spese che consentono la detrazione. Una situazione, insomma, potenzialmente esplosiva resa ancora più complicata dalla sua genesi politica. Allora meglio fare un passo indietro.

Quando a gennaio 2020 è diventato obbligatorio il pagamento tracciabile, il governo aveva lasciato intendere che la sua entrata in vigore sarebbe slittata al primo aprile. Tanto che era stato già presentato un emendamento da inserire nel Milleproroghe. Ma poi non se n’è fatto più nulla. E, complice lo scoppio della pandemia, della novità nessuno ha più parlato. Insomma, non c’è mai stato il tempo necessario per prendere confidenza con la novità che ora farà perdere il beneficio della detraibilità delle spese a milioni di contribuenti. Ma l’effetto più rilevante si avvertirà sul bonus per le spese sanitarie. Per capirne l’entità, basta osservare gli ultimi dati inseriti nella dichiarazione precompilata 2019 dall’Agenzia delle Entrate: sono 18,6 milioni gli italiani che hanno presentato richiesta di detrazione per farmaci, visite, esami e così via. E poi, ci sono anche gli abbonamenti al trasporto pubblico locale o per lo scuolabus, le spese di istruzione scolastica e universitaria compresi i canoni di locazione degli studenti fuori sede, le rette per l’asilo nido, le spese per le attività sportive dilettantistiche praticate dai ragazzi di età compresa tra 5 e 18 anni, le spese per l’agenzia immobiliare per l’acquisto di casa o quelle del veterinario.

È in questo scenario che la Consulta ha chiesto al ministro dell’Economia Daniele Franco una deroga, per il solo 2020, all’obbligo dei pagamenti tracciabili come condizione per avere diritto alla detrazione del 19%. La richiesta è stata formalizzata due settimane fa con l’invio di una lettera che è ancora senza risposta. Il ministero starebbe pensando di inserire la deroga in un emendamento al decreto Sostegni che si trova in discussione al Senato o nel dl Sostegni bis che arriverà a maggio. Ma se anche il Tesoro decidesse di assecondare la richiesta dei Caf, senza un’adeguata campagna informativa il prossimo anno si creerà lo stesso caos fiscale.

IlFattoQuotidiano

giovedì 4 giugno 2020

Tanti soldi, pochi voIti: i dannati del virus. - Giacomo Salvini

Tanti soldi, pochi voIti: i dannati del virus

Apparire, esserci, dettare l’agenda politica. E poi, di conseguenza, vincere le elezioni. Il primo a teorizzarlo fu Niccolò Machiavelli secondo cui “un principe, dunque, non deve realmente possedere tutte le qualità, ma deve far credere di averle”. Eppure, l’esigenza di apparire e di comunicare in politica può essere controproducente. L’assenza, insegnava Giovanni Giolitti, a volte paga. Ma non tutti hanno seguito questa strada. E l’emergenza da coronavirus ha dato una nuova conferma a questo assunto. Ma se il lockdown obbligato ha chiuso le piazze e bloccato i comizi e manifestazioni (fino a maggio), impedendo strette di mano e selfie col pubblico, la propaganda politica si è spostata online. Così i social network sono diventati essenziali per i leader politici, con un effetto sorprendente: chi ha comunicato, e speso di più, è crollato nei sondaggi. Mentre chi si è concentrato meno sulla comunicazione diretta con gli elettori via Facebook e Instagram ha aumentato il proprio consenso.
Questo risultato emerge dall’incrocio dei dati della “Libreria inserzioni” sulla spesa dei leader e dei partiti politici per sponsorizzare i propri post su Facebook, il principale social usato dagli italiani, con 29 milioni di utenti, che si è dotato di questo strumento per rendere trasparenti gli investimenti pubblicitari delle pagine. Sebbene il social di Mark Zuckerberg certifichi cifre precise, in realtà la “Libreria Inserzioni” specifica che si tratta di una stima del denaro speso dalle diverse pagine, comprendendo quello già fatturato e quello non fatturato.
Il periodo analizzato è relativo all’ultimo anno (da marzo 2019 al 31 maggio 2020) e in particolare nei tre mesi del lockdown, dal 3 marzo alla fine del mese scorso. Nell’ultimo anno, sul podio dei più “spendaccioni” su Facebook si posizionano: Matteo Salvini tramite la pagina “Lega Salvini Premier” (255.112 euro), Matteo Renzi (173.490 euro) e Silvio Berlusconi (93.858 euro). A seguire, Carlo Calenda (55.773 euro), Giorgia Meloni (42.085) e Teresa Bellanova, che arriva addirittura a spendere 15.799 euro per finanziare i propri post.
In fondo alla classifica si posizionano i principali esponenti di governo e della maggioranza: spendono zero il premier Giuseppe Conte e i ministri Luigi Di Maio, Dario Franceschini, Roberto Speranza e Alfonso Bonafede. Nulla anche la spesa dell’attuale capo reggente del Movimento 5 Stelle Vito Crimi mentre, in 15 mesi, il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha investito solo 1.649 euro, superato anche dalla leader di “Più Europa” Emma Bonino (3.673€).
Restringendo la ricerca al periodo di lockdown causato dal Covid-19 (marzo-maggio 2020) il Fatto ha scoperto che Renzi ha scavalcato Salvini nella classifica dei leader che investono di più sui social network: l’ex premier ha speso ben 22.864 euro per sponsorizzare i suoi post (di cui 150 € nell’ultima settimana di maggio, senza considerare il nuovo libro appena uscito) contro i soli 1.646 del Matteo in salsa leghista. Quest’ultimo viene sorpassato anche da Carlo Calenda, leader di “Azione” che nelle ultime settimane ha puntato molto sulla iper-presenza comunicativa come nel caso della garanzia statale sul prestito di Fca: l’ex ministro del governo Renzi ha speso ben 5.562, di cui 1.000 dal 25 al 31 maggio, per sponsorizzare i suoi video messaggi contro gli assistenti civici, il trio “paternalistico” e “incapace” Tridico-Boccia-Arcuri e contro le richieste della famiglia Elkann sul prestito da 6,3 miliardi.
Eppure i tre leader che hanno speso di più su Facebook, sono anche coloro che hanno risentito maggiormente del lockdown in termini di consenso elettorale: secondo i sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli degli ultimi tre mesi, Matteo Renzi è il leader meno amato dagli italiani con il 13% mentre Italia Viva da inizio anno è passata dal 4,3 al 3%. Lo stesso vale per Matteo Salvini che a febbraio piaceva a quattro italiani su dieci (38%) mentre a fine maggio è crollato al 33%, con la Lega che ha perso ben 7 punti percentuali: dal 31% al 24% di oggi. Carlo Calenda invece non viene analizzato da Ipsos mentre il suo partitino, Azione, non riesce a sfondare il 2% nonostante l’investimento sui social.
Se può sembrare strano che la spesa del premier Conte, dei ministri e dei leader che sostengono la maggioranza sia così bassa, in realtà tutto dipende dalla diversa strategia comunicativa dei partiti: c’è chi preferisce investire sul leader e chi sulle pagine delle forze politiche, veicolando i messaggi non solo dei ministri e dei segretari di partito ma anche dei parlamentari di seconda e terza fila.
Nell’ultimo anno il Pd ha speso più di tutti (153.618 euro), al secondo posto si posiziona Fratelli d’Italia che, sommando la pagina del partito e quelle dei gruppi di Camera e Senato, ha speso circa 55 mila euro in un anno e poi il Movimento 5 Stelle con 49.999 euro. La Lega invece ha investito solo 800 euro per sponsorizzare i propri post, lasciando tutto lo spazio alla pagina di Matteo Salvini. Dei 173 mila euro spesi da Matteo Renzi negli ultimi 15 mesi, infatti, solo 1.700 riguardano la sua pagina personale e il resto viene spartito da Italia Viva (67.622 euro) e i Comitati “Ritorno al Futuro” (circa 100 mila euro).
Un ruolo fondamentale, durante l’emergenza coronavirus, lo hanno giocato anche i Presidenti delle Regioni che hanno assunto un ruolo sempre maggiore sui tavoli nazionali perché a loro spetta la competenza sanitaria e il potere di contrattazione con il governo. Dai dati emerge che a investire di più sui social sono stati i governatori che a settembre dovranno cercare una rielezione tutt’altro che scontata, approfittando dell’emergenza per diventare leader nazionali. Il recordman è il governatore della Campania Vincenzo De Luca che da marzo a maggio ha speso quasi due mila euro a settimana: più di 36 mila euro dei 53 mila totali da marzo 2019 (superando qualsiasi altro politico italiano), mentre al secondo posto si posiziona il Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti (936 euro) e al terzo il pugliese Michele Emiliano (100 euro). A quota zero invece Luca Zaia (Veneto) che ha già la vittoria in tasca.

lunedì 30 marzo 2020

Regione Calabria, le spese folli del Consiglio. Dirigenti pagati a peso d’oro e 351 dipendenti. - Riccardo Tripepi

Palazzo Campanella
Palazzo Campanella

Il segretario generale percepisce quasi 300mila euro l’anno, il presidente dell’Assemblea 165mila, i direttori di settore 137mila. In più c’è una pletora infinita di impiegati, con un rapporto di 12 unità per ogni consigliere.


Si apre il prossimo 9 marzo la legislatura regionale. Palazzo Campanella i suoi dipendenti si preparano dunque a intensificare il proprio impegno in attesa di capire quali saranno le decisioni, o le eventuali riforme, che la nuova Assemblea sul loro futuro. Mentre sono ancora in corso di svolgimento le procedure per alcuni concorsi, l’organico sembra essere sovradimensionato e ipercostoso.

Al momento, il personale interno del Consiglio, nel quale troveranno spazio i 30 consiglieri appena eletti, è composto da 351 unità a tempo indeterminato, con un’invidiabile media di 11,7 dipendenti per consigliere regionale. Nel numero sono compresi i nuovi assunti per carenza di organico nel 2010, che nella misura del 20% viene applicato nelle strutture speciali dei politici, lasciando spesso sotto organico gli uffici.

Impietoso il confronto con gli altri Consigli regionali italiani. A partire, ad esempio, da quello della Lombardia che risulta composto da 80 consiglieri e conta 268 unità a tempo indeterminato, con la media di 3,35 dipendente per consigliere regionale.

Alla spesa per i dipendenti già analizzata in precedenza, si aggiunge quella per i dirigenti che presenta alcuni tratti del tutto singolari.

Il segretario generale di palazzo Campanella percepisce un compenso pari ad euro 282.358,71 all’anno, così per come stabilito dalla legge regionale la n. 8 del 1996. Praticamente guadagna più dello stesso presidente del Consiglio che si ferma ad euro 165.600,00. La figura omologa alla giunta guadagna euro 160.217,66, ben 45.831,05 in meno di competenze stipendiali fisse.

Eppure diversa sembrerebbe la mole di lavoro per i due segretari: mentre in giunta regionale vi sono 13 dirigenti generali e circa 2.500 dipendenti, al Consiglio vi è 1 solo direttore generale e circa 351 dipendenti.

Le differenze tra palazzo Campanella e Cittadella proseguono anche per il capo di gabinetto: al Consiglio si prevede uno stipendio da Euro 202.437,39 mentre quello della Giunta soltanto Euro 140.578,68.
Le stesse differenze si riscontrano anche in ordine ai dirigenti di settore che sono 9 per 351 dipendenti in Consiglio per uno stipendio annuo da euro 137.478,07, un compenso superiore di circa 25.000 euro rispetto a quanto percepito dai circa 120 dirigenti di Settore della Giunta regionale.

Costi della politica necessari al funzionamento della macchina amministrativa e gestionale si dirà. Eppure un’operazione trasparenza all’interno dei palazzi del potere potrebbe essere un invidiabile biglietto da visita per la nuova Amministrazione regionale che potrebbe censire nel dettagli i costi e spiegare ai calabresi come vengono spesi i denari pubblici e per ottenere quali risultati.

domenica 26 agosto 2018

Difesa, la spesa italiana crescerà anche nel 2018: alle armi 25 miliardi, il 4% in più rispetto al 2017. - Luisiana Gaita - 2 febbraio 2018

militare italiano con sniper

I dati dell'Osservatorio Milex: la spesa militare vale l'1,4% del Pil. Pesa, oltre ai bilanci di Difesa, l'aumento dell'importo destinato al ministero dello Sviluppo per l'acquisto di nuovi armamenti. E una quota è destinata al Nuclear Sharing, le spese di mantenimento dell'arsenale nucleare Usa dislocato in Italia.


Ammonta a 25 miliardi di euro la spesa militare italiana per il 2018, l’1,4 per cento del Pil, con un aumento del 4 per cento rispetto al 2017. Si tratta ormai di una tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (con un 8,6 per cento in più rispetto al 2015) che non accenna a fermarsi. Nel 2018, infatti, crescono anche il bilancio del Ministero della Difesa (21 miliardi, il 3,4% in più rispetto al 2017) e i contributi del Ministero dello Sviluppo Economico all’acquisto di nuovi armamenti (3,5 miliardi di cui 427 milioni di costo mutui, ossia il 115% in più nelle ultime tre legislature). A rivelarlo è il Rapporto MIL€X 2018, a cura di Enrico Piovesana, cofondatore dell’osservatorio sulle spese militari italiane e di Francesco Vignarca della Rete italiana per il Disarmo. Il dossier è stato presentato oggi presso la sala stampa della Camera dei Deputati alla presenza di Daniel Högsta, coordinatore della campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons), premio Nobel per la Pace 2017. Il rapporto analizza i costi della ‘servitù nucleare’ legata alle spese di stoccaggio e sorveglianza delle testate atomiche tattiche americane B-61 nelle basi italiane e alle spese di stazionamento del personale militare USA addetto e di mantenimento in prontezza di aerei e piloti italiani dedicati al ‘nuclear strike’. “Questi dati – ha commentato Daniel Högsta – dimostrano come la presenza di armi nucleari abbia impatto negativo per i Paesi che le ospitano non solo dal punto di vista politico, ma anche della spesa pubblica. L’opinione pubblica dovrebbe rendersene conto”.

Tra gli ulteriori focus del dossier quelli sulle le spese italiane di supporto alle 59 basi USA in Italia (520 milioni l’anno) e di contribuzione ai bilanci Nato (192 milioni l’anno), sui costi nascosti (Mission Need Urgent Requirements) delle ‘infinite’ missioni militari all’estero (16 anni di presenza in Afghanistan e 14 anni in Iraq), il costo della base militare italiana a Gibuti intitolata all’eroe di guerra fascista Comandante Diavolo (43 milioni l’anno) e lo ‘scivolo d’oro’ dimenticato per gli alti ufficiali ma condannato dalla Corte dei Conti e l’onerosa situazione dei 200 cappellani militari ancora a carico dello Stato (15 milioni l’anno tra stipendi e pensioni).
LA CORSA ITALIANA ALLE ARMI – La corsa italiana agli armamenti è tutta nei dati. “Le spese per armamenti continuano ad aumentare – spiega Francesco Vignarca a ilfattoquotidiano.it – siamo a 5,7 miliardi nel 2018, l’88% in più nelle ultime tre legislature”. E si conferma la distorsione per cui essi sono possibili solo grazie ai contributi finanziari del Ministero dello Sviluppo Economico, anch’essi in aumento. “Finanziamenti sempre più ingenti e onerosi per la collettività e gravosi per il debito pubblico – spiega il rapporto – tenuto conto il sistematico ricorso del Mise a finanziare tali programmi richiedendo a istituti di credito (soprattutto IntesaBBVA e Cassa Depositi e Prestiti) prestiti bancari concessi a tassi improponibili (fino al 40% del finanziamento erogato)”. Il costo annuale degli interessi, riportato nei bilanci del Mise, è estremamente elevato: se nel 2017 è stato di 310 milioni, per il 2018 si pagheranno 427 milioni. “Tra i programmi di riarmo nazionale in corso i più ingenti – continua Vignarca – sono le nuove navi da guerra della Marina (tra cui la nuova portaerei Thaon di Revel), i nuovi carri armati ed elicotteri da attacco dell’Esercito e i nuovi aerei da guerra Typhoon e F-35”. Agli F-35 il rapporto dedica un approfondimento che analizza costi effettivi (50 miliardi con i costi operativi), reali ricadute industriali e occupazionali e “difetti strutturali – spiega il rapporto – che rischiano di mettere fuori servizio gli F-35 finora acquistati dall’Italia per 150 milioni l’uno e funzione strategica di questo sistema d’arma prettamente offensivo e intrinsecamente contrario all’articolo 11 della Costituzione Italiana e al Trattato di non Proliferazione Nucleare”.

LA PREVISIONE PER IL 2018 – I dati contenuti negli stati di previsione allegati alla Legge di Bilancio 2018, approvata dal Parlamento il 23 dicembre 2017, mostrano un incremento annuo del 3,4% (circa 700 milioni) del budget previsionale del Ministero della Difesa, che passa dai 20,3 miliardi del 2017 ai quasi 21 miliardi del 2018. Si tratta di un aumento che rafforza la tendenza di crescita avviata due leggi di Bilancio fa dal governo Renzi con circa 1,6 miliardi in più rispetto al bilancio Difesa del 2015 (l’ultimo a risentire degli effetti della spending review decisa nel 2012 dal governo Monti e applicata dal successivo governo Letta anche al ministero della Difesa). Siamo all’1,3% in più rispetto all’inizio dell’ultima legislatura e al 18% in più nelle ultime tre legislature.
PER ARMI E INFRASTRUTTURE 2,3 MILIARDI IN PIÙ –Analizzando il dettaglio delle voci di spesa previste per il 2018 spicca un aumento del 9,7% dei fondi ministeriali per gli investimenti in nuovi armamenti e infrastrutture (2,3 miliardi). In aumento del 4,6% anche la spesa per il personale di Esercito, Marina e Aeronautica (10,2 miliardi) nonostante la riduzione degli organici dettata dalla Riforma Di Paola, a causa degli aumenti stipendiali per gli ufficiali superiori previsti dal recente riordino delle carriere. Questo per quanto riguarda i fondi preventivi relativi al solo bilancio del Ministero della Difesa, anche se ormai da anni i bilanci consuntivi diffusi in seguito risultano mediamente superiori di circa 2 miliardi ai preventivi.

LE VOCI EXTRA-BILANCIO DELLA DIFESA – L’aumento delle spese italiane per la Difesa risulta ancor più consistente se si tiene conto di tutte le altre voci di spesa militare sostenute da altri Ministeri ed enti pubblici: “I 3,5 miliardi (+5% rispetto al 2017) dei contributi del Ministero dello Sviluppo Economico per l’acquisizione di nuovi armamenti made in Italy (contributi pari al 71,5% del budget totale del Mise 2018 per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane), i circa 1,3 miliardi di costo delle missioni militari all’estero sostenute dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, gli oltre 2 miliardi del costo del personale militare a riposo a carico dell’Inps e il mezzo miliardo di spese indirette per le basi USA in Italia”. Aggiungendo queste voci di spesa e sottraendo invece i costi non propriamente militari, il totale delle spese militari italiane per il 2018 sfiora i 25 miliardi: +4% rispetto al 2017 (un miliardo in più).
SPESE NATO, BASI USA E NUCLEARE – Anche essere membri della Nato ha un costo per l’Italia. “Non solo le spese per la partecipazione alle missioni militari dell’alleanza – spiega il rapporto – ma anche quelle per la contribuzione diretta pro-quota (ultimamente pari all’8,4%) al budget militare e civile della Nato e al Programma d’investimento per la sicurezza Nsip (Nato Security Investment Programme). Complessivamente ogni anno il contributo dell’Italia (per il 2018 ma anche per gli anni precedenti e fino al 2020) ammonta a 192 milioni di euro: circa 125 milioni destinati al budget Nato (oltre 100 milioni al budget militare, il resto al budget civile) e 66,6 milioni destinati agli investimenti infrastrutturali. A questi contributi diretti vanno poi aggiunti ‘i contributi indiretti alla difesa comune’, vale a dire i costi sostenuti dall’Italia a supporto delle 59 basi americane in Italia (il nostro Paese è il quinto avamposto statunitense nel mondo per numero d’installazioni militari, dopo Germania con 179 basi, Giapponecon 103, Afghanistan con 100 e Corea del Sud con 89). La cifra esatta non viene resa nota dal 2002, nonostante recenti interrogazioni parlamentari al riguardo. All’epoca il contributo italiano era calcolato dal Pentagono in 366,5 milioni di dollari, un terzo rispetto all’abbondante miliardo di dollari che veniva pagato a fine anni ’90.

Una particolare voce di spesa legata alla presenza militare USA in Italia, è quella relativa all’accordo di ‘condivisione nucleare’ (Nuclear Sharing) per cui il nostro Paese, fin dagli anni ’50, ospita una cinquantina di bombe atomiche americane B-61: una trentina nella base USA di Aviano e altre venti nella base italiana di Ghedi. Altre bombe erano custodite a Comiso fino al 1987 e a Rimini fino al 1993. “In definitiva – rileva il rapporto – la spesa direttamente riconducibile alla presenza di testate nucleari statunitensi sul suolo italiano ha un costo minimo di almeno 20 milioni annui, ma con tutti gli elementi coinvolti (anche per progetti straordinari di ammodernamento) potrebbe giungere anche ad essere stimata attorno ai 100 milioni di euro l’anno”.