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sabato 27 luglio 2013

Caso Ablyazov, il tribunale accusa la polizia: “Omissioni e fretta insolita”.

Figlia Mukhtar Ablyazov


Il magistrato di Roma, Mario Bresciano, dopo la richiesta di verifiche da parte del ministro della giustizia Annamaria Cancellieri, assolve il giudice di Pace Stefania Lavore e punta il dito contro le forze dell'ordine: "Nel lavoro della collega nessuna irregolarità. Non altrettanto si può dire di chi ha effettuato la procedura di espulsione".

Il giudice di pace Stefania Lavore “è stato tratto in inganno dalla polizia”. L’accusa arriva dal presidente del tribunale di Roma Mario Bresciano, che in merito al caso Ablyazov e all’espulsione di figlia e moglie del dissidente, assolve le colpe della collega, ma punta il dito contro la polizia. Il magistrato sollecita l’apertura di un’indagine e dopo la richiesta di verifiche da parte del ministro della giustizia Annamaria Cancellieri commenta: “Nel lavoro della dottoressa Stefania Lavore non ho riscontrato alcuna irregolarità, anzi. Non posso negare che al suo posto un togato con maggiore esperienza avrebbe potuto accorgersi delle tante stranezze, ma questo non inficia assolutamente quanto è stato fatto. Il comportamento della giudice è stato ineccepibile. L’ho scritto nella relazione che ho trasmesso al ministro”. Il problema dunque, riguarda il comportamento delle forze dell’ordine: “Non altrettanto si può dire della polizia che certamente ha agito con una fretta insolita e anomala. Ma soprattutto ha tenuto per sé delle informazioni preziose»
”La nota dell’ambasciata kazaka non mi è mai stata data”. Stefania Lavore, giudice di pace che ha convalidato il trattenimento di Alma Shalabayeva nel Cie di Ponte Galeria, ha dichiarato di non avere mai visto il documento del 30 maggio, indirizzato all’Ufficio immigrazione della Questura che fornisce indicazioni sulle generalità della Shabalayeva, con la data di nascita della donna e il riferimento a due passaporti nazionali del Kazakistan. Proprio su questo documento e sul perché il giudice non lo avesse visionato, il ministro della Giustizia aveva disposto verifiche tramite l’ispettorato. E gli accertamenti preliminari sono partiti subito. Stefania Levore, infatti, è stata sentita dal presidente del tribunale di Roma, Marco Bresciano, quale organo di vigilanza rispetto al giudice di pace, al quale ho consegnato una relazione scritta.
Se il giudice di pace avesse avuto quella nota, il corso della vicenda avrebbe potuto essere diverso? Di certo, il giudice avrebbe potuto porsi una domanda centrale, e cioè se la donna di cui stava convalidando il trattenimento nel Cie fosse Alma Ayan, in base all’identità da lei stessa fornita, o Alma Shalabayeva, come indicava la nota. I legali di Alma hanno sempre sostenuto che la moglie di Mukthar Alyazov, dissidente kazako, non abbia voluto dire chi realmente fosse temendo ritorsioni per sé e la figlia. Ma certo, il verbale di convalida di trattenimento firmato da Stefania Lavore dopo un’udienza durata circa 40 minuti, fa riferimento ad Alma Ayan.
“Io ho solo applicato la legge – ha spiegato Lavore, rappresentata dall’avvocato Lorenzo Contrada – Sulla base della documentazione fornita dal Prefetto ho convalidato il trattenimento della signora, non certo l’espulsione che non rientra nella mia competenza e che spetta, eventualmente, all’autorità di polizia. Gli unici documenti posti alla mia attenzione sono stati quelli della difesa: si tratta di dichiarazioni della Repubblica Centrafricana secondo cui la donna era un soggetto da loro conosciuto con il nome di Alma Ayan, lo stesso che per il prefetto era presente su documentazione contraffatta e falsa. Con queste carte non avrei potuto adottare decisione diversa da quella che ho preso”.
Il giudice di pace ha preso posizione anche su un altro punto: “Nessuna richiesta di asilo politico mi è stata avanzata dalle parti in quella sede”. Semmai la scelta di trattenere la donna era “finalizzata proprio ad accertare la sua reale identità e non certo ad agevolarne l’espulsione”. Impossibile, a partire da qui, “immaginare cosa sarebbe successo dopo”. “Se mi avesse detto che era in pericolo – ammette Lavore, interpellata telefonicamente – forse le cose sarebbero andate diversamente”.

martedì 16 luglio 2013

Caso Ablyazov, kazaki & cazzari. - Marco Travaglio


Ora ci spiegano che, sul ruolo dei ministri Alfano e Bonino nello scandalo kazako, bisogna attendere fiduciosi il rapporto del capo della Polizia appena nominato dal vicepremier e ministro Alfano a nome del governo Letta per conto del Quirinale. Come se il nuovo capo della Polizia potesse mai sbugiardare il superiore da cui dipende e mettere in crisi il governo che l’ha nominato.
Suvvia, sono altre le indagini imparziali che andrebbero fatte. Ci vorrebbe una Procura indipendente dalla politica, quale purtroppo non è mai stata, almeno nei suoi vertici, quella di Roma, che in questi casi si è sempre mossa come una pròtesi del governo di turno.
 
Quindi lasciamo stare le indagini e limitiamoci alle poche cose chiare fin da ora. Se la polizia italiana ha cinto d’assedio con 40 uomini armati fino ai denti il villino di Casal Palocco per sgominare la temibile gang formata da Alma e Aluà, moglie e figlia (6 anni) del dissidente Ablyazov, e spedirle fermo posta nelle grinfie del regime kazako, è per un solo motivo: il dittatore Nazarbayev, che ne reclamava le teste e le ha prontamente ottenute, è uno dei tanti compari d’anello di Berlusconi in giro per il mondo.
 
Da quando Berlusconi è il padrone d’Italia, il nostro Paese viene sistematicamente prostituito ora a questo ora a quel governo straniero, in spregio alla sovranità nazionale, alla Costituzione e alle leggi ordinarie. I compari stranieri ordinano, lui esegue, il funzionario di turno obbedisce e viene promosso, così non parla. Un ingranaggio perfettamente oliato che viaggia col pilota automatico, sul modello Ruby-Questura di Milano. La filiera di comando è tutta privata. Governo e Parlamento non vengono neppure interpellati o, se qualche ministro sa qualcosa, è preventivamente autorizzato a fare il fesso per non andare in guerra, casomai venga beccato. Tanto si decide tutto fra Arcore, Villa Certosa e Palazzo Grazioli. Sia quando lui sta a Palazzo Chigi, sia quando ci mette un altro, tipo il nipote di Letta.
Era già accaduto col sequestro di Abu Omar per compiacere Bush (solo che lì una Procura indipendente c’era, Milano, e Napolitano dovette coprire le tracce graziando in tutta fretta il colonnello Usa condannato e latitante).
Ora, per carità, è giusto chiedere le dimissioni di Alfano e Bonino, per evitare che volino i soliti stracci e cadano le solite teste di legno: se i due ministri sapevano, devono andarsene perché complici; se non sapevano, devono andarsene a maggior ragione perché fessi. Ma è ipocrita anche prendersela solo con loro. La Bonino è uno dei personaggi politici più sopravvalutati del secolo: difende i diritti umani a distanza di migliaia di chilometri, ma in casa nostra e dei nostri alleati non ha mai mosso un dito (tipo su Abu Omar e su Guantanamo). Alfano basta guardarlo per sospettare che non sappia neppure dov’è il Kazakistan e per capire che conta ancor meno di Frattini, che già contava come il due a briscola: è l’attaccapanni di B. ed è persino possibile che i caporioni della polizia, ricevuto l’ordine dal governo dell’amico kazako, abbiano deciso di non ragguagliarlo sui dettagli del blitz. Tanto non avrebbe capito ma si sarebbe adeguato, visto che non comanda neppure a casa sua.
Il conto però va presentato a chi ha nominato Alfano vicepremier e ministro dell’Interno e la Bonino ministro degli Esteri. Cioè a chi tre mesi fa decise di riportare al governo B. nascosto dietro alcuni prestanome. E poi iniziò a tartufeggiare sul Pdl buono (Alfano, Lupi e Quagliariello) e il Pdl cattivo (Santanchè, Brunetta e Nitto Palma). Il Pdl è uno solo e si chiama Berlusconi, con tutto il cucuzzaro dei Putin, Nazarbayev, Erdogan & C. Per questo l’antiberlusconismo, anche a prescindere dai processi, è un valore. Chi – dai terzisti al Pd – lo accomuna al berlusconismo e invoca la “pacificazione” dopo la “guerra dei vent’anni”, non ha alcun diritto di scandalizzarsi né di lamentarsi per gli effetti collaterali dell’inciucio. Inclusi i sequestri di donne e bambine. Avete voluto pacificarvi con lui? Adesso ciucciatevelo.
Alma racconta: 'Credevo volessero ucciderci'


Il blitz nel memoriale rilasciato al Financial Times - Michele Esposito


ROMA, 14 LUG - L'irruzione in casa a mezzanotte. Le offese e le botte. La paura di essere uccisa. La partenza per Astana dopo tre giorni da incubo. Tutto in un racconto di 18 pagine che Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhta Ablyazov espulsa lo scorso 31 maggio dall'Italia, ha consegnato al Financial Times, che lo ha poi tradotto e pubblicato. Il memoriale è datato 22 giugno, è dettagliato, crudo, scritto in prima persona. Una ricostruzione che la Questura di Roma smentisce. "La signora Alma Shalabayeva - si legge in una nota diffusa in serata - non ha subito alcun tipo di maltrattamento nel corso dell'operazione di polizia giudiziaria del 29 maggio". Il caso, che da giorni vede il governo italiano nella bufera, rischia così di alimentare ulteriormente l'eco internazionale. In casa, oltre ad Alma e alla figlioletta Alua, c'erano Venera - sorella maggiore di Alma - il marito Bolat e la loro figlia e una coppia di ucraini che si occupava della villa di Casal Palocco e viveva in una dependance. L'irruzione avviene a mezzanotte, tra il 28 e il 29 maggio. A entrare in casa sono "30-35" persone, una "ventina" sono invece appostate all'esterno.
"Erano vestiti di nero. Alcuni di loro avevano catene d'oro al collo, molti avevano la barba, uno una capigliatura punk con una cresta", racconta la donna nel lungo documento. "Non avevano nessun segno esterno da cui si potesse capire che erano poliziotti e militari. Ma tutti avevano delle pistole e parlavano tra loro in italiano", spiega ancora Alma che sottolinea più volte come nessuno parlasse o comprendesse bene l'inglese. L'atteggiamento, tuttavia, sembrava quello dei "gangster". Alma, consapevole di essere la moglie del leader dell'opposizione kazako e ancora ignara dell'identità di chi ha fatto irruzione, non rivela la sua identità. All'inizio dice di essere russa, ma ciò non accontenta i suoi interlocutori. "Continuavano a gridarmi in italiano. Non capivo esattamente cosa dicessero. L'unica cosa che ho potuto distinguere in questa serie di offese fu 'Puttana russa'", scrive la kazaka secondo la quale "sembrava che cercassero qualcosa o qualcuno. Avevo una sola sensazione in quel momento: erano venuti ad ucciderci senza un processo, un'indagine, senza che nessuno lo avrebbe mai saputo". Lo shock è forte anche perché il cognato Bolat ad un certo punto viene portato in una stanza da dove esce con "un occhio rosso e gonfio, un labbro rotto, una ferita al naso. Disse che lo avevano pestato". A tutti viene intimato di consegnare i documenti. Alma non mostra il suo passaporto kazako ma "un passaporto diplomatico" rilasciato dalla Repubblica Centrafricana nell'aprile 2010.
Nel frattempo i tre kazaki chiedono insistentemente di un avvocato e un interprete, ma non ottengono nulla. La casa viene perquisita superficialmente ma nella macchina fotografica di Alma vengono trovate foto che la ritraggono con Ablyazov. Dopo circa tre ore Alma e Venera vengono portate via, prima in una stazione di polizia "nel centro di Roma" poi in un ufficio immigrazione "nel Sud-Est" della capitale. Lì Alma rimane circa 15 ore, senza bere o mangiare. Stremata e rassicurata dal fatto che stava avendo a che fare con la polizia italiana, decide di confessare la sua storia. A un gruppo di 12 persone e a quello che sembra il dirigente dell'ufficio racconta che il Kazakistan "è governato da un dittatore da più di 20 anni al potere e di come Nazarbayev elimina i leader dell'opposizione". Spera in un cambio di atteggiamento, ma così non è. La donna viene portata al Cie di Ponte Galeria, dove può parlare con un avvocato e un interprete. In qualche modo, mettono in contatto la donna con l'ambasciata del Kazakistan a Roma. "Ma io non potevo contare sull'aiuto dell'ambasciata", recita il suo memoriale. Il 31 maggio pomeriggio Alma viene portata a Ciampino, le fanno firmare dei documenti e, insieme alla figlia, viene condotta su un "lussuoso" jet privato ad Astana. Le dicono che il suo passaporto centrafricano è "contraffatto". Lei nega, fino all'ultimo chiede "asilo politico". "E' troppo tardi", le rispondono e - scrive la donna - la sensazione è che tutti eseguissero dei compiti già dettagliatamente assegnati "dall'alto".

sabato 6 aprile 2013

Emma Bonino - Marco Travaglio



Oggi, 6 aprile, su "il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio analizza, ripercorrendola, la carriera politica di Emma Bonino, in vista di una possibile candidatura al Quirinale. Riportiamo di seguito alcuni estratti: 

Da sempre radicale, si è poi candidata nel '94 con Forza Italia fondata da Berlusconi, Dell'Utri, Previti & C., e col centrodestra berlusconiano è rimasta alleata, fra alti e bassi, fino alla rottura del 2006, quando è passata al centrosinistra. Ha ricoperto le più svariate cariche: deputata, senatrice, europarlamentare, commissario europeo, vicepresidente del Senato, ministro per gli Affari europei nel governo Prodi.

Nel '94, quando si candidò per la prima volta con B., partecipò con lui e la Parenti a un comizio a Palermo contro le indagini su mafia e politica. Poi, appena eletta, fu indicata dal Cavaliere assieme a Monti come commissario europeo. Il che non le impedì di seguitare l'attività politica in Italia, nelle varie reincarnazioni dei radicali: Lista Sgarbi-Pannella, Riformatori, Lista Pannella, Lista Bonino. Nel '99 B. la sponsorizzò per il Quirinale, anche se poi confluì su Ciampi. Ancora nel 2005, alla vigilia della rottura, la Bonino dichiarava di "apprezzare ciò che Berlusconi sta facendo come premier" (una legge ad personam dopo l'altra, dalla Gasparri alla Frattini, dal lodo Schifani al falso in bilancio, dalla Cirami alle rogatorie alla Cirielli) e cercava disperatamente un accordo con lui.

Alle meritorie campagne contro il finanziamento pubblico dei partiti, fa da contrappunto la contraddizione dei soldi pubblici sempre chiesti e incassati per Radio Radicale. Nel 2010 poi la Bonino fece da sponda all'editto di B. contro Annozero : il voto radicale in Vigilanza fu decisivo per chiudere i talk e abolire l'informazione tv prima delle elezioni. Con tutto il rispetto per la persona, di questi errori politici è forse il caso di tenere e chiedere conto. 


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