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venerdì 27 agosto 2021

Durigon vede Salvini, dimissioni da sottosegretario.

 


"Il mio incarico svolto con orgoglio e serietà".


Il sottosegretario della Lega all'Economia, Claudio Durigon ha incontrato il segretario del suo partito Matteo Salvini e si è dimesso. "Ho deciso di dimettermi dal mio incarico di governo che ho sempre svolto con massimo impegno, orgoglio e serietà". Lo annuncia il sottosegretario leghista all'Economia, Claudio Durigon in una lunga lettera diffusa dal suo partito.

Una decisione presa, aggiunge, "per uscire da una polemica che sta portando a calpestare tutti i valori in cui credo, a svilire e denigrare la mia memoria affettiva, a snaturare il ricordo di ciò che fecero i miei familiari proprio secondo quello spirito di comunità di cui oggi si avverte un rinnovato bisogno".

"Un processo di comunicazione si valuta non in base alle intenzioni di chi comunica, ma al risultato ottenuto su chi riceve il messaggio: è chiaro che, nella mia proposta toponomastica sul parco comunale di Latina, pur in assoluta buona fede, ho commesso degli errori.

Di questo mi dispiaccio e, pronto a pagarne il prezzo, soprattutto mi scuso. Mi dispiace che mi sia stata attribuita un'identità "fascista", nella quale non mi riconosco in alcun modo. Non sono, e non sono mai stato, fascista. E, più in generale, sono e sarò sempre contro ogni dittatura e ogni ideologia totalitaria, di destra o di sinistra: sono cresciuto in una famiglia che aveva come bussola i valori cristiani." 

ANSA

Liberarsi di una presenza imbarazzante come quella di questo triste personaggio è gratificante.
Il suo non saper o voler notare la differenza che passa tra i valori cristiani, ai quali fa riferimento, e la simpatia manifestata verso un personaggio, vicino per vincoli parentali ad un altro personaggio che ha causato grossi problemi al nostro paese, è inaccettabile. 
c.

mercoledì 25 agosto 2021

Salvini s’arrende, Durigon no. Braccio di ferro tra capo e ras. - Giacomo Salvini

 

Ultimi giorni - Il leader leghista apre alle dimissioni: “Vediamo cosa è più utile per il governo”. Ma lui resiste: “Non lascio”.

Dopo venti giorni di silenzi e difese d’ufficio, Matteo Salvini si arrende. Dal meeting di Comunione e Liberazione in corso a Rimini, il leader della Lega apre per la prima volta alle dimissioni del suo sottosegretario all’Economia Claudio Durigon. Un passo indietro che potrebbe arrivare anche in tempi brevi: secondo una fonte autorevole della Lega, Durigon potrebbe fare un passo indietro già entro questa settimana. Eppure il sottosegretario resiste: “Non mi dimetto” ha detto a chi gli ha parlato nella giornata di ieri. Anche nella Lega, dunque, ci sono tensioni sul caso scoppiato il 4 agosto scorso quando il sottosegretario al Tesoro ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino provocando la reazione indignata delle associazioni antimafia e antifasciste e di Pd e M5S che a settembre, quando riaprirà il Parlamento, presenteranno una mozione di sfiducia. “Ho la massima fiducia e stima di Claudio ma valuteremo cosa è meglio fare per lui, per la Lega e per il governo” ha detto Salvini a margine del dibattito a cui hanno partecipato tutti i leader di partito. Una prima crepa dopo giorni in cui Salvini aveva derubricato la questione a polemica “strumentale” sperando che tutto si sgonfiasse nel giro di pochi giorni, una volta passato Ferragosto. E invece non è stato così.

Salvini ieri ha definito Durigon come il “papà di Quota 100” e spiegato che con lui sta parlando “di pensioni e del saldo e stralcio delle cartelle esattoriali” ma poi ha fatto capire che nei prossimi giorni i due prenderanno una decisione per togliere il governo Draghi dall’imbarazzo: “Noi siamo qui per risolvere i problemi e non crearli, per spegnere le polemiche e non per alimentarle”. Poi al Fatto conferma: “Non possiamo passare l’autunno a parlare di fascismo e comunismo: troveremo una soluzione io e lui”. Una dichiarazione che arriva il giorno dopo il faccia a faccia a Palazzo Chigi tra Salvini e il premier Mario Draghi (e tra quest’ultimo e Giorgetti) che fino ad oggi non ha detto nulla sul caso. Secondo fonti vicine a entrambi, nel colloquio di lunedì i due non hanno parlato di Durigon ma la giravolta di Salvini è quantomeno sospetta. E soprattutto, è l’interpretazione dei suoi fedelissimi, apre alle dimissioni del sottosegretario al Tesoro già entro questa settimana. Nei prossimi giorni i due si vedranno e decideranno il da farsi. Salvini sembra pronto a scaricarlo ma dovrà vincere le resistenze del suo fedelissimo. Negli ultimi giorni la pressione politica sul sottosegretario leghista ha messo in imbarazzo il governo e l’obiettivo del leader della Lega è quello di non creare problemi a Draghi quando si aprirà l’autunno caldo delle riforme – fisco, pensioni e concorrenza – e alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica. Una mozione di sfiducia metterebbe in grosso imbarazzo il governo e provocherebbe una spaccatura profonda tra centrosinistra e centrodestra. E così Salvini vuole togliere le castagne dal fuoco a Draghi prima del voto. L’ipotesi più probabile è che Durigon si dimetta e accetti un posto più pesante nella Lega, oltre alla promessa della candidatura a presidente della Regione Lazio nel 2023.

Il passo indietro di Salvini è stato provocato anche dalla pressione che Pd e M5S hanno messo su Durigon con la minaccia della mozione di sfiducia. Da Rimini il segretario dem Enrico Letta ieri ha confermato che il leghista “si deve dimettere” perché “l’apologia di fascismo è incompatibile con Costituzione e governo”, mentre il leader del M5S Giuseppe Conte ha concordato raccontando che nel 2019, da premier, chiamò Salvini per “revocare le deleghe” al leghista Armando Siri (indagato per corruzione): “Sono fiducioso che Draghi risolverà il caso” ha concluso Conte. Se arriveranno le dimissioni di Durigon, però, non sarà gratis. E Salvini lo ha fatto capire alzando i toni contro il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese su cui pende una mozione di sfiducia di FdI. “Serve un cambio, deve iniziare a fare il ministro” ha detto Salvini.

ILFQ

sabato 5 giugno 2021

Marco Mancini, addio ai Servizi segreti dopo l’incontro con Renzi in autogrill. - Gio. Bla.

 

Il vertice del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) ha comunicato al dirigente che se non andrà in pensione in anticipo chiederà all’Arma dei carabinieri di riprenderlo: la riconsegna al Corpo di appartenenza rappresenta, di fatto, un licenziamento dal Servizio.


L’incontro pre-natalizio con l’ex premier Matteo Renzi, avvenuto sulla piazzola di un’autostrada, ripreso dal telefonino di una automobilista di passaggio e poi trasmesso in tv, è costato al dirigente del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) Marco Mancini il posto nei servizi segreti. Il vertice dell’istituzione, dove il presidente del Consiglio Mario Draghi ha impresso una svolta nominando poche settimane fa Elisabetta Belloni, gli ha comunicato che se non andrà in pensione anticipatamente, verrà chiesto all’Arma dei carabinieri di riprenderlo con sé.

E la riconsegna al Corpo di appartenenza rappresenta, di fatto, un licenziamento dal Servizio. Mancini avrebbe reagito per il momento mettendosi in ferie, e poi manifestando l’intenzione di presentare domanda di prepensionamento con decorrenza metà luglio. Finisce così l’esperienza tra gli 007 dell’ex maresciallo dell’Arma, oggi sessantenne, cresciuto alla scuola delle Sezioni antiterrorismo dei carabinieri e rimasto coinvolto nelle vicende del sequestro Abu Omar (per il quale fu arrestato e processato, finché l’apposizione del segreto di Stato da parte di più governi bloccò l’azione giudiziaria) e in quello di presunte intercettazioni illegali e dossieraggi nel «caso Telecom».

Ma nonostante tutte le disavventure, Mancini è sempre rimasto in sella, fino ad aspirare a una poltrona di vicedirettore, che probabilmente era alla base dell’incontro con Renzi. Cercava appoggi per la promozione, ma il clamore suscitato dal video del faccia a faccia tra Renzi e la spia ne ha provocato l’uscita di scena. E prima aveva fatto saltare dall’incarico l’ex direttore del Dis Gennaro Vecchione (uomo di fiducia dell’altro ex premier Giuseppe Conte), il quale aveva riferito davanti al comitato parlamentare di controllo — in estrema sintesi — di non saperne niente. Formalmente la contestazione mossa a Mancini è il mancato rispetto delle regole, per non aver redatto nemmeno una relazione ai propri superiori, nonostante si fosse recato all’appuntamento con l’auto di servizio e la tutela al seguito; nella sostanza è la constatazione della rottura di un rapporto di fiducia, nonché la chiusura di una lunga stagione.

CorSera

domenica 30 maggio 2021

Guidi e “Tempa Rossa”, Renzi fa il buono ma la fece dimettere lui. - Antonio Massari

 

Dopo le scuse di Di Maio a Uggetti e all’ex ministra.

“Penso al caso Tempa Rossa che coinvolse Federica Guidi” sostiene Luigi Di Maio nella sua svolta garantista, vergata con mille scuse sulle pagine de Il Foglio. “Fu una strategica aggressione contro di noi”, gli risponde su Repubblica Matteo Renzi. Mentre lei, l’ex ministra del suo governo, al Corriere dice che si sente “lontana anni luce” da “quei signori” che le hanno “devastato” la vita. Ma cosa accadde quando il 31 marzo 2016 Federica Guidi, all’epoca titolare dello Sviluppo Economico, decise di dimettersi? Fu sulla spinta di Matteo Renzi che la ministra svuotò i cassetti dell’ufficio e tornò a casa. “Dobbiamo dimostrare” disse Renzi, nei retroscena ricostruiti da giornali e mai smentiti, “che non siamo come i grillini, quelli che hanno traccheggiato per un mese su Quarto”. Ah già, Quarto. E che accadde nel comune campano di Quarto, in quel 2016? Rosa Capuozzo – non indagata, ma al centro delle polemiche per settimane, per via di un’inchiesta sui tentativi di infiltrazione della camorra nel Comune – fu espulsa dai grillini per non aver denunciato di aver ricevuto delle minacce (sarà il caso che Di Maio si scusi anche con lei). Segnaliamo che per Capuozzo, professando il suo inscalfibile garantismo, Renzi non chiese tuttavia le dimissioni. Anzi. Poi, per coerenza, le pretese però da Guidi. E per marcare la differenza con il M5S (che invece aveva espulso la Capuozzo). Guidi vergò una lettera: “Caro Matteo sono assolutamente certa della mia buona fede e della correttezza del mio operato. Credo tuttavia necessario, per una questione di opportunità politica, rassegnare le mie dimissioni”. Però a scusarsi con lei oggi è Di Maio (tuttavia è vero che il M5S sostenne con veemenza che Guidi “aveva le mani sporche di petrolio”). Ma perché mai?

Era il marzo 2016 quando Federica Guidi lasciò il ministero dello Sviluppo Economico. La procura di Potenza indagava su tre filoni d’inchiesta: lo sforamento delle emissioni nell’impianto Eni di Viggiano, l’iter che aveva portato all’autorizzazione del giacimento Total di Tempa Rossa, alcune autorizzazioni legate al porto di Augusta in Sicilia. E aveva iscritto nel registro degli indagati – chiedendone l’arresto che fu rigettato dal gip – il compagno della ministra, Gianluca Gemelli, ex commissario di Confindustria Sicilia con l’accusa di concorso in corruzione e millantato credito (dalle quali sarà archiviato quando l’inchiesta viene trasferita alla Procura di Roma). Per la Procura di Potenza, Gemelli avrebbe puntato ad avere “vantaggi patrimoniali” in cambio della garanzia di alcuni lavori nel centro oli proprio grazie al suo rapporto con la ministra. Guidi viene intercettata nel 2014 con il suo compagno: “E poi – dice la ministra – dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, se è d’accordo anche ‘Mariaelena’ (Boschi, ndr), quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte”. Il governo sta inserendo nella legge di stabilità un emendamento, precedentemente bocciato, che riguarda il centro oli della Total in contrada Tempa Rossa. E Gemelli poco dopo chiama il dirigente di una società petrolifera per avvertirlo: “la chiamo – dice – per darle una buona notizia”.

È qui che Matteo Renzi decide di chiedere le dimissioni: “La cavolata quindi non è l’emendamento ma la telefonata al compagno – commentò allora il premier – e il fatto che il ministro abbia rappresentato una decisione politica come un favore al fidanzato. Questo un ministro non se lo può permettere”. E poi scrive: “Cara Federica, ho molto apprezzato il tuo lavoro di questi anni. Rispetto la tua scelta personale, sofferta, dettata da ragioni di opportunità che condivido. Nel frattempo ti invio un grande abbraccio”. E poi commenta ancora: “L’Italia non è più quella di una volta: se prima per telefonate inopportune non ci si dimetteva, ora ci si dimette. Abbiamo sempre detto che di fronte agli italiani noi siamo un governo diverso dal passato”. Vabbè, però ora Di Maio mette tutto a posto e si scusa con la Guidi. E più in generale, nella sua lettera al Foglio – partendo dal caso dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, arrestato, processato e poi assolto in appello per turbativa d’asta – scrive che “il punto è l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale” e che “una cosa è la legittima richiesta politica, altro è l’imbarbarimento del dibattito, associato ai temi giudiziari”.

Ma il tema giudiziario, sulla Guidi (così come sulla Capuozzo), non vi fu mai. Innanzitutto perché non era neanche indagata (al contrario del suo compagno). Peraltro lei stessa, incalzata dal segretario del suo partito nonché premier Matteo Renzi, valutò poco opportuna la telefonata sull’emendamento. Infine, la telefonata in questione riguardava un tema prettamente politico, ovvero l’emendamento stesso, con il fortissimo sospetto – emerso, quello sì, dagli atti d’indagine – di un “conflitto d’interessi” in famiglia. “L’ennesimo, mostruoso conflitto d’interesse di questo governo” sentenziò infatti Matteo Salvini, aggiungendo: “Più che Guidi o Boschi la vera responsabilità è quella di Matteo Renzi”. Che come abbiamo già ricordato, per smarcarsi dal M5S sul caso di Quarto, dopo aver ribadito che il suo “garantismo” gli imponeva di non chiedere le dimissioni della sindaca grillina, nel frattempo espulsa dal Movimento, chiedeva invece le dimissioni della Guidi. Prendendo le mosse dalle odierne scuse di Di Maio alla Guidi, ci piace concludere quest’articolo citando le considerazioni di Berlusconi, all’epoca, sulla vicenda Guidi: “Le intercettazioni sono un vulnus della democrazia”. L’unico, ammettiamolo, con un’idea fissa.

IlFQ


mercoledì 31 marzo 2021

Quelle tragedie fatte sparire per non perdere consensi. - Andrea Bonanno

Ruggero Razza ex assessore sanità Sicilia

 Ruggero Razza, l'uomo a cui il presidente Musumeci aveva affidato i dodici e passa miliardi di euro di spesa sanitaria, l'avvocato penalista di grido, l'ultimo enfant prodige della politica siciliana. Prima che pronunciasse la frase intercettata quando parlava al telefono con la dirigente regionale dei morti di Covid dello scorso 4 novembre: "Spalmiamoli un poco", diceva l'assessore. Quasi che quelle 19 persone (questo il dato fornito dalla Regione quel giorno) fossero il burro sui crostini, o la crema solare sulla schiena. E invece erano i dati sulle vite spezzate dal coronavirus, che impietoso dilagava pure in Sicilia. Per difendere la faccia, lo smalto, il prestigio politico di un assessore e del suo staff che avevano voglia di fare bella figura con lo Stato e con i siciliani evitando la zona rossa.

E impedire le restrizioni impopolari, dare un'immagine di efficienza di una macchina organizzativa scalcinata, in cui regna l'improvvisazione. "Spalmiamoli un poco", dice l'assessore di Diventerà bellissima, nel tentativo di far quadrare le cifre dei morti. Non era questo l'atteggiamento che ci si aspettava dall'assessore alla Salute in un momento drammatico come quello che la Sicilia e tutto il mondo sta vivendo. Il cinismo dimostrato da Razza e dal suo staff somiglia più a un goffo tentativo di mascherare la verità con una bufala di proporzioni stratosferiche. Una sorta di "non ce n'è Coviddi" ai più elevati livelli.

LaRepubblica

venerdì 5 marzo 2021

Faide Pd: Zinga si dimette Conte: “Un leader leale”. - Wanda Marra

 

Lo “stillicidio”, come lo definisce lui, andava avanti da giorni e giorni. E con quello, un rimuginare sull’addio che non trovava pace. Alla fine, Nicola Zingaretti ha annunciato le sue dimissioni. Quasi a freddo nei tempi e inconsuete nei modi, scegliendo un post Facebook. “Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid”. Ma poi è stato ancora più diretto: “Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione”. Non una fredda comunicazione, ma un messaggio fortissimo, polemico, prima di tutto emotivo, da cui trapela la difficoltà dell’uomo di fronte a un tiro al piccione quotidiano. Ma anche uno scatto di orgoglio.

Non ha avvertito praticamente nessuno, se non il suo inner circle, che il dado era tratto, Zingaretti. Chi ci aveva parlato mercoledì sera e ieri mattina racconta che il quasi ex segretario (le dimissioni saranno formalizzate con una lettera alla presidenza del partito) pareva convinto ad andare avanti. Magari a presentarsi come traghettatore, fino al congresso in autunno, all’assemblea del 13 e 14 marzo. Oppure ad arrivare fino al 2023, sfidando le minoranze. Anche se negli ultimi due giorni, il passo indietro prendeva consistenza davanti al rinvio delle Amministrative a ottobre, con l’idea di candidarsi sindaco. L’annuncio ha lasciato tutti nella costernazione generale: non lo sapeva Goffredo Bettini, che spingeva per un rilancio; non lo sapeva Dario Franceschini, che la lavorato in queste settimane per convincerlo a rimanere.

D’altra parte, “Zinga” di sconfessioni implicite ed esplicite ne ha collezionate parecchie. Ha dato il via a malincuore al governo giallorosa per poi inchiodarsi al “Conte o voto” fino al momento in cui ha sentito dalle parole di Sergio Mattarella nella sala alla Vetrata che Mario Draghi era in campo. Ha accettato il governo con la Lega ed è dovuto restare fuori, per non far entrare Matteo Salvini. Ha visto praticamente fallire l’ipotesi dell’alleanza organica M5S, Pd, LeU con Giuseppe Conte federatore. E sull’“identità” del Pd era già pronta una battaglia sul sistema elettorale, che mezzo partito vuole più maggioritario di lui, per preservare l’idea di un partito plurale. Tutto questo, tra gli attacchi quotidiani di Base Riformista (la corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti) e dei sindaci. Poi c’è stata la débâcle sui sottosegretari e la scivolata del tweet in sostegno di Barbara D’Urso. E la fatica di mandare giù l’indifferenza del premier e la freddezza di Mattarella nei suoi confronti.

“Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità”, scrive. Senza un percorso, il Pd rischia davvero l’implosione. E lui lo sa. Che questo basti a convincerlo a ripensarci è da vedere. Nonostante la richiesta che dopo un paio d’ore arriva praticamente da tutti a ripensarci. Da Franceschini a Guerini, da Andrea Orlando ad Andrea Marcucci. Amici e nemici. Oltre ai messaggi di solidarietà che il responsabile Organizzazione, Stefano Vaccari, raccoglie con cura. Non parla Stefano Bonaccini, il principale candidato alla successione. Giuseppe Conte gli telefona, per ribadire l’apprezzamento delle sue qualità umane e della sua lealtà. In fondo, i due condividono la stessa sorte: sono fuori, come voleva Matteo Renzi. Nel governo guardano con una certa preoccupazione a un Pd senza controllo, ma da quando è arrivato Draghi, a implodere sono stati i dem e i Cinque Stelle.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/03/05/faide-pd-zinga-si-dimette-conte-un-leader-leale/6122766/

martedì 26 gennaio 2021

Oggi il premier si dimette: tentato dalle urne, ma proverà il Conte III. - Luca De Carolis

 

La scelta - Al Senato mancano i numeri per “salvare” Bonafede: l’ultimo tentativo per “rifare” i giallorosa.

Niente sfida in aula, niente partita all’ultimo voto. Ma le dimissioni, questa mattina, e poi le consultazioni al Quirinale, da domani pomeriggio. Una scommessa, una strada piena di rischi eppure obbligata, per provare a risorgere dalla terza crisi in tre anni: ancora a Palazzo Chigi, ancora da presidente del Consiglio. Con un Conte ter, con dentro perfino l’avversario, Matteo Renzi. Ma questa volta solo come uno dei tanti leader, non più decisivo, non più in grado di tenere in ostaggio la maggioranza. In un lunedì mattina romano di pioggia e brutti segnali, Giuseppe Conte prende atto di non poter più andare avanti. “I numeri per reggere in Senato non ci sono”, gli hanno appena detto gli sherpa del Movimento. Non ci sono abbastanza voti per salvare il Guardasigilli Alfonso Bonafede nell’ordalia prevista tra mercoledì e giovedì, cioè nella votazione sulla sua relazione sulla giustizia.

Italia Viva, la creatura di Renzi, è ferma sul no, e anche tanti possibili Responsabili hanno fatto sapere che una mano proprio non potranno darla, se in gioco ci sarà la testa del ministro della Spazzacorrotti e della riforma della prescrizione. “Non posso mandare Alfonso al macello”, riflette Conte con i suoi collaboratori, mentre le agenzie di stampa raccontano del dem Goffredo Bettini che improvvisamente tende la mano a Renzi e perfino tra i 5Stelle affiorano altri nostalgici del fu rottamatore. I numeri e i segnali dei partiti mettono l’avvocato di fronte alla realtà. Se cade Bonafede, addio governo. Ma senza i nuovi gruppi centristi e senza numeri solidi, per sopravvivere non possono bastare promesse generiche e un rimpasto chirurgico, magari scorporando qualche ministero. E allora, che fare? Il Pd gli indica la strada, un Conte ter con una maggioranza più larga. Con Renzi di nuovo dentro, ma normalizzato dai gruppi centristi che con un nuovo governo potrebbero prendere. È tutto un condizionale, “ma non c’è altra via” teorizzano i dem. L’avvocato però non è convinto. E per ore accarezza un’altra idea: dimettersi, sì, ma per andare alle urne in primavera da candidato premier dei giallorosa.

Puntare sulla sua popolarità ancora alta nei sondaggi, e liberarsi di Renzi. Ci pensa seriamente il premier, e ne discute con lo staff e i ministri più vicini. Ma il cerchio contiano si divide. “Non ci seguiranno, il voto non lo vuole nessuno” gli obiettano. Non il Quirinale, non certo i grillini fragili come non mai, e neppure il Pd che pure lo ha agitato fino a poche ore prima come minaccia anche per prendersi qualche renziano. Conte ascolta, riflette, telefona. E con il passare delle ore cambia idea, capisce che rischierebbe di ritrovarsi solo. Così accetta di andare a vedere il gioco, allargando la maggioranza. “Vediamo chi ci sta, ma Renzi non dovrà più essere centrale” è il senso dei suoi ragionamenti.

Servono numeri ampi, “per un’alleanza europeista”, come aveva scandito la scorsa settimana in occasione delle votazioni di fiducia. Ma Conte sa che non sarà una passeggiata. “Giuseppe nelle consultazioni rischia grosso” lo dicono in tanti tra i grillini. Convinti che Renzi non resisterà alla tentazione di dare il morso dello scorpione, ossia di fare un altro nome al Quirinale. “E poi i Responsabili, terranno? Chi può dirlo?”. Non può garantirlo neppure Conte, nella sera in cui nella Roma dei Palazzi circolano nomi per sostituirlo. E il più gettonato è quello di Di Maio. Terrebbe (quasi) unito il M5S e piacerebbe anche a Renzi. E a diversi dem non dispiace. Persone vicine al ministro degli Esteri negano: “Sono solo polpette avvelenate”. Ma tra i grillini se ne parla, parecchio. Invece altre fonti fanno il nome di Luciana Lamorgese, la ministra dell’Interno cara al Colle. Perché anche questa è una tesi diffusa, nei partiti: “Sarà stallo e alla fine sarà il Quirinale a dover trovare un nome”. Nell’attesa i giallorosa provano a reggere su Conte, “ma con soluzioni di chiarezza e non per vivacchiare” scandisce Federico Fornaro (LeU). La certezza è che stamattina Conte riunirà il Consiglio dei ministri per spiegare la sua scelta e poi salirà al Colle. “Un modo per condividere e per non sembrare solo in un passaggio così delicato”, spiegano. Dal Nazareno aspettano. E sussurrano: “Noi siamo sempre stati leali con Conte, certi grillini magari no…”. Segnali, da crisi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/26/oggi-il-premier-si-dimette-tentato-dalle-urne-ma-provera-il-conte-iii/6078144/

giovedì 14 gennaio 2021

Renzi non poteva almeno lasciare che Bellanova e Bonetti annunciassero le dimissioni?

 

Renzi, Bellanova, Bonetti durante la conferenza stampa in cui il leader di Italia Viva ha annunciato le dimissioni delle ministre del Governo Conte.

Bellanova e Bonetti, più dimesse che dimissionarie. Con tutto quello che dobbiamo affrontare, Renzi incluso, serviva l’ennesima polemica sulle donne ‘usate’ dall’ennesimo uomo più potente di loro? In poche parole, poteva almeno lasciarglielo dire a loro?

Come se ne avesse bisogno, l’uomo “più impopolare del Paese” che ha messo nei guai quello più popolare, squadernando una crisi di governo in piena emergenza pandemica, è riuscito invece nell’impresa di farlo attirandosi oltre alle solite accuse di egocentrismo anche quelle ben più velenose di sessismo.

Nel mondo reale e nei famigerati social (trovare le differenze ormai), all’hashtag di battaglia #renzivergogna, sono stati in molti a puntare il dito contro il leader di Italia Viva che pur di prendersi la scena, si arroga anche il diritto di annunciare le dimissioni delle sue ministre Bellanova e Bonetti, sedute al suo fianco, come “due corpi ostaggi”, come ha osservato non senza sarcasmo Lucia Annunziata al tg3.

E a proposito di giornalisti, c’è Alberto Infelise (la Stampa), che twitta: “Dire che la Bellanova non farà mai da segnaposto mentre le sta facendo fare esattamente la segnaposto è un estratto puro di renzismo”. Sulla stessa linea Selvaggia Lucarelli (Tpi): “Nel frattempo da 1 ora non hanno detto una parola, mentre fanno da segnaposto accanto a lui”.

Altri come Gad Lerner preferiscono ricorrere ad altre categorie. “Neanche il buon gusto, l’osservanza delle regole istituzionali o, se preferite, la cavalleria di lasciare che fossero le ‘sue’ due ministre a comunicare le proprie dimissioni, ha avuto @matteorenzi”, twitta l’ex editorialista di Repubblica.

C’è poi chi osserva come alle stesse, “dimesse”, politicamente e umanamente, ben pochi presenti in conferenza stampa hanno rivolto domanda. Per Marika Surace, esperta di diritti umani molto attiva sui social, “Renzi sta praticamente pregando i giornalisti di fare domande alle ministre e a Scalfarotto, inascoltato. Perché alla stampa interessa solo il suo rapporto con Conte e questo governo. Le due donne di Italia Viva non chiedono di intervenire. E però è Renzi che è sessista”.

Ma è anche vero - si ribatte- che una volta aperta la conferenza stampa con la notizia delle dimissioni, tutte le attenzioni erano rivolte alla mossa successiva di Renzi. Non è sfuggito che un ‘metronomo’ delle news come Enrico Mentana, abbia trovato normale rientrare in studio appena le stesse sembravano finalmente prendere la parola.

Sessismo o egocentrismo, c’è infine chi ha trovato la polemica stucchevole e irrilevante rispetto sia al tema delle donne sia rispetto al casino politico che era in procinto di innescarsi. Non resta che rifugiarsi nell’ironia feroce di Spinoza: “Renzi ha chiesto rispetto per le sue ministre. Altrimenti le farà parlare”.

(foto ANSA)

https://www.huffingtonpost.it/entry/renzi-non-poteva-almeno-lasciare-che-bellanova-e-bonetti-annunciassero-le-dimissioni_it_60002d9dc5b6c77d85ed2794?utm_hp_ref=it-homepage

Finalmente te ne vai. - Marco Travaglio

 

Il vero spettacolo non è l’Innominabile che parla tre ore senza dire nulla, se non che apre la crisi perchè gli sta sulle palle Conte. È che c’è ancora qualcuno che gli crede e lo prende sul serio. Mente da 10 anni ogni volta che respira. Ha tradito tutti quelli che han fatto patti con lui. Tuonava contro “i partitini” che volevano la “dittatura della minoranza” e ne ha fondato uno per imporre la dittatura della sua minoranza. Ha rottamato qualunque cosa abbia toccato, dal suo partito al suo governo al Paese, e ci ha provato pure con la Costituzione, con una furia distruttrice che nemmeno Attila flagello di dio (quello di Abatantuono). Ha coperto di ridicolo le mejo firme del giornalismo italiano, che sdraiate ai suoi piedi salutavano in lui il sole dell’avvenire salvo scoprire che era il sòla. Ha mollato il Pd per “svuotarlo come ha fatto Macron con i socialisti francesi” e l’unica cosa che ha svuotato è il suo residuo elettorato. Allora ha preso a rottamare il governo Conte-2 che lui stesso aveva voluto 17 mesi fa, nel bel mezzo della pandemia e della strage da Covid, della redazione del Recovery Plan e della campagna vaccinale. È andato in pellegrinaggio da Verdini a Rebibbia. Ha parlato con Salvini di altri governi (“Hai visto? Ho fatto il culo a Conte!”). Ha sputtanato il piano Ue, scritto non da Conte, ma dai pidini Gualtieri e Amendola dopo 19 riunioni con i rappresentanti di tutti i ministeri (inclusi i suoi, che evidentemente dormivano).

Ha inventato scuse e alibi ridicoli per dire sempre no e prendere in giro gli alleati: dal Mes al ponte sullo Stretto, dai servizi segreti alla cybersicurezza, da Trump alla task force del Recovery, dalla prescrizione alla liberazione dei pescatori in Libia, per non parlare della Boschi che chiedeva notizie dei “porti del Sud” oltre a quelli “di Trento e Trieste” (testuale). Ha chiesto poltrone ministeriali mentre accusava gli altri di pensare alle poltrone. Eppure c’è ancora qualcuno che gli crede e lo prende sul serio. I giornaloni raccontano di un’inesistente “lite” o “rissa” o “sceneggiata” fra lui e Conte, che non ha mai detto una parola contro di lui, ingoiando insulti, calunnie e provocazioni. Topi di fogna da maratona tivù tornano o diventano renziani e persino salviniani, sparando su eventuali “responsabili”, “transfughi”, “ribaltoni”, come se l’unico partito formato al 100% da transfughi non fosse proprio Italia Viva e se il Pd non avesse fatto “ribaltoni” governando con B. sotto Monti e sotto Letta e poi con i “responsabili” e “transfughi” di Ncd (Alfano&C.) e di Ala (Verdini) sotto l’Innominabile e Gentiloni. Ma il meglio lo dà mezzo Pd, che più prende ceffoni, calci e pugni, più gode e strilla “ancora! ancora!”.

Una scena sadomaso che mette tristezza e clinicamente si spiega soltanto con la variante italiana della sindrome di Stoccolma: la sindrome di Rignano. Del resto, fino all’altroieri nel Pd erano quasi tutti renziani: credevano di essere guariti, invece restano posseduti e purtroppo sprovvisti di esorcisti. A meno che non sia vero ciò che il Pd ha sempre smentito: cioè che un mese fa mandò avanti l’Innominabile all’assalto di Conte per indebolire il premier e sistemare il loro rimpastino (fuori De Micheli e Lamorgese, dentro Orlando e Delrio), poi come sempre ne perse il controllo e si spaventò a morte. Infatti l’altroieri, quando Conte e i 5Stelle han fatto il gesto di minima dignità di dire “Se fai cadere il governo, con noi hai chiuso” e l’hanno messo all’angolo, il Pd è entrato nel terrore. Anzichè finirlo, gli ha lanciato astutamente l’ennesima ciambella di salvataggio. Ha ripreso a rincorrerlo, a tendergli la mano, a offrirgli qualunque pizzo e a garantirgli che per carità, “mai dire mai”, anzi averne di italovivi in un nuovo governo, come se niente fosse, non è successo nulla, abbiamo scherzato, amici come prima. Vuoi la Boschi ministra? Ma certo. Vuoi andare tu agli Esteri? Accomodati. Vuoi i servizi segreti? Ma prego. E ci mettiamo sopra anche una fettina di culo. Oh, sì, dài, facci del male, frustaci ancora che ci piace!

Nessuno dei vedovi inconsolabili pidini ha spiegato con che faccia potrebbe mai sedersi a un tavolo con chi ha appena rovesciato il loro e suo governo e detto di loro le cose peggiori (l’ultima è: complici di un “vulnus democratico”, qualunque cosa voglia dire) per farne uno nuovo. E quale sadomasochista potrebbe mai accettare di presiederlo, con la certezza di essere molestato e brutalizzato quotidianamente com’è avvenuto a Conte prima con un Matteo e poi con l’altro. Ma magari lo troveranno, essendo la politica italiana un serbatoio inesauribile di uomini senza dignità. Infatti ieri, mentre l’Italia intera temeva che l’italomorente facesse l’ennesima retromarcia e poi tirava un sospiro di sollievo per essersi liberata di Italia Virus sulle note dell’ultimo successo di Renato Zero (“Finalmente te ne vai… come soffro!”), il Pd si listava a lutto e continuava a inseguire il suo persecutore. A cercare “spiragli di dialogo” nel suo delirio sciamanico. E a sognare un altro bel governo con lui (almeno fino allo stop di Zinga al Tg1). Per fortuna, ora è tutto molto chiaro: chiunque rifiuta a prescindere nuovi voti al Senato e si risiede al tavolo con lo sfasciacarrozze si condanna, come dicono a Bologna, a camminare per altri due anni “con un gatto attaccato ai maroni e qualcuno da dietro che gli tira la coda”. Chi si candida? Chi ci casca? Le iscrizioni sono aperte.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/14/finalmente-te-ne-vai/6065052/

venerdì 16 ottobre 2020

POLITICA I 5 stelle chiedono le dimissioni di Alessandro Profumo: “Dopo la condanna rimetta il mandato da ad di Leonardo”.

 

Il manager è stato condannato giovedì 15 ottobre a sei anni in primo grado insieme Fabrizio Viola: i due erano sotto processo in qualità di ex presidente ed ex ad di Mps in un filone dell’indagine sulla banca senese legato ai derivati Alexandria e Santorini. Dopo la notizia della condanna la società ha precisato che non sussistono cause di decadenza dalla carica di amministratore delegato. A Piazza Affari, però, il titolo cede il 3%.

Alessandro Profumo si dimetta da amministratore delegato di Leonardo. A chiederlo è il Movimento 5 stelle, con un tweet dall’account ufficiale in cui si legge: “Alla luce della condanna ricevuta, ci aspettiamo che Alessandro Profumo, nell’interesse dell’azienda, rimetta il mandato da Ad di Leonardo”. Profumo è stato condannato giovedì 15 ottobre a sei anni in primo grado insieme Fabrizio Viola : i due erano sotto processo in qualità di ex presidente ed ex ad di Mps in un filone dell’indagine sulla banca senese legato ai derivati Alexandria e Santorini. L’accusa era di false comunicazioni sociali manipolazione informativa (aggiotaggio) per la contabilizzazione dal 2012 alla semestrale 2015 di derivati per 5 miliardi presentati a bilancio come BTp. Il tribunale li ha ritenuti responsabili dei capi di imputazione B e C, cioè false comunicazioni sociali relative alla semestrale del 2015 e aggiotaggio. Sono stati prescritti per il bilancio 2012 e “perché il fatto non sussiste” per i bilanci 2013 e 2014. Profumo e Viola dovranno anche pagare una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno. Oggi Profumo è numero uno di Leonardo (ex Finmeccanica). Dopo la notizia della condanna la società ha precisato che non sussistono cause di decadenza dalla carica di amministratore delegato. A Piazza Affari, però, il titolo cede il 3% a 4,51 euro mentre Mps guadagna lo 0,3% a 1,20 euro.

La banca, che ora è del Tesoro, è stata condannata a una sanzione di 800mila euro per la legge 231 sulla responsabilità degli enti, mentre per Paolo Salvadori, allora presidente del collegio sindacale, la pena è stata di 3 anni e 6 mesi. La decisione è arrivata al termine di una camera di consiglio di circa 4 ore ed è stata pronunciata nella fiera di Milano, scelta per consentire alle parti di presenziare al dibattimento nel rispetto del distanziamento sociale.

La sentenza ribalta la richiesta del pubblico ministero Stefano Civardi che aveva chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” per il reato di aggiotaggio contestato a Profumo e Viola e per quello di false comunicazioni sociali contestato a tutti gli imputati per il bilancio 2012 e per la prima semestrale del 2015 e l’assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” per la contestazione di false comunicazioni sociali in merito ai bilanci 2013 e 2014. Profumo e Viola sono anche indagati per false comunicazioni sociali e manipolazione informativa per la contabilizzazione dei crediti deteriorati. I pm in questo caso hanno chiesto l’archiviazione ma il gip ha ordinato ulteriori indagini.

I derivati Alexandria e Santorini furono realizzati da Mps con Deutsche Bank e Nomura per coprire i costi dell’acquisizione di Antonveneta. Per le irregolarità nelle operazioni effettuate dalla banca senese per mascherare le perdite legate all’acquisizione lo scorso anno sono stati condannati l’ex presidente Mps – nonché ex numero uno dell’Abi – Giuseppe Mussari, l’ex direttore generale Antonio Vigni e l’ex responsabile area finanza Gian Luca Baldassarri. La sentenza era arrivata sei anni dopo lo scoop del Fatto Quotidiano che per primo parlò dell’accordo segreto tra Mps e Nomura per truccare i conti. “Leggeremo con attenzione le motivazioni e senz’altro presenteremo appello contro una sentenza che consideriamo sbagliata. Abbiamo sempre creduto nel corretto operato dei nostri assistiti” è il commento dell’avvocato Adriano Raffaelli, uno dei difensori di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, condannati dal tribunale di Milano a 6 anni di reclusione in un filone del caso Mps.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/16/i-5-stelle-chiedono-le-dimissioni-di-alessandro-profumo-dopo-la-condanna-rimetta-il-mandato-da-ad-di-leonardo/5968263/#

martedì 6 ottobre 2020

Casellati prende il bazooka: ora deve andarsene. - Antonio Padellaro














Maria Elisabetta Alberti Casellati (per brevità MEAC) in fondo va capita. Per una donna capace e di temperamento, come lei probabilmente ritiene di essere, la presidenza del Senato può rappresentare una gabbia politica, sia pure dorata. E dunque, nell’intervista di ieri al Corriere della Sera, parlando dallo scranno più alto di Palazzo Madama, MEAC, proprio rispetto alla carica ricoperta, ha voluto essere molto di più, ma anche molto di meno. Molto di più poiché l’attacco frontale sferrato al governo Conte, nei toni e nei contenuti, forse non ha precedenti nella storia dei rapporti tra l’istituzione seconda carica della Repubblica e il potere esecutivo. Chi è infatti che affronta l’emergenza “mettendo toppe”? Chi, a proposito della “ripresa” adopera “tante parole e niente fatti”? Privo di “una visione strategica del Paese, di una visione lungimirante dello sviluppo”? Chi “nasconde la polvere sotto il tappeto” pensando per esempio di “risolvere i problemi strutturali della scuola con i banchi con le rotelle”? Chi “in mancanza di un ‘Progetto Italia’ rischia di trasformare l’eventuale bazooka dei fondi Ue in una pistola ad acqua”? Chi è che si rifiuta di “coinvolgere le opposizioni” sulle priorità per il Paese? E a chi la presidente del Senato si rivolge quando, a proposito della proroga dello stato d’emergenza, sentenzia: “Abbiamo bisogno di verità, non si può oscillare tra incertezze e paure in una confusione continua di dati”? Dunque se, come è evidente, MEAC ha deciso di sommare ai poteri che le conferisce la Costituzione anche quelli di capo dell’opposizione dovrebbe correttamente dichiararlo. Innanzitutto, all’assemblea che presiede non potendo più garantire l’indispensabile equidistanza che il suo ruolo impone. Dopodiché, sarebbe interessante vedere in che modo MEAC si dividerà i compiti con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, clamorosamente scavalcati a destra dal suo veemente j’accuse contro il governo giallorosa (per non parlare dei “moderati” di Forza Italia che l’hanno candidata e sostenuta). Ci sarebbe poi il problemuccio delle funzioni di presidente supplente della Repubblica, nel caso molto malaugurato in cui Sergio Mattarella fosse impossibilitato a svolgerle. Ipotesi da brividi che speriamo non si realizzi mai. Mentre di buono c’è che dopo un’intervista così “schierata” sembra evidente che le probabilità di vedere MEAC al Quirinale, con il voto di questo Parlamento, siano prossime allo zero (perciò siamo convinti che da oggi lei conti molto di meno).

PS.

In un mondo normale, dopo dichiarazioni di questo tenore, un presidente del Senato si dimetterebbe per dedicarsi più liberamente, e correttamente, alla politica attiva. Ma di normale qui non c’è proprio niente.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/06/casellati-prende-il-bazooka-ora-deve-andarsene/5955817/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-10-06

venerdì 15 maggio 2020

Inchiesta Csm, dopo l’articolo de ilfattoquotidiano.it si dimette il capo di gabinetto del ministero della Giustizia.

Inchiesta Csm, dopo l’articolo de ilfattoquotidiano.it si dimette il capo di gabinetto del ministero della Giustizia

Le dimissioni dopo l'articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: "Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero". Fonti vicine al Guardasigilli fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara.
Il capo di gabinetto del Ministero di Giustizia Fulvio Baldi si è dimesso. Le agenzie di stampa riferiscono “ragioni personali” molto sinteticamente. La reggenza è stata affidata al capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello.
Le dimissioni arrivano poco dopo la telefonata con Il Fatto quotidiano (e la pubblicazione sul sito de ilfattoquotidiano.it dell’articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: “Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero”) che ha letto a Baldi le intercettazioni delle conversazioni con Luca Palamara del periodo aprile-maggio 2019. In quelle conversazioni Baldi parlava di raccomandazioni in favore di una pm e di una giudice che volevano andare a lavorare al Ministero di via Arenula. Intorno alle 20, terminata la telefonata, Baldi ha avuto un colloquio con il Ministro Alfonso Bonafede. Alla fine del colloquio si è deciso a dare le dimissioni dal suo incarico che ricopriva dal 28 giugno del 2018.
Fonti vicine al ministro fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara. Il Capo di Gabinetto (ovviamente mai indagato) parlava con il suo amico e compagno di corrente nel periodo in cui Palamara era indagato e intercettato dal Gico della GdF di Roma in un’inchiesta segreta dei pm di Perugia che da poche settimane si è chiusa con il deposito degli atti e l’accusa di corruzione nei confronti dell’ex consigliere del Csm. All’epoca Baldi, che ha militato per moltissimi anni in Unicost, corrente centrista della quale Palamara era leader e consigliere Csm uscente, non poteva sapere che Palamara era indagato, ma poteva conoscere l’esistenza del fascicolo perugino (allora senza indagati) che fu svelata dal Fatto il 27 settembre del 2018.
Il posto di capo gabinetto resta vacante, ma Alfonso Bonafede ha per ora affidato la reggenza proprio a Mauro Vitiello, il capo dell’ufficio legislativo citato nelle intercettazioni di Palamara con Baldi.
Mauro Vitiello, a detta di Baldi, dopo un colloquio ad aprile 2019 con una pm di Modena che voleva venire al ministero, non aveva voluto prenderla. La dottoressa Katia Marino era stata raccomandata a Baldi da Luca Palamara. Tuttora lavora alla Procura di Modena e ovviamente non ha nessuna colpa in questa vicenda, avendo solo chiesto all’amico Luca Palamara che stava a Roma se c’era bisogno di una persona nello staff del Ministero. Baldi nelle intercettazioni sosteneva che Vitiello fosse contrario anche perché di area MD, la corrente progressista della magistratura contrapposta di Unicost. Però, come ha spiegato Baldi ieri al Fatto durante il colloquio precedente alle sue dimissioni, “io pensavo allora fosse di Md poi ho scoperto che Vitiello non ne fa parte”.
Ora Alfonso Bonafede deve decidere chi sarà il suo nuovo capo di gabinetto, una posizione nevralgica per il funzionamento del ministero.

martedì 12 novembre 2019

Lupi per agnelli. - Marco Travaglio



La nota faccia da renzi che risponde al nome di Renzi ci accusa di censurare un’archiviazione: quella dell’indagine nata a Firenze nel 2015, poi trasferita in parte a Milano su vari appalti sospetti, famosa perché costò il posto al suo ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi (Ncd). Lupi non era indagato, dunque con l’archiviazione non c’entra. Ma i giornali di destra e dunque Renzi frignano per il povero innocente perseguitato dall’ennesimo complotto mediatico-giudiziario. Forse è il caso di rammentare perché Lupi diede le dimissioni e Renzi le accettò, visto che non lo ricordano nemmeno loro. Dalle intercettazioni venne fuori che: Lupi aveva chiamato Ercole Incalza, capostruttura del suo ministero, per dirgli: “Deve venirti a trovare mio figlio” (Luca, neolaureato in cerca di lavoro); Incalza e l’imprenditore e abituale appaltatore Stefano Perotti si erano interessati a incarichi professionali per Lupi jr.; Perotti aveva regalato al giovanotto un Rolex da 10 mila euro. Lupi, cuore di papà, fece benissimo a dimettersi e Renzi ad accompagnarlo alla porta. Per quei fatti che, a prescindere dalla rilevanza penale, ponevano un’evidente questione morale e di opportunità: un ministro non può accettare favori o regali da dirigenti e clienti del suo ministero. L’essere indagato o meno non c’entra: c’entrano i fatti, mai smentiti neppure dall’archiviazione. Che riguarda gli indagati, dunque non Lupi, e non parla di lui.

Eppure il Giornale titola: “‘Dimissionato senza motivo’. L’amara rivincita di Lupi” . E Libero: “Archiviata l’inchiesta sui Rolex. Chi ripaga il male? Lupi si era dimesso per nulla senza essere indagato. Prosciolto nel 2018” (parola di Renato Farina, ciellino come Lupi ma pregiudicato a differenza di Lupi, convinto che si indagasse sul Rolex e che si possa prosciogliere uno che non è mai stato inquisito). E il Riformatorio: “Lupi e i suoi fratelli vittime innocenti dei tagliagole a 5Stelle” (per Tiziana Maiolo il pm era Di Maio). Renzi però li supera e strilla contro “i gazzettini del giustizialismo che fischiettano e fanno finta di nulla davanti all’ennesimo scandalo che scandalo non era”, anziché “scusarsi” con Lupi. Che, rivela Renzi, “era totalmente estraneo alla vicenda ma decise di dimettersi lo stesso”. Ma tu guarda: era estraneo e lui, anziché respingerne le dimissioni, le accolse al volo. Perché non si scusa lui? Sarebbe una bella scena: un politico che si vergogna di una delle poche cose giuste fatte in vita sua, cioè far dimettere un non indagato in nome della questione morale, poi corre a rimediare imbarcando una dozzina di indagati e condannati in nome della questione immorale.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/12/lupi-per-agnelli/

martedì 1 ottobre 2019

Presto quota 1000 per i voltagabbana di Camera e Senato. - Ilaria Proietti

Presto quota 1000 per i voltagabbana di Camera e Senato

Dai Responsabili di Razzi e Scilipoti agli Italiani Vivi: in tre legislature contati oltre 900 cambi di casacca.

È un fenomeno che pare inarrestabile: in poco più di dieci anni sono stati oltre 900 i cambi di casacca in Parlamento. E la cifra è destinata a salire sfondando agevolmente quota mille. Perché Matteo Renzi conta di poter vampirizzare ulteriormente il Pd a cui ha già sfilato 40 eletti tra cui l’ex capogruppo Rosato, la neo ministra Bellanova, il già tesoriere del Nazareno Francesco Bonifazi. Ma l’emorragia non è finita. L’ultima arrivata è Silvia Vono che si è trasferita nel gruppo Italia Viva dopo aver abbandonato i 5 Stelle che già erano dimagriti a causa delle espulsioni, 13 tra deputati e senatori solo dall’inizio della legislatura. Ma accanto agli epurati ora c’è che si guarda intorno: la Lega cerca di fare proseliti e non solo tra i 5 Stelle. Silvio Berlusconi teme che pezzi da novanta di Forza Italia, con il loro abbandono, diano il colpo di grazia al partito in calo vertiginoso nei sondaggi. Per molti azzurri è appetibile l’approdo nel Carroccio e in Fratelli d’Italia: il coordinatore azzurro dell’Emilia Romagna, Galeazzo Bignami con le Regionali alle porte è passato con FdI.
E che dire di Giovanni Toti? Per ora pochi azzurri lo hanno seguito nella avventura di “Cambiamo” ma la diaspora azzurra è iniziata da tempo, almeno dall’addio di Denis Verdini che qualche hanno fa ha fondato l’Alleanza Liberalpopolare-Autonomie. E da quello di Raffaele Fitto che aveva scommesso sul big bang berlusconiano e si era messo su il partito dei Conservatori & Riformisti. Dilettanti al confronto di Luigi Compagna che in Parlamento ci era entrato una prima volta con il Pli per poi passare all’Udc e via nel Popolo delle Libertà e di lì nella Federazione delle Libertà non prima di un passaggio nel gruppo Misto, in Grandi autonomie e libertà (Gal), in Area popolare, ancora in Gal, poi coi fittiani, al Misto e di nuovo a Gal.
Se Compagna ha fatto scuola pure gli altri ci hanno dato dentro: solo nella XVII legislatura (2013-2018) si è registrato un record di cambi di casacca: 566 che hanno coinvolto ben 347 parlamentari, il 36,53% degli eletti. “Il parlamentare è libero di cambiare partito e anche di votare come vuole, in dissenso dal suo gruppo. Ma, se lascia la maggioranza con cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa (caso molto più frequente), subito dopo deve decadere da parlamentare: perché ha tradito i propri elettori e ha stravolto il senso politico della sua elezione” aveva suggerimento Gustavo Zagrebelsky, con una proposta legislativa diversa dal vincolo di mandato, in un’intervista al Fatto. Ovviamente inascoltato.
Perché l’andazzo prosegue da tempo: nella XVI legislatura (2008-2013) le giravolte sono state un po’ meno (261 per 180 parlamentari coinvolti) ma di un certo rilievo: come dimenticare la pattuglia dei “Responsabili” di Razzi e Scilipoti che impallinarono il governo di Romano Prodi favorendo il ritorno di B.? “Io sono un fan, dipendente, anche schiavo, ma sì, mettiamoci pure schiavo di Berlusconi” si giustificò Antonio Razzi nel frattempo rieletto grazie ai voti di Forza Italia.
Ma c’è chi ha fatto di più: 11 parlamentari hanno battuto ogni primato, cambiando maglia sia nella XVI che nella XVII legislatura. Come nel caso di Dorina Bianchi eletta nel 2008 con il Pd poi passata nel Popolo delle Libertà. Una volta ricandidata con Berlusconi lo aveva infine abbandonato per il Nuovo Centro destra di Angelino Alfano. Ma poi nell’elenco c’è pure Linda Lanzillotta che partendo dal Pd dopo un lunghissimo giro era tornata nella XVII legislatura alla casa madre come pure Alessandro Maran.
Ancora: Benedetto Della Vedova. Onora fedelmente il motto caro ai radicali “rendetevi irriconoscibili senza timore di fare scandalo”: ha alle spalle due legislature in cui ha infilato l’elezione con Berlusconi, il passaggio con Futuro e Libertà di Gianfranco Fini per poi aderire al partito di Mario Monti che ha lasciato per il gruppo Misto: ora è deputato di +Europa per il futuro chissà.
Bruno Tabacci era invece stato eletto con l’Udc, con cui si era candidato nella XVI legislatura, per poi fare un percorso che lo ha portato a concludere la legislatura successiva con il Centro democratico: ora è di nuovo in Parlamento con +Europa non immune dal virus della scissione: Tabacci ha annunciato il divorzio da Emma Bonino.
Non gli è da meno Paola Binetti oggi eletta per Forza Italia ma che, andando a ritroso, si era unita a Alfano dopo aver abbandonato Scelta Civica. E prima ancora era passata all’Udc dopo aver salutato il Pd. Scatenando le ire dell’allora Rottamatore dem Matteo Renzi che a un certo punto sbottò contro di lei e gli altri che avevano traslocato: “Se uno smette di credere in un progetto politico, non deve certo essere costretto con la catena a stare in un partito. Ma, quando se ne va, deve fare il favore di lasciare anche il seggiolino”. Appunto.