Visualizzazione post con etichetta Paolo Scaroni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Paolo Scaroni. Mostra tutti i post

mercoledì 20 dicembre 2017

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani.

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani

Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l'aggiudicazione di un giacimento, avvenuta poi nel 2011. Gli imputati sono 15 in tutto, comprese le società Eni e Shell. L'indagine partì da alcune intercettazioni nell'indagine sulla P4.

Claudio Descalzi e Paolo Scaroni sono stati rinviati a giudizio per corruzione assieme ad altre 11 persone e alle società Eni e Shell per il caso Nigeria. Il gup del tribunale di Milano ha stabilito che i 15 imputati, tra i quali c’è anche il faccendiere Luigi Bisignani, dovranno affrontare il processo per la presunta maxi tangente versata dalle due multinazionali del petrolio a pubblici ufficiali e politici nigeriani per lo sfruttamento del giacimento Opl 245.
Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l’aggiudicazione di quel giacimento, avvenuta poi nel 2011. All’epoca dei fatti, Scaroni era numero uno del gruppo petrolifero, mentre Descalzi, scelto come suo successore dall’azionista ministero dell’Economia, guidava la divisione Oil & gas. Esponenti del governo nigeriano avrebbero ottenuto dal gruppo del petrolio e del gas partecipato dal Tesoro 1,09 miliardi di dollari in cambio della concessione per la stessa cifra ai due gruppi dei diritti esclusivi di sfruttamento del giacimento. Di cui peraltro, negli scorsi mesi, la Nigeria ha ripreso il controllo in via cautelare proprio nell’attesa che si concludano “le inchieste in corso e le indagini a carico dei sospetti”.

Nell’avviso conclusioni indagini di un anno fa i pm hanno descritto i passaggi dell’intera operazione. Nella loro ricostruzione si legge che Scaroni diede “il placet all’intermediazione di Obi”, intermediario nigeriano, “proposta da Bisignani e invitando” Descalzi “ad adeguarsi”. Entrambi, sia Scaroni che Descalzi, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano dell’epoca Jonathan Goodluck “per definire l’affare” relativo al giacimento. La presunta mazzetta e il prezzo dell’acquisto sono equivalenti perché l’ex ministro del Petrolio Etete alla fine degli anni ’90 si ‘autoassegnò’ la concessione a costo zero, tramite la società Malabu e attraverso prestanome. Quindi i soldi pagati al governo nigeriano furono riversati al politico, che li avrebbe usati anche per “immobiliaereiauto blindate“.
Secondo quanto riferito da De Pasquale alla Corte di Londra nel settembre 2014, gli 800 milioni di dollari partiti nel 2011 verso due conti correnti intestati alla Malabu di Etete servivano per pagare presunte tangenti a funzionari e politici africani, ai manager Eni e agli intermediari esteri, da Obi a Bisignani all’imprenditore Gianluca Di Nardo, che mesi fa ha scelto il rito abbreviato come Obi. Ai dipendenti del gruppo petrolifero, all’ex ambasciatore russo Ednan Agaev, a Bisignani e Di Nardo sarebbe stata destinata secondo i pm anche un’altra tranche, circa 215 milioni, sequestrata però nell’estate 2014 dalla magistratura inglese e svizzera.
L’indagine era partita dopo l’acquisizione da parte dei pm delle intercettazioni dell’indagine del 2010 dei colleghi di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio sulla cosiddetta P4, in cui era coinvolto anche Bisignani, che ha patteggiato un anno e 7 mesi. Dalle intercettazioni dell’indagine napoletana era emerso l’intervento di Bisignani sui vertici dell’Eni di allora. Intercettato, parlava al telefono con l’ex numero uno Scaroni e anche con Descalzi.
Il processo inizierà il 5 marzo 2018. Nel frattempo Eni ha diffuso una nota per ribadire la “piena fiducia” del consiglio d’amministrazione dei confronti di Descalzi, la cui carica è stata rinnovata lo scorso marzo dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pm: “Eni esprime piena fiducia nella giustizia – scrive la multinazionale – e nel fatto che il procedimento giudiziario accerterà e confermerà la correttezza e integrità del proprio operato”.

venerdì 26 settembre 2014

Processo Enel Porto Tolle, “Scaroni ha non indifferente capacità a delinquere”. - Thomas Mackinson

Paolo Scaroni

La definizione è nelle motivazioni della sentenza di condanna emessa il 31 marzo scorso per il disastro ambientale della centrale di Porto Tolle. "Scaroni agì al fine di incrementare gli utili d'impresa a discapito della sicurezza e della salute dei cittadini”. Il nuovo ad: "Rinunciamo a riconversione a carbone".
Paolo Scaroni dimostra una “non indifferente capacità a delinquere”. E non stiamo parlando delle indagini per le presunte mazzette sui pozzi petroliferi, ma delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Rovigo che lo scorso 31 marzo ha condannato gli ex amministratori di Enel Paolo Scaroni e Franco Tatò a tre anni di reclusione per disastro ambientale, in termini di messa in pericolo della salute della popolazione. Appena depositate, sono l’ennesima tegola sul capo dell’ex manager pubblico oltre che un macigno per i gestori di impianti industriali nel mirino di altre procure. In 113 pagine il collegio giudicante ricostruisce la vicenda processuale innescata dalle emissioni inquinanti della centrale termoelettrica di Porto Tolle tra il 1998 e il 2009. E una frase riassume l’esito e colpisce più di altre l’attenzione: “La pena inflitta risulta adeguata alla non indifferente capacità a delinquere dimostrata dai prevenuti (gli a.d. Tatò e Scaroni), i quali hanno agito al fine di incrementare gli utili d’impresa a discapito della sicurezza e della salute dei cittadini”. 
La “capacità di delinquere”, si legge nelle carte, sostanzia dalla fatto che entrambi gli ad (Scaroni dal 2002) anziché porsi l’obiettivo di conformarsi al dettato normativo in fatto di riduzione delle emissione e salvaguardia della salute pubblica “agirono in senso contrario, omettendo da un lato di dare corso agli interventi di ambientalizzazione della centrale annunciati dall’azienda fin dal 1994 e sostenendo dall’altro progetti di riconversione che prevedevano l’uso di combustibili dotati di maggior impatto ambientale rispetto al metano”. Il tutto, in sintesi, al fine di consentire una produzione energetica sostenuta e a basso costo, grazie ai mancati interventi di desolfurazione degli impianti e all’uso di combustibili ad alto tenore di zolfo che presentavano prezzi di acquisto inferiori ad altri. Attività ad altissimo impatto ambientale per la popolazione residente sul territorio del delta del Po che ha potuto proseguire indisturbata fino al 2009 anche grazie a puntuali deroghe pervenute da Roma.
Sul punto i giudici non hanno dubbi. La mera autorizzazione – per altro tacita – al funzionamento della centrale non è sufficiente ad escludere reati suscettibili di incidere sulla salute delle persone. Si legge in proposito nella sentenza (pag. 26): “Tali violazioni, infatti,condussero al pregiudizio di un bene, “la salute” di una generalità indefinita di individui, avente rango costituzionale, e come tale estraneo al c.d. “rischio consentito’, ossia a quel novero di eventi di danno e di pericolo, la cui verificazione non è penalmente rilevante, essendo controbilanciata dalla scriminante dell’esercizio del diritto. L’attività imprenditoriale, infatti, non può svolgersi in contrasto con “l’utilità sociale” (art. 49 Cost.) e non può compromettere il bene salute (art. 32 Cost.). Pertanto, la stessa non può essere legittima ove vulneri in modo significativo tale bene giuridico e diviene colpevole se ciò avviene nella consapevolezza di violare precise disposizioni legislative”.
E i giudici non fanno sconti. “Ciò costituisce chiaro indice del dolo insito nelle condotte nell’intera vicenda”, si legge a pagina 92 della sentenza. Condotte “dettate dalla volontà di contenere i costi di esercizio delle centrale e quindi aumentare gli utili di impresa, omettendo di destinare sufficienti risorse alla salvaguardia della salute pubblica e dell’ambiente circostante”. Oltre a rimarcare la posizione grave di Scaroni, già condannato nel primo processo Enel che si era celebrato ad Adria nel 2006 (confermata in Cassazione 2011), il collegio rileva che non ci sono le condizioni per concedere le attenuanti generiche “considerato il comportamento processuale tenuto dagli imputati, i quali non hanno manifestato alcuna forma di resipiscenza in ordine alle condotte poste in essere”. E in effetti, a botta calda, Scaroni si dimostrerà quasi sprezzante: “Porto Tolle, nessun disastro. Pensavo di essere assolto“. E invece i magistrati condannano e con la mano pesante. A scanso di equivoci precisano anche che “non potrà essere concesso l’indulto di cui alla legge n. 241/2006, atteso che la commissione del reato, per quanto sopra specificato, si è protratta ben oltre la data 2 maggio 2006. 
Ma non è finita. Perché mentre gli inquirenti milanesi sono sulle tracce del “tesoretto” di Scaroni, che avrebbe accumulato ingenti ricchezze attraverso un sistema tangentizio di commesse petrolifere, i giudici di Rovigo hanno stabilito che i due manager dovranno pagare in solido tra loro 400mila euro a titolo di risarcimento dei soggetti costituiti in giudizio (ministeri dell’Ambiente e della Salute, associazioni, comuni di Porto Tolle e Rosolina, Provincia di Rovigo…). La partita economica è solo all’inizio. La sentenza si conclude infatti non con una ammenda pecuniaria che lava il reato ma con la richiesta di ripristino dei danni ambientali che con tutta probabilità saranno oggetto di un procedimento in sede civile. Dal valore potenzialmente devastante (anche per Enel, non citata a giudizio sul fronte penale): una stima dell’Ispra dello scorso gennaio valutava danni ambientali e sanitari per 3,6 miliardi di euro.
Oltre al giudizio in oggetto, le motivazioni della sentenza sono già destinate a fare giurisprudenza e sollevare polemiche. Accolgono in pieno l’impianto accusatorio mosso dal pm Manuela Fasolato che ha condotto una solitaria battaglia per anni, finendo pure sotto un procedimento disciplinare dai tratti a dir poco surreali che tutt’ora pende al Csm (il 21 novembre l’udienza). Tra le altre contestazioni, quella di “lavorare troppo”. La Procura Generale della Repubblica ha chiesto due volte l’archiviazione, le incolpazioni in parte sono cadute e in parte sono state riformulate  tenendo in piedi quella di “interferenza grave” contro il Ministero dell’Ambiente. Il motivo? Mentre a Roma gli organi tecnici e politici erano impegnati a valutare il mega progetto di riconversione della centrale, il pubblico ministero che stava istruendo l’accusa a Rovigo si era permessa di trasmettere a quegli organi una perizia che segnalava le gravi sottostime e gli errori nelle valutazioni delle emissioni depositate agli atti. A fin di bene, volendo evitare ulteriori danni alla salute e all’ambiente e sotto. Ma sotto processo è finita lei, e poco importa se quello stesso ministero si è costituito parte civile e se i giudici le hanno dato ragione piena. 
La sentenza accoglie il principio per cui in un processo per inquinamento ambientale non è necessario produrre la prova del singolo legame di causalità per le varie patologie, è sufficiente la correlazione stabilita dall’incrocio della prova epidemiologica e quella ambientale. Un macigno, si diceva, per gli altri impianti oggi nel mirino delle procure: dalla Tirreno Power di Vado Ligure (Sorgenia, De Benedetti) a Brindisi (Enel), passando per le centrali di Monfalcone (A2a), Torre Valdaliga Nord a Civitavecchia (Enel).
Infine si registra, proprio a ridosso della sentenza che tra l’altro inibisce a Enel di proseguire l’attività alle condizioni attuali, la decisione dell’azienda di rinunciare al mega progetto di riconversione a carbone, ipotesi giudicata peggiorativa dai consulenti della Procura di Rovigo e messa agli atti anche nelle motivazioni della sentenza.
ENEL, PRENDE ATTO E RISPONDE: “LA SENTENZA RICONOSCE MODESTO RISCHIO SANITARIO”
Enel prende atto delle motivazioni e, nel rispetto del lavoro svolto dai giudici, confida che possa essere chiarita nei futuri gradi di giudizio l’assoluta conformità dell’esercizio della centrale alle normative applicabili così come la correttezza della condotta dei propri rappresentanti.
Il collegio giudicante ha ritenuto che a Porto Tolle non si sia realizzato alcun disastro o danno per la salute, come sostenuto dall’accusa, ma si sia solo manifestata una situazione di modesto rischio di incremento delle malattie respiratorie rispetto ai dati medi esistenti. Circostanza che dovrà esser ulteriormente valutata nel corso del giudizio di appello per tener conto delle evidenze probatorie già emerse nel processo che avevano invece radicalmente escluso l’esistenza di qualsiasi rischio.
In relazione alle domande delle parti civili il collegio giudicante ha disposto la quantificazione dei danni in via provvisionale in misura sensibilmente inferiore rispetto a quanto richiesto (150 mila euro a fronte di 800 milioni). Anche tale decisione, così come ogni valutazione circa la reale esistenza di danni, dovrà esser ulteriormente vagliata nell’ambito dei futuri gradi di giudizio.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/25/processo-enel-porto-tolle-scaroni-ha-non-indifferente-capacita-a-delinquere/1133170/


Eni-Saipem, inchiesta tangenti Algeria. Spunta il “Paolo Scaroni trust”

I pm titolari del fascicolo hanno avviato accertamenti sul trust che vede come beneficiario l'ex ad, la moglie e i loro discendenti, in particolare con una rogatoria in Svizzera. Obiettivo della Procura di Milano è ricostruire l'origine di tutti i flussi di denaro in entrata. Sono state quindi avviate, oltre alla rogatoria in Svizzera riguardante il Paolo Scaroni Trust, anche in Lussemburgo, Abu Dhabi, Algeria, Francia, Hong Kong, Singapore.

Spunta il Paolo Scaroni trust nell’inchiesta della procura di Milano sul presunto pagamento da parte di Saipem (società del gruppo Eni) di tangenti per 198 milioni di euro in Algeria al ministro algerino dell’energia Chekib Khelil e al suo entourage, per ottenere otto grandi appalti petroliferi del valore complessivo di 11 miliardi di euro. I pm titolari del fascicolo hanno avviato accertamenti sul trust che vede come beneficiario l’ex ad dell’Eni, Paolo Scaroni, la moglie e i loro discendenti, in particolare con una rogatoria in Svizzera. L’ex top manager in questa inchiesta è indagato per corruzione internazionale. Stesso reato contestato nella più recente inchiesta della Procura di Milano che invece riguarda presunte mazzette versate per l’acquisizione di un giacimento petrolifero in Nigeria in cui è indagato l’attuale amministratore Claudio Descalzi. 
Obiettivo dei pm milanesi è ricostruire l‘origine di tutti i flussi di denaro in entrata del trust. Sono state quindi avviate, oltre alla rogatoria in Svizzera riguardante il Paolo Scaroni Trust, anche in Lussemburgo, Abu DhabiAlgeriaFranciaHong KongSingapore e quella considerata più importante ai fini dell’inchiesta, in Libano. Gli inquirenti vogliono tracciare gli spostamenti dei soldi pagati da Saipem alla Pearl Partners, basata a Hong Kong e controllata da Farid Bedjaoui, uomo di fiducia del ministro Khelil e intermediario tra gli algerini e i manager Saipem.
In questa inchiesta, oltre a Scaroni, sono indagati per corruzione internazionale l’ex amministratore delegato di Saipem Franco Tali, l’ex direttore operativo Pietro Varone (arrestato nell’estate del 2013), l’allora direttore finanziario Alessandro Bernini, l’allora direttore generale per l’Algeria Tullio Orsi e quello che all’epoca dei fatti era responsabile Eni per il Nordafrica Antonio Vella. L’ipotesi della Procura di Milano è che una parte della ipotizzata bustarella multimilionaria pagata nel paese nordafricano sia poi rientrata in Italia per finire nelle tasche dei manager del gruppo petrolifero. Per quanto riguarda il Paolo Scaroni Trust, stando agli atti dell’assemblea degli azionisti 2013 di Eni, risulta costituito nel 1996, contestualmente al trasferimento di Scaroni in Gran Bretagna per ricoprire la carica di amministratore delegato della Pilkington. Secondo l’ex numero uno del cane a sei zampe, il trust è servito per amministrare e raccogliere quanto guadagnato all’estero. Di sicuro, agli atti dell’inchiesta della procura di Milano c’è che – come risulta da documentazione della Banca d’Italia che ha ispezionato la Camperio Sim, di cui il trust era cliente – al momento del rimpatrio in Italia della maggior parte dei fondi del trust, il suo valore era di circa 13 milioni di euro e che oltre 11 milioni furono scudati (al lordo dell’imposta del 5%) con lo scudo fiscale ter.
La maggior parte degli 11 milioni scudati sono stati poi reinvestiti nella Immobiliare Cortina srl, che al momento dell’ispezione di Palazzo Koch risulta al 100% di Paolo Scaroni. Il trust fu costituito quindi nella seconda metà degli anni Novanta con sede nell’isola Guernsey, una delle isole della Manica e aveva un trustee con sede nella stessa località. Il compito di trustee (ovvero il gestore del trust, ndr) nel 2006 passò a un altro trustee, con sede negli Stati Uniti, fino ad arrivare all’attuale situazione per cui il Paolo Scaroni Trust ha due trustee, uno è la Camperio Legal and Fiduciary Service con sede in Virginia negli Stati Uniti e uno è la Severgnini Family Office con sede a Milano in via Camperio. Il trust risulta avere anche due protector: Rolando Benedick e Oreste Severgnini. 
Tornando agli atti dell’assemblea 2013 di Eni, in quella occasione, rispondendo alla domanda di un azionista, si specifica che “il Trust non ha mantenuto alcun collegamento con l’isola di Guernsey salvo la legge applicabile, in accordo con la convenzione dell’Aja” e che “data la presenza del co-trustee italiano, il Paolo Scaroni Trust è fiscalmente totalmente residente in Italia e adempie a tutti i relativi obblighi fiscali e dichiarativi in totale trasparenza”. 

lunedì 13 gennaio 2014

Centrale Enel di Porto Tolle, “il danno economico da risarcire è 3,6 miliardi”. - Thomas Mackinson

Centrale Enel di Porto Tolle, “il danno economico da risarcire è 3,6 miliardi”


Una perizia dell'Ispra depositata nel processo "Enel bis" a Rovigo per la prima volta calcola i costi della mortalità e dei danni ambientali per le emissioni in eccesso prodotte dall'impianto termoelettrico a olio. La quantificazione del danno potrebbe costituire un precedente anche rispetto ad altri casi, da Vado Ligure a Brindisi. "Chi inquina paga", esultano gli ambientalisti, ma per i legali della società si tratta di una stima "abnorme".

Un risarcimento da 3,6 miliardi per danno ambientale e sanitario. Questa la cifra che i periti dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) hanno quantificato, per la prima volta, rispetto all’impatto economico per lo Stato della centrale di Porto Tolle, in provincia di Rovigo: 2,6 miliardi di danni sanitari, essenzialmente per la mortalità in eccesso, più un miliardo per omessa ambientalizzazione. Centrale gestita da Enel, colosso energetico italiano e seconda utility quotata in Europa, a processo per disastro ambientale. A chiedere la perizia, firmata da Leonardo Arru su incarico dell’avvocatura di Stato, i ministeri di Ambiente e Salute, parte civile nel procedimento – denominato ‘Enel bis’ – insieme alle associazioni.
Una notizia che non piace (quasi) a nessuno, tanto che a parlarne è solo la stampa locale. Non piace a Enel che a fine dicembre aveva esultato per una riduzione dell’indebitamento da 42 a 40 miliardi ora virtualmente gravato dal rischio di future, pesantissime, passività. Non piace al governo che tramite il Tesoro (31,2%) è il primo azionista di riferimento e carezzava da tempo l’idea di vendere quote per fare cassa. E ora si trova in mezzo a una surreale disputa tra ministeri in cui lo Stato fa causa a se stesso. Sarà poi pane per le agenzie di rating che da mesi incrociano un balletto di svalutazioni e rivalutazioni su titolo e prospettive della seconda società italiana per capitalizzazione di Borsa
La perizia è di fine novembre 2013 ma è rimasta confinata nell’ambito del procedimento che si tiene al tribunale di Rovigo per disastro ambientale che è prossimo alla conclusione (la sentenza è prevista per marzo 2014). Eppure potrebbe – secondo il legale di parte civile Matteo Ceruti – diventare un precedente per una serie di situazioni pendenti ad altissimo impatto ambientale oggetto d’indagine o di processi di riconversione: dalla Tirreno Power (ex Enel oggi gruppo De Benedetti) di Vado Ligure (Savona), per la quale la locale procura indaga per gli stessi capi di imputazione, passando per le centrali di Brindisi (Enel), Monfalcone in provincia di Gorizia (A2a), Torre Valdaliga Nord a Civitavecchia (Enel).
Non a caso associazioni ambientaliste che si sono costituite nel processo, come Greenpeace, ritengono la perizia un significativo passo avanti non solo per l’entità dell’importo risarcitorio richiesto ma perché mette in chiaro il principio per cui ‘chi inquina paga’. Il conto arriva sul Delta del Po per cause di ordine storico, industriale e perfino politico. La centrale costruita negli anni Ottanta a pieno regime emetteva più anidride solforosa (SO2 ) di qualunque altro impianto fisso in Italia. Ancora nel 2002 si stima sprigionasse da sola il 10% di tutte le emissioni di SO2 imputabili a qualsiasi altra fonte sul territorio nazionale. Per i reati ambientali connessi al funzionamento della centrale, la responsabilità dei direttori dell’impianto e degli amministratori delegati di Enel spa dell’epoca, Paolo Scaroni e Franco Tatò, è stata definitivamente accertata in Cassazione nel 2011 ma i reati erano ormai prescritti: restavano le conseguenze patrimoniali che la corte d’appello di Venezia sta quantificando. 
Ulteriori indagini e perizie hanno poi permesso di accertare il nesso causale tra le emissioni e le conseguenze di ordine ambientale e sanitario sulla popolazione, in particolare sui bambini. Così è partito il processo “Enel bis” che vede oggi imputati una decina di dirigenti Enel che si sono avvicendati tra il 1998 e il 2009. Secondo la procura di Rovigo, che procede per disastro doloso, avrebbero trascurato l’installazione di impianti che avrebbero consentito di tutelare la salute dei residenti e del territorio provocando un significativo aumento dei ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie della popolazione infantile. A comparire davanti al collegio saranno anche l’attuale amministratore delegato Fulvio Conti e i suoi predecessori. E’ in questo procedimento che il ministero dell’Ambiente, parte civile insieme a quello della Salute, tramite l’avvocatura dello Stato distrettuale di Venezia, ha chiesto di valutare anche i danni economici per lo Stato. Danni per l’appunto quantificati in 3,6 miliardi. Ecco il documento.
“Un anno di vita perso vale 40mila euro” - Gli enti locali a corto di soldi stanno uscendo dal processo penale in cambio di noccioline: 130mila euro a testa per cinque Comuni emiliani, più 500mila euro per il Parco regionale del Delta del Po. In tutto 1,1 milioni di euro. Di ancor meno si accontentano gli enti locali veneti (fuorché la Provincia di Rovigo e i Comune di Rosolina e Porto Tolle che sono rimasti come parti civili). Risarcimenti a fronte dei quali le parti si impegnano, tra l’altro, a rinunciare a eventuali pretese o azioni giudiziarie future connesse al funzionamento della centrale sino al 2009. E a questo punto tocca vedere se lo Stato, invece, venderà cara la pelle.
La perizia si rifà ai metodi di calcolo individuati in sede europea in materia di quantificazione del danno sanitario nel programma Cafe  (The Clean Air for Europe Programme) partito nel 2001 e adottato nel 2005. “Valore di anno di vita perso” (Voly) nel quale ogni anno “perduto” per morte prematura è quotato circa 40mila euro e valore statistico di vita (Vls), che quota ogni morte prematura per inquinamento dell’aria circa 2 milioni. Il primo, usato da Ispra, produce stime del costo più basse, poiché ogni morte prematura da inquinamento da polveri sottili corrisponde a circa 10 anni di vita persi. 
“Una valutazione cautelativa”: come viene calcolato il danno Il tecnico che ha firmato la perizia ha portato in aula i calcoli fatti per il periodo 1998-2009, riguardo alla diffusione di biossido di Zolfo (SO2) sulla base delle emissioni dichiarate da Enel al registro internazionale delle emissioni. La stima monetaria è stata fatta utilizzando la metodologia elaborata dall’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) e – avverte il perito – “con un orientamento cautelativo” (leggi nel box). Non quantifica, tra l’altro, taluni tipi di impatti come i danni all’ecosistema da acidificazione e deposito di ozono o quelli agli edifici e al patrimonio culturale. Ma si avvicina molto al danno presunto, anche perché alternativa non c’è visto che “non si può stabilire generalmente il danno ritenendolo linearmente proporzionale ai carichi di inquinamento”. Si può, invece, circoscrivere l’addendum di emissioni in eccesso che qualificano e quantificano il peggioramento del profilo emissivo, e moltiplicarlo per unità di costo-vita, laddove esistano indici di mortalità correlabili. Ebbene secondo il perito del ministero dal ’98 al 2009 ci sarebbero 2,6 miliardi di euro di danni connessi al rilascio di 418mila tonnellate di SO2 in eccesso rispetto a quelli rilasciati qualora la centrale avesse operato in un ipotetico regime a gas metano, come imponeva di fare la legge regionale veneta del 1997 istitutiva del Parco del Delta del Po. Ciascuna tonnellata viene moltiplicata per diversi coefficienti individuati in sede europea.
La difesa di Enel: “Cifra abnorme e analisi infondata” – Enel, dalla sua, ha già contestato queste cifre come “abnormi”, ritenendo del tutto “infondata” l’analisi dell’Ispra. In particolare, secondo la difesa del colosso energetico, il consulente ha preso a riferimento unicamente le emissioni della centrale senza dare alcuna importanza ai rilevamenti delle cadute a terra di altri inquinanti. Inoltre, secondo i legali Enel, ha considerato come emissioni in eccesso tutte quelle superiori a quelle previste dal decreto ministeriale del 1990 che prevedeva, invece, specifiche deroghe normative per Porto Tolle che la centrale ha rispettato. Ma chi le ha messe quelle deroghe? La politica che sulla vicenda non ha mai mollato la presa. Non solo facendo generose concessioni normative sui limiti di emissioni, ma arrivando a tentare di condizionare l’attività di indagine della procura. 
Il trucco per sforare le prescrizioni era già nel  decreto ministeriale 12 luglio del 1990, fondamentale in materiale di emissioni e attuativo del Pdr 203/1988: stabiliva i valori e limiti degli impianti esistenti in conformità con quelli europei. Il decreto ha permesso però ad Enel di adeguarsi con interventi scaglionati nel tempo entro il 2002. Porto Tolle, la centrale più inquinante e più costosa da riconvertire, è stata tenuta per ultima senza introdurre tecnologie di prevenzione - in particolare desolforatori e denitrificatori – che Enel adottava altrove. Alla fine, ricostruisce la perizia, “la centrale di Polesine Camerini risulta l’unica di proprietà di Enel non ambientalizzata”.  Il 23 dicembre 2002 il decreto legge n. 281 concede l’ennesina deroga. Il pretesto, allora, era la fragilità del quadro elettrico nazionale. E l’anno dopo ancora una deroga, col decreto legge 25/2003, alle prescrizioni fissate ormai nel 1990, 13 anni prima.
Deroga e dilazioni: 20 anni di politica sotto il traliccioLa politica e le emissioni, la politica e il colosso nazionale dell’energia. Un rapporto sempre stretto che si fa strettissimo quando serve. La centrale di Porto Tolle doveva essere “ambientalizzata”, cioè ricondotta a tetti di emissione imposti dall’Europa e vigenti per il resto del Paese, fin dal 1990. E invece fino a oggi ha mantenuto impianti di combustione a olio con tecnologia da anni Sessanta. Come è stato possibile? Con l’aiuto della politica che ha sempre trovato, a livello centrale e locale, le giuste deroghe e scappatoie per evitare a Enel un intervento di adeguamento oneroso.  Il primo processo penale, quello che ha visto riconoscere la responsabilità degli amministratori dell’epoca per i reati ambientali, ha accertato poi che nonostante le deroghe per l’ambientalizzazione Porto Tolle è stata tenuta scientemente per ultima con ulteriore danno per l’ambiente. Da qui le condanne. Avanti dieci anni, si parla di riconversione ma non a metano, bensì a carbone. Costerebbe a Enel 2,7 miliardi ma il punto è che non porterebbe mirabili riduzioni degli inquinanti, anzi. Il progetto tiene banco per anni con le associazioni ambientaliste, operatori turistici e pescatori che si mettono di traverso e riescono, nel 2011, a far annullare dal Consiglio di Stato il decreto di Valutazione di impatto ambientale (Via). I giudici accolgono i rilievi sollevati e riconoscono che non è stata fatta una valutazione alternativa rispetto all’ipotesi del carbone. In particolare sul gas metano, visto che a 10 km dalla centrale c’è il più grande terminale gasifero offshore al mondo (il rigassificatore di Porto Viro, di proprietà dell’emiro del Quatar), realizzato proprio nella prospettiva di alimentare la centrale di Polesine Camerini. Ma i due impianti non saranno mai collegati perché il metano costa più del carbone. Poi il colpo di scena: nell’estate del 2011 prima il parlamento e poi Regione Veneto modificano le leggi, statali e regionali, rendendo non più necessarie valutazioni alternative. Una coincidenza temporale? Forse. Fatto sta che così facendo si consente di porre nel nulla la sentenza del Consiglio di Stato e di agevolare la nuova Via per il progetto a carbone, attualmente in corso presso il Ministero dell’ambiente. Parallelamente la politica trova modo di mettere lo zampino direttamente sulle inchieste. 
 Gli interventi a gamba tesa sui magistrati che indagano 
Luciano Violante (Pd)
Se la politica tenta a frenare i magistrati della Procura di Rovigo. “Diciamo che è un dato di fatto che tutti quelli che hanno la lavorato a questa vicenda hanno avuto qualche problema”, ricorda l’avvocato di parte civile Ceruti. Il riferimento, neanche troppo velato. Il riferimento, neanche troppo velato, è all’avvocato dello Stato Giampaolo Schiesaro, fatto oggetto di pressanti consigli, da parte di un agente dei servizi caduto in disgrazia, di “allentare la presa” sul processo Enel. Ma anche alla richiesta di azione disciplinare nei confronti del pm Manuela Fasolato avanzata dal Pd Luciano Violante e dal ministro Pdl Angelino Alfano. Il filo delle future larghe intese, improvvisamente, si stringeva intorno al collo di chi rischiava di intaccare interessi che non vanno toccati. La storia è nota. E’ il 2010 e il pm sta lavorando a diversi filoni d’inchiesta sulla centrale ipotizzando legami tra le emissioni e l’aumento dell’incidenza di malattie nei territori circostanti l’impianto. Sulla centrale pende l’iter della Valutazione d’impatto ambientale per il progetto di riconversione che vale, sulla carta, 4mila posti di lavoro e 2 miliardi e mezzo di investimento. Il pm comunica però agli enti interessati, ministero dell’Ambiente e Commissione di Via, le risultanze di alcune perizie che mettono i dubbio la veridicità dei dati del progetto depositato da Enel: un via libera senza una loro verifica avrebbe potuto aggravare il quadro dei reati e comportare ulteriori conseguenze per ambiente e popolazione. Apriti cielo. Cortina Incontra, il 5 gennaio 2010, Violante nella inedita veste di presidente della associazione Italia decide, si espone in prima persona chiedendo un’ispezione. Sarebbero solo parole in libertà, se non fosse per un dettaglio: Enel è tra i soci fondatori di Italia decide. Ma la coincidenza non impedisce al ministro Alfano di prendere in esame le doglianze di Violante e di inviare a Rovigo il capo degli ispettori Arcibaldo Miller (poi coinvolto nell’indagine della cosiddetta P3) con contestazioni varie e fantasiose (come quella di aver lavorato, su autorizzazione dei superiori, al processo Enel mentre era impegnata come commissario nel concorso per gli esami nazionali in magistratura). Fasolato, nel frattempo trasferita alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Brescia, ha chiesto ed ottenuto dal CSM di essere applicata a questo processo davanti al Tribunale di Rovigo, ed ancor oggi è ancora lì che non molla. E la centrale dei veleni pure.