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venerdì 16 giugno 2023

I giudizi spietati su Berlusconi dall'estero.

 


Imbarazzante, subdolo, "tutto in lui era falso": dal New York Times al Guardian, il ricordo del Cavaliere è lontano dall'apologia. Le critiche più comuni: portò l'Italia sull'orlo del fallimento e aprì la strada a Trump.

"Per gli economisti, è stato l'uomo che ha contribuito a far crollare l'economia italiana". Mentre "il suo approccio alla vita pubblica spesso oltraggioso, deformante e personalmente sensazionale, che divenne noto come berlusconismo, lo ha reso il politico italiano più influente dai tempi di Mussolini. Ha trasformato il Paese e ha offerto un modello di leadership diverso, che avrebbe avuto echi in Donald J. Trump e oltre". Sono alcuni estratti del ritratto di Silvio Berlusconi che il New York Times ha tratteggiato nel giorno della sua morte. Giudizi duri, che non sono isolati sulla stampa estera. Dal britannico Guardian al tedesco Spiegel, oltre a ricordare (come hanno fatto tutti) le vicissitudini giudiziarie, il Bunga bunga, i rapporti con personaggi discutibili, le gaffe con leader mondiali come Angela Merkel o Barack Obama, diversi prestigiosi quotidiani hanno tirato le somme della carriera politica del Cavaliere. Con una bocciatura solenne sul suo impatto sull'Italia. E con l'accusa di aver aperto la strada a una forma di populismo che negli Usa è stata incarnata da Trump. 

Il quotidiano belga La Libre lo ha definito un "pazzo dalla faccia tosta, senza scrupoli né morale", "abbonato alle aule dei tribunali come imputato, subdolo uomo d'affari, politico controverso e sulfureo i cui eccessi prefiguravano Trump". Lo svizzero Neue Zuercher zeitung è ancora più impietoso: "Tutto in Berlusconi era falso: il suo volto stirato e i capelli ravvivati, le sue promesse e le sue pretese, aveva anche falsi amici e complici, soprattutto mafiosi. Ma era proprio la spudorata vanteria, la sfacciata astuzia, la sconsiderata violazione della legge e della morale che evidentemente piaceva a molti italiani e a molte donne italiane. Altrimenti non avrebbero ripetutamente dotato Berlusconi del potere di governo".

Per lo Spiegel, Berlusconi è stato "il populista più pericoloso d'Italia", che "veniva deriso all'estero e trattato con il massimo rispetto" in patria. "Come presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi ha radicalmente cambiato e plasmato la cultura politica. Molti direbbero avvelenato. Ha stabilito il culto della personalità come strumento politico, ha reso onnipresente il populismo, ha dichiarato l'Europa il capro espiatorio dei difetti italiani. Ha seminato un seme che altri stanno ora raccogliendo", aggiunge il quotidiano tedesco. 

Non meno spietato il Times: "Pochi fuori dall'Italia potevano comprendere come un uomo così imbarazzante potesse essere eletto primo ministro del suo Paese tre volte tra il 1994 e il 2011, presiedendo quattro governi - scrive il prestigioso quotidiano britannico - Alla fine del suo ultimo mandato Berlusconi era diventato il premier italiano più longevo del dopoguerra e conservava alti livelli di sostegno pubblico, nonostante fosse un donnaiolo confesso che non ha mai negato di andare a letto con le prostitute - pagando solo per loro - e che ha usato apertamente il potere politico per promuovere il proprio impero commerciale.
Parte della spiegazione del suo fascino risiedeva nella sua ricchezza, stimata dalla rivista Forbes in 8 miliardi di dollari. Ciò gli permise non solo di creare un movimento politico nazionale di irriducibili fedelissimi che gli dovevano la carriera, ma anche di controllare una vasta parte dei media italiani, assicurandosi una favorevole accoglienza nel proprio Paese".

Come dicevamo, però, l'accusa 'politica' principale mossa da questi quotidiani a Berlusconi è l'aver portato l'Italia sull'orlo del fallimento: per il Times, non sono stati tanto gli scandali e le polemiche, quanto "l'incapacità di Berlusconi di proteggere l'Italia dalla tempesta che ha travolto l'euro nel 2011" a porre "fine al suo dominio di 17 anni sulla politica italiana". Quando il Cavaliere si dimise da premier nel 2011, "l'Italia era politicamente, economicamente e, non da ultimo, moralmente distrutta - scrive Neue Zuercher zeitung - Il Paese ha trovato più difficile rispetto alla maggior parte degli Stati in Europa liberarsi dal vortice della crisi finanziaria. Il cattivo stato delle istituzioni statali significava un cattivo clima per gli investimenti. La burocrazia paralizzante e la magistratura inaffidabile, unite alla corruzione dilagante, hanno impedito e tuttora ostacolano la ripresa dell'Italia. La criminalità organizzata, invece, ha potuto diffondersi sotto Berlusconi".

L'altra 'accusa' al Cavaliere è di aver inventato un modello di leadership populista che ha fatto proseliti non solo in Italia, ma in tutto il mondo: "I parallelismi con Donald Trump sono sorprendenti - scrive il Guardian - Entrambi hanno iniziato come magnati immobiliari, sono diventati star dei media e sono passati alla politica. Entrambi hanno deciso di minare le istituzioni consolidate del loro Paese, compresa la stampa e la magistratura. Respinte dalle rispettive istituzioni liberali, entrambe hanno anche risposto – nonostante la loro grande ricchezza – con la tattica populista di presentarsi come la vera voce del popolo contro un'élite fuori dal mondo e corrotta. È probabile che la sua eredità non siano i bunga bunga party, l'ostentazione e la volgarità, ma la perdita di fiducia dell'elettorato italiano nella propria classe politica – una perdita che ha portato, ironia della sorte, all'emergere di una nuova generazione di politici populisti di estrema destra molto più radicali", conclude il quotidiano britannico.

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https://www.today.it/mondo/berlusconi-giudizi-spietati-stampa-estera.html

sabato 25 marzo 2023

Studiare e lavorare all’estero,


"Studiare e lavorare all’estero, la guida completa per scegliere il Paese giusto nel 2023. State pensando di studiare all’estero? Dalle superiori fino all’università, le opportunità non mancano: Erasmus, scambi internazionali, università straniere. Tutte le informazioni utili per scegliere la destinazione giusta nella guida di 80 pagine che si può scaricare all’interno di questo articolo." (IlSole24Ore)

Quanti di noi hanno figli che lavorano all'estero? Siamo tantissimi, ormai.
E una volta varcato il confine non fanno più ritorno se non per le vacanze estive.
E non hanno torto, fuori da questo guazzabuglio che è diventato l'Italia, tutto è diverso, è come vivere in un altro mondo: un mondo dove il lavoro c'è e viene retribuito adeguatamente, dove tutto funziona quasi alla perfezione, dove hanno anche il tempo e la possibilità di godere dei frutti del lavoro svolto, perché è chiaro che non si può vivere solo di lavoro ma anche di tempo libero.
Qui non c'è neanche quello, il lavoro, e se c'è è mal retribuito;
tanto tempo fa a lavorare ci andavano solo i capofamiglia e si viveva discretamente, poi un solo introito non bastò più perchè il costo della vita era aumentato a dismisura, e a lavorare bisognava essere in due.
Fortunatamente il lavoro c'era, si trovava ed era retribuito quasi adeguatamente, ma sorgevano altre spese, ad esempio quelle di asili nido o di babysitteraggio, quindi, parte degli introiti femminili finivano li', in altri termini funzionò come il gatto che si morde la coda. Si parlò di aiuti alle donne con asili nido in seno all'azienda in cui lavoravano, ma, come sempre succede, se ne parla e basta, quindi, non se ne fece mai nulla.
Poi si paventò un aiuto alle aziende e il parlamento legiferò producendo la famigerata legge Biagi che stravolgeva il mondo del lavoro.
Da li' in poi fu il caos.

cetta

giovedì 17 dicembre 2020

Il salvavita “italiano” che noi non usiamo. - Thomas Mackinson

 

Il monocolonale Usa prodotto a Latina.

Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump. Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali, quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. Da uno stabilimento di Latina escono furgoni carichi di questi farmaci, destinati però a salvare pazienti americani, non gli italiani. È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici. “Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle. Non si spiega”, ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano. Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso: “Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti”. Il tutto a 1.000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero.

Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950mila dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania. Non l’Italia, dove si producono. Il nostro Paese ha investito su un monoclonale made in Italy promettente, ma disponibile solo fra 4-6 mesi. Scienziati molto pragmatici si chiedono perché, nel frattempo, non si usino i farmaci che già si dimostrano efficaci altrove: fin da ottobre – si scopre ora – era stata data all’Italia la possibilità di usare questi anticorpi attraverso un cosiddetto “trial clinico”, nel quale 10 mila dosi del farmaco sarebbero state proposte a titolo gratuito. Una mano dal cielo misteriosamente respinta mentre il Paese precipitava nella seconda ondata.

Il farmaco – bamlanivimab o Cov555 – è stato sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly. La sua efficacia nel ridurre carica virale, sintomi e rischio di ricovero è dimostrata da uno studio di Fase 2 randomizzato (la fase 3 è in corso) condotto negli Usa. I risultati sono stati illustrati sul prestigioso New England Journal of Medicine. Dall’headquarter di Sesto Fiorentino spiegano che l’anticorpo è stato messo in produzione prima ancora che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile.

Dal 9 novembre, quando l’Fda (l’Agenzia Usa del farmaco) ne ha autorizzato l’uso di emergenza, gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi. In Europa si aspetta il via libera dell’Ema (l’Agenzia europea) che non autorizza medicinali in fase di sviluppo. Una direttiva europea del 2001 consente, però, ai singoli Paesi Ue di procedere all’acquisto e la Germania ieri ha completato la procedura per autorizzarlo. A breve toccherà all’Ungheria. E l’Italia? Aspetta. Avendo il suo cuore europeo alle porte di Firenze, finito lo studio, la società di Indianapolis ha preso contatto con le autorità sanitarie e politiche nazionali, anche italiane.

Il 29 ottobre in riunione con l’Aifa: collegati, tra gli altri, Gianni Rezza per il ministero della Salute; Giuseppe Ippolito del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma; il professor Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta che aveva favorito il contatto con Eli Lilly. Sul tavolo, la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10 mila dosi gratuite del farmaco che negli Usa ha dimostrato di ridurre i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%. In quel contesto viene anche chiarito che non sarebbe stato un favore alla multinazionale, al contrario: una volta che l’Fda l’avesse autorizzato, sarebbero partite richieste da altri Paesi.

L’occasione, da cogliere al volo, cade nel vuoto, forse per una rigida adesione alle regole di Aifa ed Ema che non hanno però fermato la rigorosa Germania. Altra ipotesi: l’offerta è stata lasciata cadere per una scelta già fatta a monte. Sui monoclonali da marzo il governo ha investito 380 milioni per un progetto tutto italiano che fa capo alla fondazione Toscana Life Sciences (TLS), ente non profit di Siena, in collaborazione con lo Spallanzani e diretto dal luminare Rino Rappuoli. La sperimentazione clinica deve ancora partire e la produzione, salvo intoppi, inizierà solo nella primavera del 2021. A quanto risulta al Fatto, l’operazione con Eli Lilly, che già due mesi fa avrebbe permesso di salvare migliaia di persone, non sarebbe andata in porto per l’atteggiamento critico verso questi anticorpi del direttore dello Spallanzani che lavorerà al progetto senese. “Non so perché sia andata così, dovete chiedere ad Aifa”, taglia corto il direttore Giuseppe Ippolito, negando un possibile conflitto di interessi: “Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza”.

Quando Fda autorizza il farmaco, la multinazionale non può più proporre il trial gratuito, ma deve attenersi al prezzo della casa madre. Per assurdo, sfumata l’opzione a costo zero, l’Italia esprime una manifestazione ufficiale di interesse all’acquisto. Il negoziato va in scena il 16 novembre alla presenza di Arcuri, del Dg dell’Aifa Magrini e del ministro della Salute Speranza. Si parla di prezzo e di dosi, ma il negoziato si ferma.

L’Aifa e la struttura di Arcuri – sentite dal Fatto – ribadiscono: finché non c’è l’autorizzazione Ema non si va avanti. Di troppa prudenza si può anche morire, rispondono gli scienziati. “Io avrei accelerato”, dice chiaro e tondo il consulente del ministro Walter Ricciardi, presente alla riunione un mese fa: “Con tanti morti e ospedalizzati, valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale”.

Per il professor Clementi, siamo al paradosso. “È importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone. Una fiala costa poco più di un giorno di ricovero e ogni risorsa che risparmi la puoi usare per altro. Tenere nel fodero un’arma che si dimostra decisiva è incomprensibile. Da qui, la mia sollecitazione all’Aifa”.

Certo, una soluzione al 100% italiana garantirebbe autosufficienza e prelazione nell’approvvigionamento. Da Sesto Fiorentino, però, rispondono che il loro farmaco, oltre ai benefici in termini di salute e risparmio, avrebbe avuto anche ricadute economiche per l’Italia: nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina Bsp Pharmaceutical. “Se andrà bene potremmo distribuirlo non solo negli Usa, ma anche in Italia”, esultava a marzo il titolare dell’impresa pontina, Aldo Braca. Nove mesi dopo, invece, da Latina il farmaco va solo all’estero.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/17/il-salvavita-italiano-che-noi-non-usiamo/6039624/

mercoledì 13 maggio 2020

Tutto il Covid è paese. - Marco Travaglio

Burnout: patologia o patogeno?
Il proverbio “Tutto il mondo è paese” è troppo autoassolutorio: ogni cittadino ha il diritto di pretendere che (il dovere di impegnarsi perché) il proprio paese sia meglio degli altri. Però ogni tanto rende l’idea. Tre mesi fa, quando la pandemia colpì l’Europa partendo dall’Italia, tutti ci facevano i complimenti per la reazione del nostro governo e del nostro popolo (a parte i due Cazzari, che facevano il giro della stampa estera per sputtanarci in tutto il pianeta, peraltro mai creduti) e qualcuno chiedeva copia dei nostri decreti e Dpcm per copiarli. Poi il Partito Preso Divanista s’impossessò rapidamente dei media e cominciò ad accusare il governo (ma anche gli italiani) di tutto e del contrario di tutto. Dimenticando che le misure antivirus decise fin qui hanno funzionato e ci hanno portati fuori dall’emergenza, malgrado le vaccate e i sabotaggi di alcuni sindaci, sgovernatori e dirigenti sanitari incapaci, vanesii e irresponsabili, nonché della Confindustria più miope, arrogante e rapace della storia recente, con apposita stampa al seguito. Ora l’ultimo mantra è che da noi la Fase 2 è un caos, un disastro, un’apocalisse, una catastrofe, una farsa, mentre “gli altri” sono già in pieno Regno di Saturno, con balsamiche riaperture di ogni attività per grandi e piccini, tamponi e test sierologici per tutti, mascherine che piovono dal cielo, app di tracciamento garantite e sicure, il tutto gratis et amore Dei.
Il Fatto sabato e il Corriere ieri hanno pubblicato un quadro sinottico delle Fasi 2 nei vari Paesi, da cui emerge che molti sono più indietro di noi (cosa comprensibile, visto che il contagio è partito dopo) e tutti gli altri più o meno al punto nostro. Il che non assolve il nostro governo per gli errori e i ritardi (quelli veri, non quelli inventati). Né i governi stranieri che han fatto peggio di noi (le riaperture premature della Germania con rialzo dei contagi, i disastri di Boris Johnson e della Svezia, che si è semplicemente scordata di imporre il lockdown e ora conta i morti a carrettate). Ma dimostra che le incertezze, le prudenze, gli stop and go e i divieti in apparenza assurdi non dipendono dalla prava volontà di questo o quel governo, ma dai connotati di una pandemia ancora in gran parte sconosciuta, che impone a tutti di andare per gradi, anzi per tentativi, e di navigare a vista. Tutti a scompisciarsi per la regola dei “congiunti”, termine abbastanza generico per includere parenti, fidanzati e partner delle coppie di fatto, ma per escludere amici e conoscenti. E ora si scopre che lo stesso problema se lo son posto dappertutto, ma l’han risolto con soluzioni anche più comiche della nostra.
Il Belgio, per estendere gli incontri consentiti agli amici, ma non a troppi, impone a ogni coppia di indicare nell’autocertificazione al massimo altre due coppie, anche spaiate, cioè formate da single (anche ignoti l’uno all’altro). Il problema si pone quando una coppia ne sceglie altre due e una di queste, o un membro di una delle due, non sceglie la prima o la seconda, allargando il numero massimo di 6 a chissà quanti. Un casino che fa rimpiangere i congiunti. Londra: il ministro degli Esteri Dominic Raab dice in tv che i figli possono incontrare entrambi i genitori, ma a patto di non essere mai più di due. Poi gli fanno notare che, essendo i genitori notoriamente due, il figlio che li incontra porta il totale inequivocabilmente a tre. Quanto agli amici, se ne può vedere uno, ma all’aperto e a due metri di distanza: il governo suggerisce le estremità di una panchina, almeno per chi parla forte. E le scuole? Non avevano riaperto dappertutto fuorché qui? Col cavolo. Il governo francese ha già dato una dozzina di indicazioni diverse. L’ultima è che riaprono su base volontaria, cioè per gli insegnanti e gli studenti che vogliono. Non male. In Belgio riaprono tutte le scuole, ma solo a 10 studenti per aula, gli altri a casa (sarà colpa dell’Azzolina). In Germania le classi iniziali e finali dei vari cicli, ma non le elementari e solo in pochi Land. In Olanda solo le elementari. In Spagna, Irlanda e Romania nessuna.
E il lavoro? Non l’avevano ripreso tutti tranne noi, poveri pirla? Domenica Johnson annuncia che lunedì riaprono fabbriche e cantieri, così l’altroieri mattina i lavoratori escono di casa, ma mentre sono per strada arriva il contrordine: il governo s’è scordato le linee guida per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Che sarà mai. Tutti a casa, ci si riprova oggi, sempreché si abbia tempo di adeguarsi alle regole fatte ieri. E le app? Non sono partite da nessuna parte, salvo qualche sperimentazione locale, con mille problemi tecnici e di privacy. Le mascherine non bastano quasi ovunque, e molte sono irregolari, difettose e supercostose, tant’è che nessuno le ha ancora rese obbligatorie per tutti. Mille problemi anche per tamponi e test. Portogallo a parte, di geni in giro non se ne vedono. E, date le condizioni di partenza dell’Italietta inefficiente e iperburocratica, poteva andarci molto peggio: sarebbe bastato che Conte&C., anziché agli scienziati, avessero dato retta a cazzari, sgovernatori, Confindustria e Partito Preso Divanista. Lo diciamo dal primo giorno: questo è il peggior governo possibile, eccettuati tutti gli altri. Quindi Pd e 5Stelle la piantino di litigare prima che arrivi il peggio del peggio.

sabato 29 dicembre 2018

"Ci date dei 'bamboccioni' ma non sapete nulla di noi: ecco come viviamo noi, giovani italiani all'estero". - Ilaria Betti



Intervista a Carlotta Ballarini, 28 anni, pesarese da quattro anni in Germania, che su Facebook ha scritto un duro post: "La gente non sa niente di noi".


"A tutti quei politici e non che si sono permessi di dare a noi ragazzi italiani dei 'bamboccioni' o a quelli che si sono permessi di dire che quei ragazzi che vanno all'estero non sono da considerare italiani, ecco, a voi mostro questa foto". Inizia così il post che Carlotta Ballarini, 28 anni, di Pesaro ma da quattro anni in Germania per svolgere la professione di infermiera, ha scritto su Facebook. Il suo è un attacco a chi giudica superficialmente i giovani all'estero, a chi non conosce nulla delle loro difficoltà, della gavetta che sono costretti a fare. A chi spesso ignora i risultati di quella fatica: "All'estero c'è una cosa che si chiama meritocrazia e adesso sono con la mia amica Fanny e facciamo la notte in Cardiologia con 36 pazienti e un posto a stipendio fisso e contratto indeterminato, naturalmente", si legge sotto la foto delle due.
"Voi che siete così grandi lo sapete cosa vuol dire essere lontani dalla propria famiglia? Dalla propria casa? Dagli amici? Imparare una lingua da zero? - recita ancora il post -. Lo sapete cosa si prova quando i genitori ti chiamano su Skype per comunicarti tutto quello che succede, e tu non puoi toccarli? Lo sapete che anche i lutti si comunicano via Skype? Lo sapete che noi bamboccioni, choosy, figli di papà dobbiamo avere sempre un deposito di soldi per le emergenze, perché beh, se succede qualcosa devi essere pronto a prendere il primo volo che c'è? Non sapete niente voi, perché siete ignoranti e non sapete niente di come si vive lottando". Perché di lotta si tratta - ha confermato Carlotta ad HuffPost.
Cosa ti ha spinto a scrivere questo post?
"Sono a Berlino da quattro anni e vedere tutto quello che succede in Italia è avvilente. Molti miei amici fanno lavori stagionali, sono ancora in attesa di un contratto o di un lavoro e questo mi fa rabbia. Io sono andata via in cerca di un futuro migliore: se avessi potuto, sarei rimasta volentieri nel mio Paese, anche perché i primi mesi qui sono stati di pianti. Spesso si sottovaluta quanto sia dura la scelta di andare all'estero: ecco perché ho scritto il post".
Perché hai scelto di lasciare l'Italia?
"Sono partita a 24 anni, senza prospettive, con un biglietto di sola andata. Mi ero laureata in infermieristica da due anni: ho aspettato, quindi, prima di partire, ho mandato curriculum, ho fatto concorsi, ho fatto anche quattro lavori insieme prima di arrivare a prendere quella decisione. Vivevo ancora con i miei genitori, non volevo gravare su di loro, così la mia scelta è stata quasi obbligata: ho passato tre mesi con il biglietto aereo in mano e posso assicurare che sono stati mesi pesanti. Si è costretti a salutare la propria famiglia, senza sapere quando la si vedrà di nuovo: io sono tornata la prima volta dopo otto mesi".
Qual è il tuo primo ricordo a Berlino?
"Il primo ricordo è quello di me in un ostello. Il primo mese che ho passato a Berlino l'ho trascorso lì: facevo le pulizie, pulivo le camere, mi sono presa anche le pulci. Non avevo mai studiato tedesco, non capivo quasi nulla, ma mi sono rimboccata le maniche: lavoravo e facevo quattro ore di scuola di lingua al giorno. Sono andata avanti così per tutto il primo anno finché ho raggiunto il livello B1. Poi ho trovato un altro impiego in una casa di riposo, come aiuto infermiera. Dal momento che per avere il riconoscimento della laurea serviva il livello B2, ho continuato a studiare: appena raggiunta la certificazione di lingua, sono stata assunta in un ospedale vero e proprio, prima in gastroenterologia, poi in cardiologia".
Sei soddisfatta della tua posizione lavorativa ora?
"Ora ho un contratto a tempo indeterminato. Ma, a dir la verità, anche quando lavoravo in ostello avevo un contratto del genere: prendevo 990 euro al mese per lavorare quattro giorni. Qui funziona così: la vita che conduci e lo stipendio che ricevi sono equiparati. E se non lo sono - se, ad esempio, hai figli o ti servono soldi - puoi chiedere aiuti sociali. In Italia, invece, ci sono delle situazioni famigliari davvero pesanti: basti pensare ad alcuni anziani, che sono costretti a sopravvivere con 400 euro al mese".
Ti manca l'Italia?
"Mi è sempre mancata e mi manca tutti i giorni. Mi manca la mia famiglia, mi manca il cibo, mi manca la mia lingua".
Qual è il messaggio che vorresti trasmettere?
"Voglio ribadire che tante delle cose che sono state dette sui ragazzi all'estero non sono vere: la scelta di lasciare la propria famiglia è una scelta estrema. Tutti noi abbiamo lasciato il nostro cuore in Italia, insieme ai nostri genitori, ai nostri fratelli e sentirci dare dei bamboccioni, dei buoni a nulla fa male. Tutto quello che ho ora me lo sono sudato: i miei genitori mi hanno supportata sempre, ma la mia situazione economica me la sono gestita da sola. Mi piacerebbe che la mia storia fosse d'incoraggiamento a tutti quei giovani che desiderano costruirsi un futuro solido, in Italia o altrove: vorrei dire loro che con un po' di coraggio e tanta forza di volontà tutto è possibile".

domenica 12 giugno 2016

Siamo tutti fatti di stelle. - Luisa Alessio

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Durante la vita di una stella c’è continuo ricambio di elementi chimici: più ce ne sono più è giovane. Quelle povere di metalli sono invece molto vecchie, le più vicine al Big Bang, e ci aiutano a capire l’origine dell’universo.

RICERCANDO ALL’ESTERO – “Siamo qui a parlare grazie al contributo di 14 miliardi di evoluzione stellare, perché generazioni di stelle hanno prodotto tutti gli elementi chimici di cui c’era bisogno. Il carbonio è importante per ovvie ragioni, non ci sarebbe stata la vita altrimenti; lo stesso vale per il silicio di cui sono fatti i nostri computer e per tutti gli altri elementi che hanno reso la Terra il pianeta che conosciamo. Studiare l’evoluzione chimica dell’universo significa studiare perché siamo qua”.
Nome: Carlo Abate
Età:
 31 anni
Nato a: Trieste
Vivo a: Bonn (Germania)
Dottorato in: Astrofisica (Nijmegen, Paesi Bassi)
Ricerca: Formazione ed evoluzione delle stelle ricche in carbonio (CEMP).
Istituto: Sterrenkunding Instituut (Utrecht), Radboud University (Nijmegen), Argelander-Institut für Astronomie (Bonn)
Interessi: andare in bicicletta, camminare, ballare la salsa, suonare la chitarra, la musica di Bruce Springsteen.
Di Bonn mi piace: le colline dove passeggiare e il Reno.
Di Bonn non mi piace: non ha il mare.
Pensiero: If you wish to make an apple pie from scratch, you must first invent the universe (Carl Sagan, Cosmos 1980)
Che cosa sono le stelle CEMP e perché sono importanti?
L’acronimo sta per stelle Carbon-Enhanced Metal Poor, cioè stelle povere di metalli ma particolarmente ricche in carbonio. In astronomia chiamiamo metalli tutti gli elementi che non sono idrogeno ed elio.
Una stella si forma da una nube di gas dotata di una certa composizione chimica. Per le prime stelle, il gas conteneva quasi esclusivamente idrogeno e una minuscola percentuale di altri elementi. Il resto dei metalli possono derivare dalle reazioni nucleari che si verificano durante la vita di una stella. Alla sua morte, i vari elementi vengono rilasciati nel mezzo interstellare e da questa nube di gas possono nascere altre stelle. Quindi più una stella è povera di metalli più è vecchia, perché si è formata all’interno di un gas molto simile a quello primordiale, al momento del Big Bang. Invece più una stella è ricca in metalli, più la sua formazione è recente.
Studiare le stelle povere di metalli, perciò, vuol dire studiare le prime generazioni di stelle, quelle che si sono formate all’inizio. Idealmente vorremmo analizzare proprio le prime, ma sono stelle molto rare, anzi per il momento forse non ne è stata osservata nemmeno una. Questo perché una stella vive un tempo limitato e ha una certa quantità di idrogeno che brucia durante la sua vita: più grande è la stella, più velocemente brucia idrogeno. Una stella nata 14 miliardi di anni fa, poco dopo il Big Bang, e viva ancora adesso, è una stella molto piccola e molto poco luminosa che perciò non riusciamo a vedere. Le stelle che riusciamo a osservare sono quelle di seconda generazione, la cui composizione chimica è l’impronta della generazione precedente. Queste sono le stelle della mia ricerca.
Quali sono le più vecchie stelle osservate? 
Di recente è stata osservata una stella senza ferro, elemento relativamente facile da analizzare perché ha uno spettro di assorbimento molto caratteristico. In questo studio le bande di assorbimento del ferro erano talmente deboli che i ricercatori non sono riusciti a misurarle ma solo a stabilire un limite di concentrazione. Nella stella della ricerca l’abbondanza di ferro è 10 milioni di volte minore rispetto a quella che c’è nel Sole, cioè praticamente zero. Però è una stella sola. E con una non si fa molto.
Come si sono formate le stelle CEMP? 
Ci sono diverse teorie. In genere, le stelle di popolazione 2 hanno una quantità di ferro circa 100-1000 volte inferiore rispetto al Sole e ci si aspettava che tutta la loro composizione chimica variasse di conseguenza. La quantità dei metalli in una stella, infatti, dovrebbe scalare in maniera più o meno uguale in rapporto al ferro e a confronto con quella del sole.
Questo vale per il 90% delle stelle. C’è un certo numero di stelle, tra cui le CEMP, che si comporta in modo diverso. In particolare, nelle stelle CEMP il rapporto di abbondanza chimica carbonio/ferro è 10 volte maggiore rispetto al Sole.
Il punto ora è capire da dove viene tutto questo carbonio. Una delle possibili spiegazioni è considerare un sistema binario di stelle, in cui uno dei due oggetti produce carbonio e lo rilascia all’esterno durante le fasi finali della vita, sotto forma di vento stellare. La seconda stella, trovandosi nell’ambiente circostante, può raccogliere parte del carbonio espulso. Di fatto non vediamo un sistema binario, perché la prima stella, quella che ha prodotto il carbonio, una volta concluso il suo ciclo è diventata una nana bianca, molto piccola, poco luminosa e invisibile. Quella che vediamo è una stella con una composizione chimica che non si spiega attraverso il classico modello di evoluzione stellare.
Nella mia ricerca ho studiato le varie parti di questo sistema binario. Ci sono molti meccanismi che ancora non conosciamo: per esempio, non sappiamo esattamente come funziona il trasferimento di massa da una stella all’altra o qual è la fase in cui una stella può produrre il carbonio e gli altri elementi osservati nelle CEMP. O quali sono le caratteristiche della popolazione originaria, quante sono binarie, quanto sono distanti tra loro le varie coppie, quanto sono grandi.
Come si possono studiare le CEMP?
Esistono diversi modelli per descrivere le CEMP, molti sono da testare, alcuni sono troppo complicati e in ogni caso trovare una stella esattamente in questa fase non è facile. Ricordiamoci che si tratta di una popolazione molto vecchia di stelle, quelle più grandi sono morte da miliardi di anni e quelle che riusciamo a osservare sono le ultime superstiti.
La mia ricerca è partita da un modello già esistente, usato per studiare il trasferimento di massa da una stella più grande a una più piccola attraverso il vento stellare. Il modello originario però faceva simulazioni troppo complesse, richiedeva tempi di calcolo troppo lunghi e descriveva il comportamento di pochissime stelle. Ho perciò provato a semplificarlo per aumentare il numero di sistemi che si potevano studiare e ho effettivamente messo a punto un meccanismo che funziona abbastanza bene. Almeno per le CEMP. Certo, ci sono una marea di altri problemi che devono ancora essere risolti. Ma ci stiamo avvicinando.
Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
Sicuramente migliorare il modello sul trasferimento di energia e cercare di capire cosa viene davvero prodotto, in termini di elementi chimici, dalla stella che non vediamo nel sistema binario. Quindi stiamo facendo studi di evoluzione stellare per capire quali sono le condizioni fisiche all’interno di una stella nelle fasi finali della sua evoluzione.