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venerdì 15 novembre 2013

Tegola Ue per Letta: “Debito italiano troppo alto, no flessibilità su investimenti”.

Letta e Saccomanni


L'Ue boccia la Legge di Stabilità. Chiede a Letta e a Saccomanni di accelerare "i progressi" e dubita che il debito verrà ridotto nel 2014.

La mannaia di Bruxelles cala sul governo Letta. Non sarà concessa alcuna flessibilità sugli investimenti, il cosiddetto “bonus Ue” che aveva chiesto l’Italia, perché il debito italiano è troppo alto. La Commissione Ue dopo aver analizzato (e bocciato) la Legge di Stabilità ha infatti deciso che “l’Italia non ha accesso alla clausola per gli investimenti perché il debito non si è evoluto in modo favorevole”.
La notizia ha subito suscitato le reazioni dei mercati con i titoli di Stato italiani che hanno ricominciato a salire portando lo spead con il Bund tedesco a 240 punti base. Del resto le parole della Commissione pesano come macigni. “Per l’Italia c’è un rischio che, con i piani correnti, la regola della riduzione del debito non sarà rispettata nel 2014″, si legge ancora nella comunicazione sulla valutazione delle leggi di stabilità dei paesi dell’Eurozona. Bruxelles, quindi, “invita” le autorità italiane “a prendere le misure necessarie per assicurare che la Legge di Stabilità del 2014 rispetti pienamente il Patto di Stabilità e Crescita“.
Non solo. La Commissione chiede anche di “accelerare i progressi per attuare le raccomandazioni fiscali nell’ambito del semestre europeo”. Secondo le regole del Two-Pack, Bruxelles può chiedere un piano riveduto se ha individuato inosservanze particolarmente gravi negli obblighi della politica di bilancio previsti dal Patto di stabilità e crescita. Ma, si spiega dalla Commissione, “non è stato il caso in questo round”.
A questo punto la Commissione non può che far “molto” conto sugli impegni presi dal governo italiano in particolare “sulla spending review portata avanti da Carlo Cottarelli“, che Letta ha prelevato direttamente dalla terza gamba della Troika, il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dice il vicepresidente Olli Rehn parlando della situazione italiana. “Risultati chiari dalla spending review potrebbero permettere all’Italia di chiedere l’ammissione alla procedura per la clausola sugli investimenti, ha aggiunto il commissario Ue agli Affari economici.
”Non c’è bisogno di fare cambiamenti nella legge di bilancio”, ha risposto da Bruxelles il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, spiegando che “con le linee che abbiamo già programmato raggiungeremo il risultato” di ridurre il deficit 2014 al 2,5% ed essere in linea con i parametri. La Commissione Ue “non tiene conto di importanti provvedimenti annunciati dal governo, anche se non formalmente inseriti nella Legge di stabilità, e già in fase di attuazione per contrastare eventuali rischi su disavanzo e debito 2014″, ha aggiunto il dicastero dell’economia.
E ancora, le valutazione della Commissione secondo il Tesoro “discende da una stima di crescita del prodotto che, come è noto, non coincide con quella del governo italiano e comporta implicazioni per le proiezioni di finanza pubblica”. Via Nazionale sottolinea poi che “la crescita del debito in rapporto al Pil è la risultante della recessione che si è protratta fino al 2013 e del pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni (quasi 50 miliardi di euro in 12 mesi tra il 2013 e il 2014), operazione concordata con la Commissione europea. Anche il sostegno finanziario ai Paesi dell’area dell’Euro in difficoltà ha contribuito alla dinamica del debito”.
Quanto ai provvedimenti annunciati non formalmente inseriti nella Legge di stabilità e già in fase di attuazione, il ministero cita la spending review, “la riforma del sistema fiscale attraverso la delega che il Parlamento sta ormai per varare”, il programma di privatizzazioni, “il rientro dei capitali illecitamente detenuti all’estero”, la rivalutazione delle quote del capitale della Banca d’Italia. “Queste misure rafforzano il carattere innovativo della Legge di stabilità 2014 che, per la prima volta dopo diversi anni, avvia un percorso di riduzione della tassazione e di riqualificazione della spesa pubblica tagliando quella corrente ed aumentando la quota destinata agli investimenti, su un arco di tempo triennale, un periodo adeguato affinché gli interventi in essa contenuti possano estrinsecare pienamente i loro effetti”.
Il governo, in ogni caso, “condivide il giudizio della Commissione sull’esigenza di continuare a perseguire una strategia di consolidamento delle finanze pubbliche e di riduzione del debito e ritiene che le misure sopra indicate avranno effetti positivi sui conti pubblici, in linea con quanto richiesto dal Patto di Stabilità e Crescita, senza bisogno di ulteriori interventi”. Dopo il giudizio della Commissione, la Legge di stabilità sarà discussa dall’Eurogruppo il 22 novembre prossimo.

venerdì 25 ottobre 2013

Legge elettorale, Napolitano convoca maggioranza e governo per la riforma.

Giorgio Napolitano


Il presidente della Repubblica ha ribadito l'importanza di intervenire il prima possibile sulla riforma del testo. All'incontro al Quirinale hanno partecipato oltre ai ministri anche i capigruppo. Lega: "Inaudito". Grillo: "Chiederemo impeachment". Dal Quirinale fanno sapere: "Verranno ascoltati anche i gruppi di opposizione".

“Fate presto”. Sono le parole che Napolitano ha pronunciato davanti ai ministri e ai capigruppo della maggioranza al Senato per “spingerli alla riforma della legge elettorale“. Convocati per un vertice d’urgenza  intorno alle 11 al Quirinale sono stati i ministri Dario Franceschini e Gaetano Quagliariello, insieme ai capigruppo Luigi Zanda del Pd, Renato Schifani del Pdl e Gianluca Susta di Scelta Civica e la presidente della commissione Affari Costituzionali, Anna Finocchiaro. Una scelta che non è per niente piaciuta all’opposizione. “Inaudito”, ha tuonato la Lega. Mentre Beppe Grillo dal palco di Trento ha promesso: “Chiederemo l’impeachment”. Tanto che in serata fonti del Quirinale fanno sapere che Napolitano “si riserva di ascoltare i vari gruppi di opposizione, nelle modalità più opportune”.
Il Capo dello Stato, nell’incontro con gli esponenti della maggioranza,  ha ribadito la necessità di intervenire nel merito della legge elettorale il prima possibile. “Non è ammissibile che il Parlamento naufraghi ancora nelle contrapposizioni e nell’inconcludenza”. La riforma della legge elettorale deve essere fatta, secondo Napolitano, prima del “limite estremo” del 3 dicembre, quando la Consulta si riunirà per valutare l’incostituzionalità del Porcellum. Per allora, è persuaso anche il premier Enrico Letta, almeno una delle Camere dovrà aver votato una nuova legge. E’ in gioco, osserva il capo dello Stato, “la dignità del Parlamento”.
Ma la mossa del presidente della Repubblica ha scatenato la reazione di Lega e Movimento 5 stelle. “Inaudito e inaccettabile“, ha detto Roberto Calderoli, “con il voto di ieri, la Lega ha dimostrato con il 100% delle presenze dei suoi senatori di essere l’unica forza a volere veramente le riforme, ivi compresa quella elettorale ma altrettanto ritengo assolutamente non previsto dalla Costituzione il vertice di maggioranza che di fatto ha convocato oggi il presidente Napolitano al Quirinale. Però non spetta certo al Capo dello Stato convocare vertici di maggioranza soprattutto in relazione a una materia squisitamente parlamentare come la materia elettorale. Il Senato lavorerà per cambiare la legge elettorale per volontà politica e non per indebite pressioni o sotto ricatto del 3 dicembre tenuto conto anche del pronunciamento della Corte europea del marzo del 2012 che ha respinto i ricorsi avversi l’attuale legge elettorale”. Duro anche Beppe Grillo, che ha accusato Napolitano di avere incontrato “Pdl e Pd-l, senza convocare il Movimento 5 Stelle, quindi escludendo 9 milioni di persone”. E mettendo in guardia dal rischio di passare “dal porcellum al napolitanellum”, ha spiegato che il M5S “ha già incaricato i propri avvocati di preparare l’impeachment per il capo dello Stato”. 
In serata dal Quirinale è trapelata la notizia che “Napolitano si riserva di ascoltare i vari gruppi di opposizione, nelle modalità più opportune”. Il pressing del Colle dura da giorni. Con lui il governo. Tanto che il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello lo aveva detto chiaro e tondo, nell’Aula del Senato: di fronte alla “Caporetto” di un nuovo “fallimento” in Parlamento, “credo che il governo, con tutte le cautele, debba intervenire”. Si starebbe infatti pensando, trapela da fonti della maggioranza, non certo a un decreto, quanto a un ddl di iniziativa governativa. E nei prossimi giorni sarebbero previsti degli incontri nell’esecutivo per fare il punto, visto che la prossima settimana viene considerata “decisiva” sul fronte della legge elettorale.

giovedì 24 ottobre 2013

Della serie "le nostre vergogne": Crisi, 5 milioni di poveri in Italia. Il governo lavora a un progetto di reddito minimo.

Crisi, 5 milioni di poveri in Italia. Il governo lavora a un progetto di reddito minimo

Il Sia (sostegno per l'inclusione attiva), appoggiato dal Movimento 5 Stelle e dal ministro Giovannini, prevede un trasferimento monetario a chi dimostra il proprio stato di indigenza. Ma include anche l'obbligo di cercare lavoro e programmi di inserimento sociale. Potrebbe costare 8 miliardi l'anno.

In Italia quasi due milioni di famiglie, cinque milioni di persone, sono in povertà assoluta. Non hanno cioè accesso a un paniere di beni e servizi (cibo, alloggio, riscaldamento, vestiti) considerato il minimo accettabile nella nostra società. Eppure, quando si parla dell’introduzione di una misura di contrasto alla povertà in Italia parte subito il fuoco di sbarramento conservatore: la gente si sdraierebbe al sole a fare la siesta anziché lavorare; si sovvertirebbe l’ordine costituito, in cui le prestazioni di welfare devono essere guadagnate attraverso il lavoro; non servirebbe a nulla, se non a fare un po’ di carità. Questi argomenti non provengono tutti dalla stessa parte politica, ma hanno contribuito a impedire che, unico tra i paesi dell’Europa occidentale assieme alla Grecia, l’Italia non abbia una misura generalizzata contro la povertà.
Eppure qualcosa si muove. Parte del merito è del Movimento 5 Stelle, che ha posto la questione di un qualche sostegno al reddito sull’agenda politica. Parte è del governo Letta, con il premier, il ministro Enrico Giovannini e il viceministro Cecilia Guerra che hanno rivitalizzato un’idea sepolta nel decennio del berlusconismo (dopo che il primo colpo le era stato inferto dai governi di centrosinistra all’inizio degli anni Duemila). Parte, infine, è dell’associazionismo, della società civile, ma anche di Comuni ed enti locali alle prese con un fenomeno dalle proporzioni ormai ciclopiche. Nei mesi scorsi, le Acli e la Caritas hanno lanciato una proposta molto articolata di reddito di inclusione sociale, che sta raccogliendo adesioni da vari soggetti del terzo settore e istituzionali. Il ministro Giovannini ha presentato i risultati di un gruppo di lavoro, che ha fornito delle linee guida per l’introduzione di un reddito minimo chiamato Sia, Sostegno per l’inclusione attiva.
Una misura nazionale e universale. I cardini di questa proposta, che non è immediatamente operativa e che richiede delle scelte da parte dei decisori politici prima di diventarlo, sono facilmente riassumibili. Il Sia è una misura nazionale e universale, data a tutti quanti versino in condizione di bisogno e non, come è invece la regola nel welfare italiano, solo ad alcune categorie (gli anziani, i disabili). Il Sia non è però un reddito di cittadinanza, dato a tutti indistintamente, ma un reddito minimo, dato solo a chi è povero, secondo un accertamento svolto attraverso l’Isee e altri indicatori di reddito, di ricchezza e di consumi effettivi. Soprattutto, il Sia non è un’elargizione ai poveri, ma una politica di inclusione sociale.
Assieme al trasferimento monetario, c’è un vero e proprio contratto tra beneficiario e amministrazione pubblica. Chi è abile al lavoro deve cercare un lavoro, partecipare a programmi di inserimento lavorativo, di formazione, di riqualificazione professionale. Deve accettare le offerte di lavoro, pena la perdita del beneficio. Per tutti, il contratto prevede dei programmi di inserimento sociale, che riguardano anche la cura dei minori e dei familiari non autosufficienti, il rispetto dell’obbligo scolastico, l’adozione di comportamenti di base che sono richiesti ad ogni altro cittadino. Se il patto prevede dei doveri, e delle sanzioni per i beneficiari che non lo rispettino, prevede anche il diritto a ricevere servizi da parte dell’amministrazione pubblica, e l’obbligo di questa a erogarli.
Sulla scorta di ipotesi ragionevoli il Sia potrebbe costare circa 7-8 miliardi di euro all’anno. Un costo che pare enorme di questi tempi, certo, ma che forse non lo è così tanto se pensiamo che nel 2011 le sole pensioni di invalidità civile sono costate quasi il doppio: 13,5 miliardi. E comunque, nel panorama europeo, l’Italia spende poco, pochissimo per la lotta alla povertà. Nonostante il suo costo imponente, il Sia può essere finanziato in vari modi, e il finanziamento dovrebbe attingere a più fonti. La proposta di Acli e Caritas fornisce idee per una provvista di finanziamento pari al doppio di quanto servirebbe per introdurre uno schema simile al Sia. Non è ancora chiaro cosa verrà proposto nel disegno di legge di Stabilità, e soprattutto quanto di ciò che verrà proposto riuscirà, in tempi di simili ristrettezze di bilancio, a diventare operativo a dicembre e nei mesi a seguire. È ovviamente impensabile che si possa partire con un intervento che metta a bilancio il costo del Sia a regime. Con 1,5 miliardi però si colmerebbe metà del divario dalla linea di povertà assoluta. Anche questa sembra una cifra enorme, di questi tempi, ma le ricerche citate mostrano come si possa trovare senza grandi sconvolgimenti nelle pieghe della spesa pubblica italiana. Certo, occorre volerlo. Ma il momento per una grande coalizione contro la povertà è questo. Nei prossimi mesi, e purtroppo nei prossimi anni, gli individui e le famiglie senza occupazione e senza risorse resteranno tante, troppe. Troppo grave e profonda sarà stata questa crisi per poter pensare che le ferite che ha causato si rimarginino in poco tempo. Occorre agire adesso, con una misura che attacchi la povertà più estrema, per poi estenderla gradualmente sino a colmare il ritardo con gli altri paesi europei. Procrastinare non servirebbe né al governo, né all’Italia.
di Stefano Sacchi*
*Professore all’Università di Milano. Ha fatto parte del Gruppo di lavoro che ha elaborato la proposta di Sostegno per l’inclusione attiva presso il ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Ha inoltre fatto parte del gruppo che ha elaborato una proposta di Reddito di inclusione sociale. Le opinioni espresse sono personali.

giovedì 17 ottobre 2013

Slot: una pagina vergognosa per Letta e il Pd. - Riccardo Bonacina

A fine agosto ne avevo scritto dicendo: "Questo no! Questo non è possibile! Sto parlando del decreto sull'Imu presentato ieri sera da Letta, Alfano e Saccomanni. E Mi riferisco al fatto che tra le voci a copertura dell'abolizione della prima rata Imu ci siano 600 milioni per una sanatoria prevista ai concessionari delle slot machine.
È un'indecenza", commentavo (per leggere l'articolo con dettagli della sanatoria ecco il link). Ma siccome al peggio non c'è mai fine, martedì la notizia di un ulteriore sconto di 100 milioni ai signori delle slot. Cosa volete che vi dica oggi? Per evitare parolacce e improperi ai nostri governanti vediamo di spiegare l'ennesimo orrore stando ai fatti.
Allora. La proposta di sanatoria contenuta nel decreto Imu, chiedeva di chiudere un contenzioso risalente al 2007 (contestati 98 miliardi di evasione) con una cifra del 25% di quanto la Corte dei Conti chiedeva ai concessionari slot, 2,5 miliardi di multa. Martedì un emendamento del governo, presentato in Aula alla Camera, sul Decreto Imu chiede di abbassare ulteriormente la percentuale al 20%.. Coloro che pagano subito il 20% del danno quantificato nella sentenza di primo grado potranno così chiudere subito il proprio contenzioso davanti alla Corte dei Conti.
Se i dieci concessionari decidessero di aderire, prosegue questa sarebbe la ripartizione con le multe rimodulate al 20%: Bplus 179 milioni, Cirsa Italia 24 milioni, Sisal Slot 49 milioni, Gtech 20 milioni, Gmatica 30 milioni, Codere 23 milioni, HBG 40 milioni, Gamenet 47 milioni, Cogetech 51 milioni e Snai 42 milioni. Per un totale, invece di 600 milioni di soli 500.
Una vera vergogna e la prova del nove della nullità della politica incapace di tenere a bada gli appetiti dell'industria più rampante d'Italia, quella dell'azzardo legale. La terza industria italiana!
Una politica che non riesce a stabilizzare una misura primaria e necessaria come il 5 per mille alle realtà non profit (questione, guarda un po' di 100 milioni), si inchina a imprese che come Gtech nel 2012 hanno realizzato super profitti, Gtech, ha avuto ricavi (netti di imposte indirette come il Preu) pari a 3 mld di euro, ebitda al 34% pari a 1 mld di euro e utile operativo pari al 17% (!) .
Una politica degna di questo nome avrebbe proposto una sanatoria corrispondente al 75-80% della multa e se le concessionarie non avessero aderito, si sarebbe automaticamente previsto di innalzare il Preu (questo avremmo voluto vedere scritto nell'emendamento di un governo serio), un sostituto di imposta (tassa unica sul gioco), tasse che non si vedono nei bilanci delle concessionarie perché è tassazione alla fonte ( New slot: 12,7 % Poker e simili online: 20% Giochi di abilità online 3%). Essendo tassa sostitutiva: il Preu assorbe ogni altra imposizione indiretta, quindi non pagano neppure l'Iva!
Invece, il governo Letta ha abbassato ancora un po' i propri pantaloni. E con lui anche il Parlamento che ha dato l'ok all'emendamento. Da segnalare, nel capitolo "Vergogna", il fatto che su 297 deputati del Pd solo 8 hanno votato no all'emendamento disobbedendo all'indicazione del Gruppo Parlamentare (Epifani che schifo, però!). Ecco i loro nomi in rigoroso ordine alfabetico: Lorenzo Basso, Bobba Luigi, Bragantini Paola, Cani Emanuele, Coppola Paola, Donati Marco, Senaldi Angelo, Tullio Mario.
Qualcuno, poi ha deciso di uscire dall'Aula per non prendere parte al voto, non sentendosi di andare contro l'indicazione del Gruppo Parlamentare ma neppure di dire sì all'emendamento della vergogna.
Ma l'arcano è presto spiegato:
La lobby del gioco e i soldi al pensatoio di Letta. - Ilario Lombardo

Il premier Enrico Letta


Roma - Tutto è incominciato con il servizio delle Iene sulle lobby che, secondo un collaboratore di un senatore, pagano alcuni parlamentari per fare pressioni e modificare le leggi in Commissione. Un assist perfetto, colto al volo dal Movimento 5 Stelle, che oggi si presenterà nell’aula di Palazzo Madama per denunciare «anni di intrecci di interessi tra la politica e la lobby del gioco». A leggere l’interrogazione sarà Giovanni Endrizzi, il senatore veneto che al Sert di Rovigo si occupa delle patologie generate dalla dipendenza dall’azzardo.
Il M5S chiederà l’attenzione del Parlamento soprattutto su un nome : Enrico Letta. Proprio il premier che nel 2011, quando era semplice deputato Pd, ha ricevuto una finanziamento come sponsor per il suo think tank VeDrò, da parte di Lottomatica e Sisal, due multinazionali dell’azzardo, la seconda dal 2010 presieduta dall’ex ministro di Prodi, Augusto Fantozzi. La cifra del contributo si aggira intorno ai 20 mila euro.

lunedì 2 settembre 2013

Imu, decreto per copertura: tagli a fondi lavoro, lotta a evasione e manutenzione Rfi.

Imu, decreto per copertura: tagli a fondi lavoro, lotta a evasione e manutenzione Rfi
Tagli ai fondi per l’occupazione, tagli alle risorse per efficienza energetica e rinnovabili, tagli alla somma destinata ai controlli contro l’evasione fiscale, tagli alla manutenzione della rete ferroviaria e tagli alle assunzioni nel “settore sicurezza”. Tagli, tagli e ancora tagli. E’ parte del prezzo che sarà necessario pagare per la cancellazione totale dell’Imu per il 2013, ossia (tradotto) il trionfo del Pdl all’interno della maggioranza. La “copertura” necessaria per l’eliminazione dell’imposta sulla prima casa significa dunque una scure che falcia diversi settori: dal lavoro all’energia, dai trasporti alla lotta all’evasione fiscale. Il decreto Imu realizza una parte delle coperture – per l’esattezza 975,8 milioni – attraverso tagli allo Stato centrale. Il decreto inizierà l’iter parlamentare a Montecitorio. Il provvedimento è stato assegnato in sede referente alle commissioni Bilancio e Finanze. Il calendario dei lavori sarà stabilito nella capigruppo che si riunirà giovedì il 5 settembre.
Quasi un miliardo di tagli ai diversi ministeri, in parte realizzati con una sforbiciata ai consumi intermedi e agli investimenti fissi lordi, ma per la gran parte con una cesoiata su ben 35 autorizzazioni di spesa dei diversi ministeri contenuti in una tabella che non indica il capitolo ma solo il rimando legislativo. 
Entro il prossimo mese, aveva detto il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, il Governo deve trovare “2 miliardi per la seconda rata dell’Imu, 1 miliardo per l’Iva” e “un altro miliardo circa per la Cig e per il rifinanziamento delle missioni all’estero, sperando che non si aggiungano altre emergenze”. “Dobbiamo trovare 4 miliardi in un mese” ha sottolineato. 

venerdì 9 agosto 2013

Femminicidio, i punti deboli del decreto. - Nadia Somma

Il governo Letta ha varato il decreto legge contro il femminicidio, contenuto purtroppo in una serie di norme sulla sicurezza. E’ stato presentato con toni entusiastici come strumento di tutela delle donne che il decreto pensa come “soggetti deboli” e bisognosi di tutela.
Certo alcune norme contenute nel decreto sono interessanti come la previsione dell’aggravante nei casi di violenze commesse alla presenza dei minori che ci auguriamo porti a tutelare maggiormente i bambini nei casi di violenza assistita. L’obbligo di arresto e l’allontanamento dell’autore di maltrattamenti in casi di flagranza di reato potrebbe essere un altro buon strumento, anche se resta da capire cosa accadrà, una volta che l’autore di violenze sarà scarcerato. Se oltre a bloccare l’autore di violenze non si aiutano le donne con percorsi mirati a sganciarsi dalla relazione allontanandole dal pericolo, tutelando i figli, rafforzando le loro scelte offrendo sostegno e percorsi di autonomia, anche economica, che efficacia avranno gli arresti e gli ammonimenti? Si pensa di risolvere tutto con il carcere?
In Italia le strutture di accoglienza che mettono le donne, al centro delle relazioni di aiuto, sono poche. Complessivamente ci sono 500 posti letto invece dei 5700 previsti dalle direttive europee e i centri antiviolenza continuano ad essere scarsamente finanziati e molti sono sempre a rischio di chiusura. Non solo. Spesso sono presi di mira da atti intimidatori, come nel caso del centro antiviolenza di Firenze “Artemisia” dato alle fiamme il 20 maggio scorso
Sono critiche invece le norme che prevedono procedure d’ufficio e l’irrevocabilità della querela: un insieme di interventi che passano sopra la testa delle donne. Il legislatore pare non aver recepito la differenza tra situazioni dove la vittima ha già interrotto la relazione e sta subendo stalking e situazioni dove invece continua a convivere con il maltrattante. L’ammonimento del questore anche su segnalazione di terze parti desta persino preoccupazione. Il momento dello svelamento della violenza è delicato e pericoloso e se l’autore del maltrattamento torna a casa con la vittima esiste un alto rischio di ritorsioni o intimidazioni e minacce. Un rischio che potrebbe essere nutrito dal dubbio che la compagna abbia parlato confidandosi con qualcuno.
Quanto alla irrevocabilità della querela è fondamentale il rafforzamento della determinazione della donna per interrompere situazioni di violenza familiare. Come si può prescindere dalla volontà della donna? E nel caso che decida di non aderire agli interventi del legislatore che sono mirati solo a ottenere la condanna penale dell’autore del maltrattamento, e non la cessazione dei comportamenti violenti, sarà giudicata collusiva, non collaborativa con la giustizia, reticente?
I nostri governi continuano a considerare la violenza contro le donne una questione di ordine pubblico o causa di “allarme sociale” invece che un problema culturale. E in Italia non abbiamo ancora un sistema di interventi organici contro la violenza di genere. Le richieste le aveva stilate Di.Re lo scorso otto marzo, e l’unica accolta è stata la ratifica della Convenzione di Istanbul. Altre richieste erano state avanzate da Di.RE insieme alla Convenzione No More e riguardavano interventi organici tra soggetti istituzionali e centri antiviolenza, lavoro di rete, sostegno alle vittime, interventi di sensibilizzazione nelle scuole e università. Ma sono state del tutto ignorate come del resto la richiesta da parte dell’associazionismo e del movimento delle donne, di nominare un’altra ministro per le Pari opportunitàdopo le dimissioni di Josefa Idem e l’assunzione delle sole deleghe da parte di Maria Cecilia Guerra, già titolare del dicastero del Lavoro.
Un altro dei problemi che il decreto non risolverà è la inadeguata formazione e la mancanza di personale dedicato per i casi di violenza familiare (forze dell’ordine e tribunali) che non permette la capacità di distinguere tra situazioni di conflitto di coppia e di violenzaManuela Ulivi, avvocata della Casa delle Donne di Milano, ha denunciato recentemente una altissima percentuale diarchiviazioni per le denunce di violenze nei tribunali della Lombardia: 1000 su 1500 in un anno e l’invio di situazioni di violenza alla mediazione familiare con conseguente vittimizzazione secondaria della donna che aveva subito o denunciato violenze.
Il decreto legge contro il femminicido interviene solo sul piano repressivo un piano di intervento talvolta necessario per bloccare gli autori di violenze ma insufficiente per affrontare il fenomeno in tutta la sua complessità. Infine, come segnala Mario De Maglie, dispiace non trovare alcun riferimento riguardo alla presa in carico degli uomini autori di comportamenti violenti, i cosiddetti “maltrattanti”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/09/femminicidio-punti-deboli-del-decreto/680760/

giovedì 8 agosto 2013

Se perfino Epifani, nel suo piccolo, si arrabbia (forse). - Andrea Scanzi

 
Dalle interviste di D’Alema a L’Unità e di Epifani al Corriere della Sera, si evince che persino i piani alti del Pd hanno capito che qualsiasi cosa è meglio del governicchio Letta. Anche andare al voto a settembre. Persino con questa stessa legge elettorale (che fa schifo, ma Pd & Pdl non vogliono cambiare). Ci hanno messo più di tre mesi, ma il Pd ha notoriamente tempi biblici per (non) comprendere i propri errori.
E’ del tutto ovvio che qualsiasi partito minimamente decente non dovrebbe stare neanche un giorno al governo con il pregiudicato di Arcore: non poteva starci prima, non può starci ora che è condannato in via definitiva per un reato gravissimo (anzitutto per chi fa politica) come la frode fiscale. Parole come “responsabilità” o giochetti linguistici tipo “non esistono alternative” sono bischerate titaniche, usate unicamente per far ingoiare i rospi all’elettorato.
Mentre D’Alema ha sciorinato le solite supercazzole da finto-statista, dicendo tutto ma più che altro nulla, Epifani ha garantito che non verranno fatti sconti a Berlusconi (uh-uh) e che se il pregiudicato non fa un passo indietro (e lui non lo fa) tanto vale andare subito al voto. Banalità evidenti, ma sufficienti a far sembrare Epifani quasi un eversivo (infatti alcuni noti intellettuali berlusconiani, tipo Bianconi, lo hanno già definito “coglione” e “rompicoglioni”).
Il Pd non mantiene quasi mai la parola data, come assai noto a chi ha ancora un minimo di onestà intellettuale. Quindi potrebbe benissimo non accadere nulla da qui a dicembre. E le parole di Epifani e D’Alema servono anzitutto a preservare i gerarchi perdenti e disinnescare Renzi (che continua a dormire il sonno dei grulli) e Civati, togliendo a entrambi l’arma dell’antiberlusconismo – arma, peraltro, che né Renzi né il Pd hanno mai usato. Per quanto sembri folle, nel Pd sono davvero convinti che uno come Letta potrebbe vincere le prossime elezioni, e un gesto forte (far cadere il governo per “orgoglio e dignità”) lo aiuterebbe a recuperare consenso.
Sono comunque parole che sembrano avvicinare le oltremodo auspicabili elezioni, con annessa fine del governicchio inutile.
Sarà un autunno divertente. Durissimo, ma per certi versi divertente.

martedì 30 luglio 2013

La stampa tedesca dal 2008 a oggi: “Italia = Berlusconi = caos = debiti”. - Alessandro Madron

Berlusconi e Merkel


Il pregiudizio non muore, come testimonia lo studio sull’immagine della Penisola nei media tedeschi, dell’Europaische Akademie Berlin, ente indipendente che collabora con il ministero degli Affari Esteri tedesco, che analizza titoli e servizi pubblicati da Die Zeit, Frankfurter Allgemenine e Bild Zeitung.

Inaffidabili e traditori, cialtroni e scansafatiche. L’Europaische Akademie Berlin, ente indipendente che collabora con il ministero degli Affari Esteri tedesco, ha effettuato uno studio sull’immagine dell’Italia nei media tedeschi, analizzando titoli e servizi dal 2008 ad oggi pubblicati da Die ZeitFrankfurter Allgemeninee Bild Zeitung. Tre giornali differenti, che si rivolgono ad un pubblico diverso, da cui emerge con prepotenza un giudizio pesante sull’Italia.
Il pregiudizio tedesco sul conto del popolo italiano, del resto, è vecchio di cent’anni ed è stato rafforzato nel tempo. Il peccato originale risale alla prima guerra mondiale, poi confermato con l’epilogo della seconda. Il giudizio storico è stato poi alimentato dal mito costruito negli anni della dolce vita, di un Paese popolato da maschi veraci, votati più al piacere che alla fatica. Oggi quell’impronta rimane e il pregiudizio torna a riproporsi, pescando da quell’immaginario.
Negli articoli presi in esame dall’analisi si parla principalmente dei protagonisti del sistema politico, delle elezioni e della crisi del sistema, oltre che di economia e di crisi finanziaria. L’equazione che ne emerge è particolarmente pesante: “Italia = Berlusconi = caos = debiti”. Ad esporre i risultati dello studio il professor Eckart Stratenschulte (direttore dell’ente), in occasione di un seminario dedicato alla Germania, organizzato da Villa Vigoni, centro Italo-Tedesco per l’eccellenza europea.
“A farla da padrone, tra i politici italiani raccontati dai giornali tedeschi, è stata la figura di Silvio Berlusconi– ha spiegato Stratenschulte -. Sono famose le copertine e le prime pagine che gli sono state riservate, spesso irriverenti. Ancora oggi in Germania domina l’incomprensione su come gli italiani possano continuare a votare Berlusconi, sia come imprenditore dei media, sia per gli scandali che lo hanno travolto, per le leggi ad personam, ma soprattutto per quello che è successo sul caso Ruby, in particolare per la bugia sulla parentela con Mubarak, che all’epoca era ancora un importante Capo di Stato, una cosa incomprensibile e inconcepibile per un tedesco”.
Accanto ad un giudizio pesante su una certa classe politica c’è però anche il tentativo di spiegare il caso italiano è diverso da quello greco: “Per noi la Grecia è stato un vero incubo e lo è tutt’ora. Soprattutto la Frankfurter e Zeit, in questi anni hanno spiegato che l’Italia non è la Grecia. Certo c’è preoccupazione per la situazione di crisi in Italia, perché l’Italia è una grande forza economica e un tracollo avrebbe conseguenze disastrose per tutta l’eurozona, ma sono stati fatti notare gli sforzo compiuti, prima con il governo Monti e adesso con il governo Letta. I tedeschi capiscono e apprezzano lo sforzo di dare un governo al Paese che vada oltre le spaccature”.
Interessante, per comprendere il giudizio tedesco sull’Italia, un sondaggio pubblicato recentemente nel quale è stato chiesto chi fosse il partner più affidabile per la Germania: “L’82% per cento ha messo al primo posto la Francia, poi a scendere ci sono altri paesi come Usa, Polonia e solo il 32% ha risposto Italia”. Quando invece si è trattato di rispondere alla domanda su quale paese dovesse uscire dall’Europa il risultato è stato differente: “Il 74 % degli intervistati ha detto che l’Italia deve rimanere dentro l’eurozona e solo il 20% ritiene che debba uscire. Un risultato migliore di Spagna, Portogallo e ovviamente della Grecia”.
Stratenschulte ha spiegato che non ci sono solo stereotipi negativi sul conto degli italiani: “Siete caotici ma charmant. Venite visti comunque come il Paese della moda, della cultura, della gastronomia, del buon vivere, dell’architettura e del design. Io non sarei preoccupato per l’immagine italiana. Per chiudere con una battuta possiamo dire che forse alla base c’è un po’ di invidia, perché i tedeschi lavorano per entrare in paradiso mentre gli italiani lavorano meno perché sono già in paradiso”.
Prova a metterci una buona parola anche Michael Georg Link, viceministro degli Affari Esteri tedesco, con delega alle politiche comunitarie: “Io sono del Baden Württemberg, abbiamo relazioni molto strette con il Nord Italia ormai da 40 anni. C’è molto rispetto a livello tecnico e industriale. La nostra immagine dell’Italia è che ci sono molte italie differenti. Sappiamo che l’Italia è uno dei migliori alleati quando si tratta di portare avanti l’idea europea. Oggi siamo molto lieti della collaborazione tra Guido Westerwelle ed Emma Bonino, che a Mallorca hanno appena firmato una dichiarazione di intenti per continuare nel processo di integrazione europea. Gli anni del governo Berlusconi, in Germania, sono stati percepiti come anni perduti per l’Europa. Durante quel periodo è mancata una voce forte italiana a Bruxelles, oggi stiamo riflettendo su come approfondire la collaborazione perché crediamo molto nella forza di questo governo Letta”.

martedì 16 luglio 2013

Caso Ablyazov, kazaki & cazzari. - Marco Travaglio


Ora ci spiegano che, sul ruolo dei ministri Alfano e Bonino nello scandalo kazako, bisogna attendere fiduciosi il rapporto del capo della Polizia appena nominato dal vicepremier e ministro Alfano a nome del governo Letta per conto del Quirinale. Come se il nuovo capo della Polizia potesse mai sbugiardare il superiore da cui dipende e mettere in crisi il governo che l’ha nominato.
Suvvia, sono altre le indagini imparziali che andrebbero fatte. Ci vorrebbe una Procura indipendente dalla politica, quale purtroppo non è mai stata, almeno nei suoi vertici, quella di Roma, che in questi casi si è sempre mossa come una pròtesi del governo di turno.
 
Quindi lasciamo stare le indagini e limitiamoci alle poche cose chiare fin da ora. Se la polizia italiana ha cinto d’assedio con 40 uomini armati fino ai denti il villino di Casal Palocco per sgominare la temibile gang formata da Alma e Aluà, moglie e figlia (6 anni) del dissidente Ablyazov, e spedirle fermo posta nelle grinfie del regime kazako, è per un solo motivo: il dittatore Nazarbayev, che ne reclamava le teste e le ha prontamente ottenute, è uno dei tanti compari d’anello di Berlusconi in giro per il mondo.
 
Da quando Berlusconi è il padrone d’Italia, il nostro Paese viene sistematicamente prostituito ora a questo ora a quel governo straniero, in spregio alla sovranità nazionale, alla Costituzione e alle leggi ordinarie. I compari stranieri ordinano, lui esegue, il funzionario di turno obbedisce e viene promosso, così non parla. Un ingranaggio perfettamente oliato che viaggia col pilota automatico, sul modello Ruby-Questura di Milano. La filiera di comando è tutta privata. Governo e Parlamento non vengono neppure interpellati o, se qualche ministro sa qualcosa, è preventivamente autorizzato a fare il fesso per non andare in guerra, casomai venga beccato. Tanto si decide tutto fra Arcore, Villa Certosa e Palazzo Grazioli. Sia quando lui sta a Palazzo Chigi, sia quando ci mette un altro, tipo il nipote di Letta.
Era già accaduto col sequestro di Abu Omar per compiacere Bush (solo che lì una Procura indipendente c’era, Milano, e Napolitano dovette coprire le tracce graziando in tutta fretta il colonnello Usa condannato e latitante).
Ora, per carità, è giusto chiedere le dimissioni di Alfano e Bonino, per evitare che volino i soliti stracci e cadano le solite teste di legno: se i due ministri sapevano, devono andarsene perché complici; se non sapevano, devono andarsene a maggior ragione perché fessi. Ma è ipocrita anche prendersela solo con loro. La Bonino è uno dei personaggi politici più sopravvalutati del secolo: difende i diritti umani a distanza di migliaia di chilometri, ma in casa nostra e dei nostri alleati non ha mai mosso un dito (tipo su Abu Omar e su Guantanamo). Alfano basta guardarlo per sospettare che non sappia neppure dov’è il Kazakistan e per capire che conta ancor meno di Frattini, che già contava come il due a briscola: è l’attaccapanni di B. ed è persino possibile che i caporioni della polizia, ricevuto l’ordine dal governo dell’amico kazako, abbiano deciso di non ragguagliarlo sui dettagli del blitz. Tanto non avrebbe capito ma si sarebbe adeguato, visto che non comanda neppure a casa sua.
Il conto però va presentato a chi ha nominato Alfano vicepremier e ministro dell’Interno e la Bonino ministro degli Esteri. Cioè a chi tre mesi fa decise di riportare al governo B. nascosto dietro alcuni prestanome. E poi iniziò a tartufeggiare sul Pdl buono (Alfano, Lupi e Quagliariello) e il Pdl cattivo (Santanchè, Brunetta e Nitto Palma). Il Pdl è uno solo e si chiama Berlusconi, con tutto il cucuzzaro dei Putin, Nazarbayev, Erdogan & C. Per questo l’antiberlusconismo, anche a prescindere dai processi, è un valore. Chi – dai terzisti al Pd – lo accomuna al berlusconismo e invoca la “pacificazione” dopo la “guerra dei vent’anni”, non ha alcun diritto di scandalizzarsi né di lamentarsi per gli effetti collaterali dell’inciucio. Inclusi i sequestri di donne e bambine. Avete voluto pacificarvi con lui? Adesso ciucciatevelo.
Alma racconta: 'Credevo volessero ucciderci'


Il blitz nel memoriale rilasciato al Financial Times - Michele Esposito


ROMA, 14 LUG - L'irruzione in casa a mezzanotte. Le offese e le botte. La paura di essere uccisa. La partenza per Astana dopo tre giorni da incubo. Tutto in un racconto di 18 pagine che Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhta Ablyazov espulsa lo scorso 31 maggio dall'Italia, ha consegnato al Financial Times, che lo ha poi tradotto e pubblicato. Il memoriale è datato 22 giugno, è dettagliato, crudo, scritto in prima persona. Una ricostruzione che la Questura di Roma smentisce. "La signora Alma Shalabayeva - si legge in una nota diffusa in serata - non ha subito alcun tipo di maltrattamento nel corso dell'operazione di polizia giudiziaria del 29 maggio". Il caso, che da giorni vede il governo italiano nella bufera, rischia così di alimentare ulteriormente l'eco internazionale. In casa, oltre ad Alma e alla figlioletta Alua, c'erano Venera - sorella maggiore di Alma - il marito Bolat e la loro figlia e una coppia di ucraini che si occupava della villa di Casal Palocco e viveva in una dependance. L'irruzione avviene a mezzanotte, tra il 28 e il 29 maggio. A entrare in casa sono "30-35" persone, una "ventina" sono invece appostate all'esterno.
"Erano vestiti di nero. Alcuni di loro avevano catene d'oro al collo, molti avevano la barba, uno una capigliatura punk con una cresta", racconta la donna nel lungo documento. "Non avevano nessun segno esterno da cui si potesse capire che erano poliziotti e militari. Ma tutti avevano delle pistole e parlavano tra loro in italiano", spiega ancora Alma che sottolinea più volte come nessuno parlasse o comprendesse bene l'inglese. L'atteggiamento, tuttavia, sembrava quello dei "gangster". Alma, consapevole di essere la moglie del leader dell'opposizione kazako e ancora ignara dell'identità di chi ha fatto irruzione, non rivela la sua identità. All'inizio dice di essere russa, ma ciò non accontenta i suoi interlocutori. "Continuavano a gridarmi in italiano. Non capivo esattamente cosa dicessero. L'unica cosa che ho potuto distinguere in questa serie di offese fu 'Puttana russa'", scrive la kazaka secondo la quale "sembrava che cercassero qualcosa o qualcuno. Avevo una sola sensazione in quel momento: erano venuti ad ucciderci senza un processo, un'indagine, senza che nessuno lo avrebbe mai saputo". Lo shock è forte anche perché il cognato Bolat ad un certo punto viene portato in una stanza da dove esce con "un occhio rosso e gonfio, un labbro rotto, una ferita al naso. Disse che lo avevano pestato". A tutti viene intimato di consegnare i documenti. Alma non mostra il suo passaporto kazako ma "un passaporto diplomatico" rilasciato dalla Repubblica Centrafricana nell'aprile 2010.
Nel frattempo i tre kazaki chiedono insistentemente di un avvocato e un interprete, ma non ottengono nulla. La casa viene perquisita superficialmente ma nella macchina fotografica di Alma vengono trovate foto che la ritraggono con Ablyazov. Dopo circa tre ore Alma e Venera vengono portate via, prima in una stazione di polizia "nel centro di Roma" poi in un ufficio immigrazione "nel Sud-Est" della capitale. Lì Alma rimane circa 15 ore, senza bere o mangiare. Stremata e rassicurata dal fatto che stava avendo a che fare con la polizia italiana, decide di confessare la sua storia. A un gruppo di 12 persone e a quello che sembra il dirigente dell'ufficio racconta che il Kazakistan "è governato da un dittatore da più di 20 anni al potere e di come Nazarbayev elimina i leader dell'opposizione". Spera in un cambio di atteggiamento, ma così non è. La donna viene portata al Cie di Ponte Galeria, dove può parlare con un avvocato e un interprete. In qualche modo, mettono in contatto la donna con l'ambasciata del Kazakistan a Roma. "Ma io non potevo contare sull'aiuto dell'ambasciata", recita il suo memoriale. Il 31 maggio pomeriggio Alma viene portata a Ciampino, le fanno firmare dei documenti e, insieme alla figlia, viene condotta su un "lussuoso" jet privato ad Astana. Le dicono che il suo passaporto centrafricano è "contraffatto". Lei nega, fino all'ultimo chiede "asilo politico". "E' troppo tardi", le rispondono e - scrive la donna - la sensazione è che tutti eseguissero dei compiti già dettagliatamente assegnati "dall'alto".