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mercoledì 5 marzo 2014

Regolamenti, ecco che cosa blocca il Parlamento. E la democrazia. - Thomas Mackinson


Sono vecchi di mezzo secolo, prevedono ancora l'appello nominale, il voto per alzata di mano o con palline bianche e nere. Scandiscono i tempi d'aula su quelli del primo Novecento, quando i parlamentari raggiungevano Roma col treno a vapore. Le leggi d'iniziativa popolare restano al palo e viaggiano, tra mille intoppi, solo i provvedimenti dell'esecutivo.

A dispetto di una conflittualità sempre più scenica in Parlamento non si muove proprio nulla, al punto che le leggi d’iniziativa parlamentare approvate nel corso della XVII Legislatura si contano sulle dita di una mano. Tanta, del resto, è ormai la ruggine sulle assemblee legislative che per levarla non basta cambiare la Costituzione, abolire il Senato e neppure riformare la legge elettorale. Se il Parlamento è incapace di decidere e ogni scelta è ostaggio dei veti incrociati allora è da lì che bisogna cominciare, dai regolamenti parlamentari. Sono gli strumenti di autogoverno delle Camere a indicare le procedure di formazione delle leggi, il contingentamento dei tempi, le modalità del dibattito e del confronto tra maggioranza e opposizione, Governo e Parlamento. Forse in maniera sotterranea ma più penetrante ancora delle stesse previsioni costituzionali, queste procedure condizionano l’attività della fabbrica legislativa che ha smesso di produrre, dove il tempo si dilata all’infinito e tutto si perde, come lungo una conduttura bucata. A leggerli oggi sembrano piuttosto un elenco di riti formali e barocchi che il tempo ha trasformato in una sabbia finissima tra gli ingranaggi della democrazia parlamentare. Ed è un bel problema, visto che il nostro Parlamento pare sia il più dispendioso d’Europa e costi 27,15 euro l’anno a cittadino, 2,2 euro al mese in meno in busta paga.
Risalgono al 1971, quando Letta era all’asilo e Renzi non era ancora nato e l’ultima modifica è del lontano 1997, ormai cinque legislature fa. Ma mantengono norme che risalgono addirittura al Parlamento del Regno. Ancora oggi prevedono nelle commissioni la votazione con le palline bianche e nere (art. 49, comma 3) mentre siamo entrati nell’era digitale, della diretta streaming via web e della trasparenza (è successo ancora pochi giorni fa, in occasione della nomina del Presidente dell’Istat). Le anticaglie sono sparse ovunque, a partire dai tempi della fiducia al governo: prima che venga votata in aula devono passare almeno tre giorni da ché viene posta (art. 115), e quando a porla è il governo (art. 116) non prima di 24 ore. Perché aspettare tanto? Perché qualche era fa si doveva consentire ai parlamentari che risiedevano in altre regioni di raggiungere Roma in carrozza o coi trenini a vapore del primo Novecento. Un altro esempio di previsioni dei regolamenti ormai superate si ritrovano nell’organizzazione dei lavori. L’art.  23 comma 10 prevede ancora che il Parlamento si fermi una settimana al mese per consentire agli onorevoli di occuparsi dei loro “collegi elettorali” che sono stati aboliti da un pezzo. La norma sulla sospensiva no. 
Insomma tanta polvere copre ormai centinaia di articoli palesemente antistorici, ma piuttosto che levarla si fanno valere “prassi” e “interpretazioni” che – fatalmente – favoriscono la legge del più forte o la convenienza politica del momento. Lo si è visto, da ultimo, con l’ormai celebre “ghigliottina” che non è prevista alla Camera e tuttavia è stata calata sull’opposizione per interrompere l’ostruzionismo a una legge controversa (il decreto Imu-Bankitalia). E ancora prima con il dl Salva-Roma che il governo ha dovuto ritirare a 24 ore dalla fiducia perché appesantito da una pioggia di emendanti “fuori sacco” che ha irritato il Colle e rilanciato l’urgenza di una riforma dei regolamenti. E’ appena successo, poi, con una legge elettorale catapultata a Montecitorio da fuori, con accordi extraparlamentari e senza il vaglio degli uffici tecnici o un testo depositato, che in queste settimane sta faticosamente riprendendo la strada di un percorso parlamentare legittimo. Del resto era accaduto anche col voto palese sulla decadenza di Berlusconi: siccome non era previsto lo si è deciso con un voto a maggioranza che ha mandato su tutte le furie il centrodestra.
Ma contro queste decisioni, pur contestatissime e non sempre a torto, non c’è appello. Perché – sempre a proposito di retaggi – i regolamenti sono insindacabili dall’esterno, non rientrano cioé nella categoria di “leggi e atti con forza di legge” su cui la Corte Costituzionale possa pronunciarsi a seguito di ricorso. “Un problema non secondario”, avverte l’esperto di diritto parlamentare Stefano Ceccanti (Pd) “perché se vogliamo rafforzare la capacità di programmazione del governo e della maggioranza attraverso i regolamenti dovremmo anche tutelare l’opposizione inserendo la previsione costituzionale del ricorso preventivo alla Corte”.
Il governo prende sempre il Frecciarossa (e abusa dei suoi poteri)I regolamenti, innanzitutto, non garantiscono tempi certi ai progetti del Governo che finisce per abusare della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia. L’esecutivo usa il decreto-legge che entra subito in vigore e vi è una spinta a convertirlo in sessanta giorni. Spinta, non garanzia, dato che alla Camera i decreti-legge non vedono mai contingentato il tempo di approvazione secondo una fase definita “transitoria” nei regolamenti ma che dura dal 1997. “Ma in Italia si sa, non c’è nulla di più definitivo del transitorio”, dice Ceccanti. E le prescrizioni del regolamento, fatalmente, se ne vanno a ramengo. L’art 24. comma 3 dispone ad esempio che all’esame dei disegni di conversione dei decreti-legge è destinata non più delle metà del tempo complessivamente disponibile. Una previsione sistematicamente trascurata, visto che nelle ultime settimane il Parlamento ha lvorato solo su decreti legge (Imu, Carceri, Destinazione Italia, Mille proroghe…).
Per blindare i provvedimenti di legge c’è poi la questione di fiducia. Nasceva come momento di verifica politica tra Governo e Parlamento, è diventato il lasciapassare procedurale per qualsiasi misura che si vuol approvare senza proposte emendative.  In 10 mesi Letta l’ha posta 9 volte su provvedimenti di legge e cinque volte su mozioni, perpetuando la prassi dei governi precedenti (Berlusconi e Monti nella XVI legislatura la posero ben 77 volte). Per il neonato esecutivo di Matteo Renzi è ancora tutto da vedere. Stesso discorso per la procedura d’urgenza (art. 69) che il governo (o 10 deputati) utilizza non per il carattere emergenziale dei provvedimenti, ma per assicurarsi l’approvazione in tempi certi. I parlamentari sanno che quelli sono gli unici treni che potrebbero arrivare a destinazione e si esercitano in Commissione a rendere più obesa possibile la legge di conversione con micro-emendamenti localistici e lobbistici. E il Governo, pur di portare a casa i contenuti originari, accetta di buon grado. E la “qualità della legislazione”, lato governo e lato parlamento, affonda.
In realtà esisterebbe la possibilità di accelerare l’iter di un provvedimento assegnandolo alla commissione competente con modalità redigente, ma non avviene quasi mai e la vera fase istruttoria di una legge si fa in aula, dove per vedere la luce servono però tempi lunghissimi: per una prima lettura di un decreto-legge al Senato sono previsti 30 giorni, alla Camera 52. Peccato, allora, che si voglia abolire il primo e non la seconda. Ad azzoppare le leggi contribuisce poi il gran valzer degli emendamenti (art. 114) che fioccano a centinaia, fiaccando il ruolo istruttorio dei lavori parlamentari, stravolgendo i testi e dilatando all’infinito l’esame degli articoli in approvazione. Nel primo anno della XVII legislatura ne sono stati presentati qualcosa come 28mila. Le commissioni che dovrebbero esaminarli “in via principale” non lo fanno e finiscono per diventare un luogo di transito verso l’aula, dove il lavoro ricomincia da capo e si duplica, dilatando i tempi. Sul disegno di legge per l’abolizione delle Province in commissione Affari Costituzionali, ad esempio, sono piombati 800 emendamenti, una cinquantina quelli approvati, 750 i bocciati. Ma gli stessi sono rispuntati in aula a distanza di 48 ore. “E’ un automatismo che va contro il buon senso della legislazione perché vanifica il ruolo istruttorio delle commissioni e appesantisce il lavoro dell’aula che dovrebbe essere solo una limatura”, spiega Gianclaudio Bressa che sta lavorando a questi aspetti nella giunta per il regolamento. 
Per contro il regolamento lascia pochi spazi di controllo del Parlamento sull’esecutivo, a partire dal sindacato ispettivo. E’ il caso del “question time” (art. 135) che dovrebbe essere un momento di verifica senza paracadute per il governo e si è ridotto a una farsa. Da regolamento prevede la presenza del premier (o del vice) due volte al mese per rispondere personalmente alle interrogazioni dei deputati (per prassi il mercoledì alle 15) ma non succede mai. Il capo del governo elude serenamente l’impegno lasciando l’incombenza ad altri (solitamente ministri o funzionari). Il confronto si risolve poi in una finzione a favor di telecamere: giorni prima il ministro interessato riceve le domande per iscritto e ha tutto il tempo di presentarsi in aula con un foglietto di risposta preparato dagli uffici, mentre il deputato che ha sollevato la questione avrà già in mano la controreplica con cui prolungare la diretta tv. In altre parole il question time all’italiana non mette mai in seria difficoltà il governo: è tutto finto, studiato, preventivato. E intanto solo un terzo delle 7mila interrogazioni depositate da inizio legislatura ha trovato risposta da parte del governo, per le interpellanze urgenti (art. 136) solo 25 su 206. Alla faccia dell’urgenza. 
Il filibustering professionista delle opposizioniChi conosce meglio i regolamenti parlamentari, da sempre, è l’opposizione. Non potendo incidere nella discussione e sulle proposte di legge fa una scienza delle anticaglie procedurali che poi usa, strumentalmente ma legittimamente, per allungare il brodo, prender tempo e rimandare il voto su provvedimenti che non gradisce. Si chiama filibustering, e in Parlamento è ormai uno sport professionistico dalle tante specialità. A partire dagli ordini del giorno (art. 88), gli impegni che l’aula vota nei confronti del governo. Nelle previsioni originali servivano a razionalizzare e qualificare il dibattito parlamentare, di prassi non vengono minimamente considerati perché non hanno alcuna cogenza legislativa, tuttalpiù vengono accettati dal governo come una raccomandazione. Eppure hanno uno straordinario successo: nella X legislatura (1987-1992), per dire, ne furono presentati 802, nell’ultima quasi 10mila (9.995), in quella attuale (10 mesi) siamo già a quota 3.790. In Parlamento ci sono ormai più ordini del giorno che giorni. E il motivo è uno solo: ciascun parlamentare che li presenta può parlare per 5 minuti a scopo illustrativo e per altri 5 sulle intenzioni di voto. Dieci minuti, per 600 deputati, possono fare la differenza per rallentare la discussione. “Sono una routine utile solo a dare tempo all’opposizione”,  spiega Antonio Leone, per due volte membro della Giunta del regolamento. Non è poi escluso che per ciascuno si avvii una discussione perché altri deputati possono intervenire con dichiarazioni di voto in dissenso o consenso, avendo altri 10 minuti a testa. E non è finita. Un ordine ritirato da un esponente della maggioranza può essere proditoriamente fatto proprio da uno dell’opposizione, così, tanto per allungare la discussine.
Così gli interventi in aula (art. 39) sono un’arma letale contro il tempo. “Il nostro regolamento prevede tempi d’intervento del secondo scorso e non c’è Parlamento in Europa che ne abbia di analoghi”. Al Bundestag, per dire, parlano per massimo 15 minuti, nel congresso dei deputati spagnoli per 10. Da noi, secondo il regolamento, il parlamentare può andare avanti mezz’ora che raddoppia (un ora!) se la discussione verte su mozioni di fiducia. “Il problema – spiega Leone – è che alla fine gli interventi diventano, nel migliore dei casi, momenti meramente oratori, nel peggiore strumenti di ostruzionismo che distorcono e sviliscono il ruolo del dibattito”. Manca poi un “filtro” ai maxiemendamenti (art. 79 comma 10) e agli emendamenti sostitutivi che non abbiano una consequenzialità logico-normativa rispetto alla materia principale trattata (una previsione limitata ai soli decreti-legge). E sono in buona compagnia. Le mozioni (art. 110) – oltre 500 quelle depositate in meno di un anno – possono essere un altro strumento di “filibustering”: le presenta praticamente chiunque, bastano 10 deputati o un presidente e cioè meno dei componenti necessari a formare un gruppo parlamentare e spesso a scapito del peso “politico” e a vantaggio di istanze personalistiche, parziali, elettorali.
La volontà popolare aspetta sempre. La trasparenza, pureIn questa dinamica bulimica e perversa qualcosa, fatalmente, resta fuori e si perde. Su tutto la volontà popolare, quella benedetta in Costituzione ma non nei regolamenti. Delle 28 leggi d’iniziativa popolare presentate da inizio legislatura non una finora è stata calendarizzata. Il motivo? L’articolo che le disciplina non fissa un termine per la discussione. E così finiscono nel nulla insieme alle petizioni (art. 33). Sono istituti antichi, previsti come espressione della volontà dei cittadini e il regolamento vuole che se ne dia lettura almeno una volta al mese e che vengano trasmesse alle commissioni competenti perché ne tengano conto in caso di elaborazione di testi pertinenti rispetto al loro oggetto. “Finiscono in un cassetto, non vengono mai prese in considerazione”, confida un parlamentare di lungo corso. Del resto non vanno lontano neppure le proposte che arrivano dagli stessi parlamentari. Lo dimostra la statistica degli “stati non  conclusi” della scorsa legislatura: alla scadenza del quinquennio su 9.572 proposte di legge depositate quasi 6mila erano assegnate ma senza che la discussione fosse mai iniziata, 1.411 erano ancora in fase d’esame, 529 ancora da assegnare. Procedimenti conclusi e leggi approvate?  Soltanto 37 (trentasette!).  
Tra gli anacronismi del regolamento spiccano poi le disposizioni in materia di pubblicità dei lavori e di trasparenza. Nell’era di Internet e del multimediale il mezzo di pubblicità prevalente, specie per le commissioni, è ancora la pubblicazione dei resoconti e degli atti parlamentari in formato cartaceo. Eppure l’art. 64 della Costituzione afferma – senza distinguere l’Assemblea dagli altri organi parlamentari – il principio della “piena pubblicità delle sedute”. Ebbene nelle commissioni la “pubblicità” si risolve in resoconti “sommari” e non c’è alcuna rendicontazione delle presenze dei componenti e dei voti espressi. “Manca una parte essenziale dell’informazione necessaria per seguire e verificare l’esercizio della rappresentanza proprio nei passaggi deliberativi, quando i singoli deputati contribuiscono attraverso la loro presenza, i loro interventi e le loro decisioni a impostare, preparare e formare le leggi”, spiega il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (PD) che su questo ha presentato a gennaio una specifica proposta di modifica al regolamento (scarica). Non è tutto.
Le audizioni formali, cioè pubbliche, possono riguardare solo ministri e dirigenti preposti a settori della pubblica amministrazione. Per il regolamento possono essere pubbliche solo le audizioni di ministri e dirigenti preposti a settori della pubblica amministrazione. “Una ristrettissima platea”, spiega Greorio Gitti (Per l’Italia) che sta lavorando a questo tema. “Sono esclusi, ad esempio, i rappresentanti di società a partecipazione pubblica e gli esponenti di enti e organismi pubblici di diritto privato a partecipazione pubblica, pur essendo di rilevante interesse pubblico”. E fu così che dal 1979 non sono pubbliche le audizioni dei candidati a nomine governative sulle quali le commissioni sono chiamate a esprimere parere parlamentare. Solo nel 2012, in occasione delle elezioni dei componenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e del Garante per la protezione dei dati personali, è stata poi prevista la possibilità di inviare alla Presidenza della Camera i curricula da mettere a disposizione dei deputati. Ma nessuna pubblicità ne è stata data sul sito del Camera. “Chiaro che così facendo – dice Gitti – se non c’è trasparenza,  non c’è responsabilizzazione delle forze politiche né condivisione con i cittadini delle opzioni e delle nomine effettuate”. E questo era chiaro. 
La riforma delle regole che riapre lo scontroQualcosa potrebbe cambiare. Dallo scorso giugno a Montecitorio si sta istruendo una riforma dei regolamenti e delle procedure parlamentari (scarica i testi). I testi depositati dopo sette mesi tentano una manutenzione generale tramite correttivi parziali su tempi e modi del procedimento legislativo, attività di indirizzo e controllo, programmazione dei lavori, disciplina delle discussioni e tempi di intervento. Si tengono però alla larga da nodi spinosi e cruciali, come la disciplina della formazione dei gruppi parlamentari (art. 14) che facendo proliferare piccoli gruppi sganciati dal mandato elettorale alimenta la transumanza (o la compravendita) e l’instabilità del quadro politico. La regola dice che per formare un nuovo gruppo serve un minimo di 10 senatori e 20 deputati, ma sono ammesse deroghe per i partiti che hanno presentato un simbolo alle elezioni in tutta Italia (come Fratelli d’Italia, composto di soli 8 deputati) e passaggi individuali a un diverso partito da quello d’elezione (un centinaio nella scorsa legislatura). Le modifiche proposte aprono però anche un nuovo, durissimo, fronte di lotta, in particolare coi Cinque Stelle che denunciano l’ennesimo tentativo di imbavagliare l’opposizione contingentando tempi e strumenti a sua disposizione e istituzionalizzando la ghigliottina. Il deputato Danilo Toninelli (M5S), in particolare, ha preso parte ai lavori della giunta ma non ne ha condiviso i risultati finali. E nella convinzione che ad azzoppare la “centralità del Parlamento” non siano i regolamenti vecchi ma la litigiosità della maggioranza ha depositato una diversa proposta di riforma (scarica). Difficile dire come finirà, anche perché molto dipende dall’esito delle altre riforme costituzionali che si muovono su binari paralleli e altrettanto incerti. I testi elaborati dovranno essere votati a maggioranza assoluta perché – sempre a proposito di regole arcaiche – così vuole l’art. 64 della Costituzione che, all’epoca, intendeva sottrarre al Re e al Senato la possibilità di modificare le regole di funzionamento e formazione delle leggi. Il Re d’Italia è sparito nel 1946 ma sopravvive, come un fantasma, nei regolamenti parlamentari. 

venerdì 21 giugno 2013

Governo Letta, prima fiducia su decreto emergenze. M5S: “Contro nostre proposte".

Deputati Movimento 5 stelle


Franceschini cambia idea nel giro di 24 ore: "Siamo stati disponibili ad aperture, ma per i Cinque Stelle non è stato sufficiente". Rabbia dei deputati grillini: "Avevamo chiesto di stralciare articoli su Tav e una variante di valico in Liguria. Prendono in giro gli italiani". Per il voto a Montecitorio salta il Consiglio dei ministri di venerdì.

Il governo porrà la fiducia sul decreto legge sulle emergenze ambientali. Sarà la prima chiesta dall’esecutivo guidato da Enrico Letta. Nonostante i proclami di mercoledì (testualmente: “Non abbiamo nessuna volontà né necessità politica di mettere la fiducia”) il ministro per i Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini cambia idea e mette il decreto sulla corsia d’emergenza, è il caso di dire. Il motivo è piuttosto semplice. Sul decreto il Movimento Cinque Stelle aveva avviato una dura battaglia, arrivando all’ostruzionismo e agli interventi personali di un minuto di tutti i deputati. (che ha portato un deputato di Scelta Civica a perdere la pazienza). Ma dopo un tentativo di accordo nella notte l’intesa è saltata su alcune modifiche concordate al testo. Così il governo ha deciso di “tagliare” tutti gli emendamenti e arrivare velocemente anche al voto perché già lunedì 24 giugno è stato fissato l’inizio del dibattito della terza lettura del provvedimento nell’aula del Senato. E’ prevista anche la mattinata del 25 per l’approvazione finale prima della sua decadenza. A Montecitorio il voto di fiducia è stato fissato per domani 21 giugno alle 11. Dalle 14 (con diretta televisiva) sono previste le dichiarazioni di voto finali. Il voto sul provvedimento, infine, è previsto per le 15,30. L’urgenza del governo è confermata nella nota di Palazzo Chigi: “In considerazione del voto di fiducia alla Camera dei Deputati sul decreto legge numero 43/2013, la riunione del Consiglio dei Ministri, già convocata per le ore 10,00 è rinviata”. 
Di Maio: “Non vogliono far passare le nostre proposte”
L’annuncio del ministro ha provocato l’ulteriore protesta dei deputati grillini. “Stavamo salvando il Parlamento – scrive su facebook il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio – ma pur di non far passare le nostre proposte di pulizia del decreto, il governo preferisce porre la fiducia e far saltare tutti i tavoli”. Di Maio promette: “D’ora in poi nulla sarà più come prima. Si apre l’era del ‘costruzionismo’ in aula, se si pensa che la Camera dei deputati debba diventare un ente notificatore di decreti omnibus, dovranno prendersi le loro responsabilità. Quali? Enrico Letta: ‘Non userò la leva della fiducia per far passare i provvedimenti’. E’ bastato un mese”. L’ostruzionismo dei Cinque Stelle era stato originato dal fatto che, a parere delle opposizioni (alla protesta si era aggiunta anche la Lega Nord), all’interno del decreto ci fossero molte misure diverse tra loro e alcune di queste non riguardassero affatto le emergenze ambientali. Dai rifiuti di Napoli alla ricostruzione post terremoto in Abruzzo, poi l’Expò di Milano, il rilancio dell’area industriale di Piombino, la riforma delle Camere di commercio o l’acquedotto della Puglia.
Ma “di fronte alle emergenze, lo dico a me e ai parlamentari M5S, ogni tattica deve fermarsi e passare in secondo piano” ha spiegato il ministro Franceschini dopo aver annunciato il voto di fiducia. “Non avrei voluto questo voto di fiducia: credo che si debba fare tutti uno sforzo per riportare il voto di fiducia vicino il più possibile alla sua natura costituzionale. E non invece, come avvenuto nel tempo, semplicemente a uno strumento per accorciare i tempi di approvazione dei provvedimenti e in particolare dei decreti. Serve una modifica regolamentare per avere tempi certi di approvazione dei provvedimenti”. Solo 24 ore prima lo stesso Franceschini aveva detto: “Non abbiamo nessuna volontà né necessità politica di mettere la fiducia”. 
Franceschini: “Disponibili ad aperture, ma per il M5S non è stato sufficiente”
“Non avrei voluto fare il mio primo intervento da ministro in Aula in un’occasione come questa” aveva esordito il ministro. E di fronte agli applausi dai banchi dell’opposizione dice: “Non capisco se applaudite perché siete contenti o perché siete talmente imprevedibili…”. Franceschini racconta come si è arrivati a porre la prima fiducia. “Stiamo affrontando la conversione di un decreto del precedente governo che è stato approvato dal Senato sicuramente in tempi lunghi, ma è accaduto anche perché la prima parte dei 60 giorni per la conversione sono stati consumati per la nascita di questo governo. Il decreto arriva alla Camera tardi, con poco tempo a disposizione – ammette il ministro – ma è evidente che un decreto che riguarda le emergenze ambientali non si può rischiare di non convertirlo”. Secondo la ricostruzione di Franceschini “sono stati fatti diversi tentativi ed è stata data disponibilità di apertura in questi giorni da parte del governo e della maggioranza” rispetto alle richieste dell’opposizione e del M5S in particolare. “E’ stata fatta prima una proposta del M5S – continua – di trasporre i punti di modifica condivisi in una nuova proposta di legge da calendarizzare in Aula. Ma questa mattina è stato comunicato che questa proposta non era più sufficiente e bisognava modificare in alcune parti non condivise il decreto. Il comitato dei nove ha dunque indicato quattro punti introdotti al Senato, da eliminare. Il governo ha dato la disponibilità anche a rinunciare a un punto cui teneva molto”. Ma anche questa volta “sono state fatte alcune richieste non condivise, anche se legittime, come condizione per far cessare l’ostruzionismo: senza modifiche aggiuntive e non condivise il M5S non avrebbe consentito l’approvazione del dl entro stasera” per mandarlo al Senato lunedì pomeriggio e convertirlo entro martedì, quando scade. Saltato l’accordo, il governo ha deciso di porre le fiducia. “In queste ore – nota tra l’altro Franceschini – mi è capitato anche che mi sia stato chiesto da un gruppo di opposizione, di porre la fiducia”. Secondo i Cinque Stelle il gruppo in questione è quello di Sinistra Ecologia e Libertà.
Villarosa: “Le tattiche le conoscete voi. Non prendete in giro gli italiani”Nell’Aula di Montecitorio la replica è affidata al deputato Alessio Villarosa: “Le tattiche parlamentari le conoscono bene altri qua dentro e potete dire quello che volete – scandisce rivolto verso Franceschini – ma i terremotati dell’Emilia sanno quanto siamo attenti a questo tema. Non siamo noi, ma voi, a fare tattica. Non prendete in giro gli italiani. Vergogna!”. Villarosa, visibilmente alterato, sbatte il microfono e riceve l’applauso del gruppo M5S. ”Dare la colpa al Movimento 5 Stelle è quantomeno meschino – sbotta il capogruppo Riccardo Nuti, lasciando l’Aula – Bastava che il governo dicesse che ha sbagliato”.
La rabbia dei deputati del Movimento Cinque Stelle così prende corpo sui social network. “Supercazzola del ministro Franceschini! Il Governo anziché ascoltare le richieste del Parlamento e del M5S chiede la fiducia.Vergogna!”: oltre a questo post di Manlio Di StefanoGiulia Di Vita tra gli atri commenta: “Trattativa fallita, il governo scarica la responsabilità sulla minoranza dopo che non hanno accolto nemmeno mezza delle due nostre richieste”. “Franceschini in aula sta facendo un discorso alla supercazzola dicendo che il Governo mai avrebbe voluto mettere la fiducia e invece mettono la fiducia. Sel, l’opposizione finta che vuole ridare al Parlamento centralità ha chiesto, privatamente, il voto di fiducia al Governo! Vergogna! Basta ricatti, vogliamo che sia il Parlamento a legiferare!” commenta anche Alessandro Di Battista
“Ora guerra”, “Franceschini sciacallo”. Le bacheche Facebook dei deputati 5 Stelle si riempiono di messaggi “bellicosi”. “Sono incazzatissimo – si legge su quella di Claudio Cominardi – E’ stato posto il voto di fiducia al decreto emergenza ambientale nel quale sono state inserite una marea di porcate. Il ministro Franceschini in Aula si è comportato da sciacallo, si è nascosto dietro le tragedie umane dei terremotati per giustificare l’atto politico. Vergogna!”. “Noi abbiamo chiesto di togliere gli articoli che riguardano Tav e terzo valico dei Giovi – racconta Matteo Mantero – Non vogliamo che queste cose passino infilate sotto banco in un decreto sulle emergenze, quando non hanno nulla di emergenziale, di queste cose si deve discutere in aula, abbiamo il diritto di poter fare il nostro lavoro. Il governo non ha sentito ragioni, e metterà la fiducia. Oggi il Parlamento è stato svuotato di ogni suo potere. Questo è presidenzialismo di fatto, il governo decide, il Parlamento ratifica, la fine della democrazia parlamentare!”. “E meno male che quelli che ‘non dialogano’ siamo noi” commenta Michele Dell’Orco
Il tentativo di accordo. Saltato
In effetti da una parte la conferenza dei capigruppo di Montecitorio aveva deciso all’unanimità di “ripulire” il testo dagli emendamenti e porre al voto dell’Aula il testo “quasi originale”. E infatti il vicepresidente Di Maio aveva esultato: “Un successo del Parlamento e del M5S, più ostruzionismo il nostro è stato ‘costruzionismo’”. Dall’altra parte i Cinque Stelle si erano riuniti per poi chiedere lo stralcio di due articoli che riguardano le grandi opere, Tav e variante di Valico, per garantire lo stop all’ostruzionismo. Ma su quest’ultima richiesta il governo ha detto no.
I più accesi difensori di Franceschini sono i deputati democratici: “Tristi scene da Prima Repubblica del neonato gruppo alla Camera L5S: Lega 5 Stelle” ironizza Dario Ginefra dopo gli interventi di Lega e Cinque Stelle. Andrea De Maria e Stefano Esposito parlano invece di comportamento irresponsabile dei parlamentari del Movimento che “obbliga” il governo a porre la fiducia: ”Il loro atteggiamento avrebbe portato a far pagare un prezzo inaccettabile sulla pelle dei terremotati”. 
In realtà i Cinque Stelle non sono soli. “Ultimo atto della farsa di questo governo – commenta Jonny Crosio, senatore della Lega – Con il ricorso alla fiducia stiamo replicando l’esperienza ‘Monti’. Oltre all’imbarazzo di paragonare la spazzatura di Napoli all’emergenza terremoto in Emilia vediamo un governo che deve porre la fiducia per coprire questa nefandezza. Devono andare a casa”. . “Soprattutto nel passaggio al Senato, il decreto è stato infarcito di ‘marchette’ per centinaia di milioni di euro – dice Guido Crosetto – coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia - Se è vero che mancano risorse, forse si sarebbe dovuta cogliere l’occasione del passaggio alla Camera per ripulire il provvedimento. Ma pur di rimanere in piedi, il ‘governo del fare fumo’ è disposto a turarsi, a seconda del giorno, naso, orecchie ed occhi. E comunque sia il ricorso alla fiducia dopo mille parole sul ruolo del Parlamento da parte di Letta è uno dei tanti ossimori cui dovremo abituarci”.