Trümperdämmerung. Così, in articolo il cui titolo sarcasticamente richiamava quello dell’atto finale di Der Ring des Nibelungen – il Götterdämmerung, o “crepuscolo degli dei”, per l’appunto – Susan B. Glasser aveva raccontato sul New Yorker, mentre il 2020 stava uscendo di scena, gli ultimi giorni della presidenza di Donald J. Trump. E non pochi sono stati i commentatori che hanno ripreso questa molto teutonica espressione mercoledì sera, mentre sugli schermi televisivi scorrevano le immagini “dell’ultimo atto di quest’ultimo atto”. Vale a dire: le sequenze – storicamente inedite, ma più che prevedibili alla luce delle più recenti cronache politiche – dell’assalto delle orde trumpiane alla monumentale sede del Congresso. Scene tragiche, non v’è dubbio. Tragiche in sé e, allo stesso tempo, tragica (ed ancora non finale) parte d’una più grande tragedia: quella della crisi della “più antica democrazia del mondo”.
Davvero difficile è, tuttavia, trovare qualcosa di realmente wagneriano, o “nibelungico”, in questo molto particolare crepuscolo della presidenza di Donald J. Trump. Come in tutti i giorni che si sono susseguiti dopo il voto del 3 novembre – e come, per molti aspetti, lungo tutti i quattro anni della presidenza Trump – a prevalere, pur sullo sfondo d’una indiscutibile tragedia, sono infatti sempre stati (e gli eventi di mercoledì sera non hanno fatto eccezione) i toni ed i crescendo della peggior opera buffa.
O, ancor più spesso – evitando il rischio di coinvolgere Mozart e Rossini in tanta bruttura – della più sgangherata commedia degli equivoci, quella che, in ogni sua parte, si nutre di flatulenze e di grevi doppi sensi sessuali. Il tipo di commedia – se state pensando al Pierino di Alvaro Vitali siete sulla strada giusta – che, a tutti gli effetti, più assomiglia a Donald J. Trump.
L’ormai ex presidente lo ha ribadito anche ieri – “We had an election that was stolen from us” queste elezioni ci sono state rubate – , mentre ridicolmente invitava a “tornare pacificamente a casa” le folle che lui stesso aveva mobilitato. Prima però di quest’ultima, inalterata (ed inalteratamente ridicola) denuncia di frode – e prima della “insurrection”, dell’insurrezione come viene troppo benignamente chiamata la truce pagliacciata sovversiva di mercoledì – molte altre ridicole cose erano accadute.
C’erano stati gli oltre 60 esposti – un paio arrivati fino alla Corte Suprema – presentati di fronte alla Giustizia dal team legale di Donald Trump, guidato da uno dei più visibili ed esilaranti protagonisti della rappresentazione: l’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani. Oltre sessanta e tutti – con una sola ed ininfluente eccezione – respinti dalle più varie corti (molte presiedute da giudici che lo stesso Trump aveva nominato) con le più varie motivazioni. Varie, ma tutte facilmente riassumibili nella seguente frase: non fateci perder tempo con queste buffonate.
Tutta la campagna anti-frode di Trump-Giuliani ha avuto, in clownesco crescendo, un semplicissimo e grottesco meccanismo “circolare”, basato, in prima istanza, su denunce di frode che, per la loro totale assenza di merito (o perché già ampiamente dimostrate false), neppure potevano essere esaminate dalla giustizia. E in seconda istanza sulla indignata lamentela per il fatto che la giustizia, parte d’una cosmica congiura, quelle denunce si fosse rifiutata di giudicare nel merito. Questo è stato il canovaccio, il comico tormentone seguendo il quale si è giunti, infine, al gran finale dell’assalto al Congresso. E davvero splendidi sono stati – in termini di sceneggiatura, ambientazione e recitazione – i siparietti lungo i quali s’è dipanata la tragicommedia.
Molti ricorderanno. Tutto era cominciato con una conferenza stampa convocata per errore, non nei lussuosi saloni del Four Season Hotel di Filadelfia, ma alla periferia della città, giusto tra un porno-shop ed una impresa di pompe funebri, nel parcheggio del Four Season Total Landscaping, un negozio di giardinaggio. E tutto, frottola dopo frottola, disfatta legale dopo disfatta legale, era finito (o era ricominciato, dato che, per l’appunto, tutto in questa vicenda è “circolare”) con un un’altra conferenza stampa dalle cronache subito ferocemente archiviata come “la conferenza dello scioglimento (melt down) di Rudy Giuliani”. Perché scioglimento? Perché nel momento cruciale della sua filippica anti-frode, Giuliani era davvero parso liquefarsi di fronte alle telecamere, allorquando un rivolo nerastro – presumibilmente la tintura per capelli – aveva cominciato, discendendo implacabile dalle basette, a rigargli le due guance.
Per quanto del tutto correttamente descritto – riecheggiando quel che Franklin Delano Roosevelt disse dopo Pearl Harbour – come “a day that will live in infamy”, un giorno destinato ad esser ricordato come un’infamia, l’assalto al Congresso non è stato, in fondo, che l’ultima scena, in ordine di tempo, di questa farsesca rappresentazione. Uno spettacolo, in realtà, molto più volgare che sovversivo del quale nella memoria storica probabilmente resteranno – come nel caso del “melt down” di Giuliani – soltanto le immagini più triviali.
Nel caso specifico: quella di Richard Barnett, il sessantenne miliziano trumpista fotografato spaparanzato nell’ufficio della presidente della House of Representatives, la democratica Nancy Pelosi, mentre, con gli stivaloni poggiati sulla scrivania, mostra al mondo un biglietto (da lui vergato) che elegantemente dice: “Nancy, Bigo (il proprio soprannome, nda) was here, you bitch”. Bigo è stato qui, cagna.
Bigo è stato qui. E qui resterà, perché tra due settimane, su questo non ci piove, Donald Trump lascerà la Casa Bianca, ma il trumpismo – un virus le cui origini sono molto più antiche di Trump – continuerà a scorrere nelle vene d’una democrazia in crisi. Pressoché l’intero partito repubblicano ha, fino al “bivacco di manipoli” consumatosi ieri, accompagnato Trump nel suo grottesco assalto alla democrazia. E i sondaggi dicono che il 39 per cento degli americani (e l’80 per cento della base repubblicana) credono alla storia della frode.
Tutto è ridicolo in questa storia. E, proprio per questo, non c’è assolutamente nulla da ridere.