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sabato 19 settembre 2020

“Ecco perché molte ragioni del No non stanno in piedi”. - Silvia Truzzi

 


L’Intervista a Gustavo Zagrebelsky. Il professore “Dopo la riduzione dei seggi cosa vieta di mettere mano al bicameralismo paritario differenziandone le funzioni?”

Il 23 agosto su Repubblica, Gustavo Zagrebelsky ha concluso così un suo articolo sul referendum: “Alla fine si deciderà per ragioni che hanno poco a che fare con quelle propriamente costituzionali: fare un favore a questo o un dispetto a quello; rafforzare un partito rispetto ad altri; consolidare la maggioranza o indebolirla; mettere in difficoltà una dirigenza di partito per indurla a cambiare rotta e, magari, a cambiare governo o formula di governo”.

Ma sono motivi sensati per votare Sì o No a una riforma, per quanto piccola e puntuale, della Costituzione?

“Ha ragione nel dire che siamo chiamati a votare su una questione specifica, non su altre. I cittadini devono sentirsi liberi di votare indipendentemente dalle indicazioni e dalle prospettive politiche dei partiti. I referendum, abrogativi o costituzionali che siano, sono fatti per questo. Non sono elezioni. Per come si sono messe le cose in questa occasione, ma anche nelle due precedenti, sembra invece che si sia chiamati a votare la fiducia ai promotori o agli oppositori. Il voto sembra interessare non la modifica costituzionale, ma le prospettive politiche, che oltretutto sono nelle mani di un futuro d’incertezze. Per sgonfiare le speculazioni politiche sul voto referendario e restituirgli il suo significato di atto di libertà non pregiudicato dai giochi di partito, ci sarebbe stato un modo semplicissimo: dire fin dall’inizio che l’esito del referendum non avrebbe avuto alcuna conseguenza sulla vita del governo”.

Professore, come spiega il cambio di rotta di molti parlamentari? La riforma è stata votata, in ultima lettura, con una maggioranza bulgara. I cittadini possono avere fiducia in persone che cambiano opinione tanto facilmente?

La coerenza e la connessa fiducia non albergano nelle stanze della politica. Valgono le convenienze e le tattiche, cioè i calcoli secondo le mutevoli circostanze. In politica, fidarsi è forse bene, ma non fidarsi è certamente meglio. Per questo, è bene non farsi mettere nel sacco.

Ad esempio?

Il “taglio” dei parlamentari sarebbe malfatto perché “lineare”. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Premesso che non mi piace sentire il linguaggio triviale di chi parla di tagli di poltrone, mi vien da dire: meglio forse un taglio cubico o sferico?

Parliamo di cose serie. È vero che con meno deputati e senatori ci sarà un vulnus di rappresentanza?

Riducendo i numeri, si alza implicitamente la soglia per accedere al seggio parlamentare. Ciò crea difficoltà per i piccoli partiti e porta con sé un effetto maggioritario. Questo è un argomento serio, ma non necessariamente a favore del No. Dipende da quel che si pensa in tema di rappresentanza politica. I piccoli e piccolissimi partiti sono un bene o un male per la democrazia? Non abbiamo detto negli ultimi lustri che sono una complicazione e che meglio sarebbe la semplificazione? Semplificare non vuol dire annullare, ma promuovere confluenze e concentrazioni in gruppi più vasti con i quali esistano affinità.

C’è poi un argomento, sostenuto dal fronte del No, che bisogna chiarire: la rappresentanza dei territori.

I deputati e i senatori non sono i rappresentanti dei territori. Questa idea è una reminiscenza d’un tempo antico, l’Antico Regime. Lei ricorda certamente che cosa era la rappresentanza agli Stati generali riuniti a Versailles nel 1789. Se insistiamo sulla rappresentanza dei “territori” (qualunque cosa questa parola suggestiva voglia dire), ritorniamo a una concezione pre-democratica e corporativa, ai cahiers de doléance e ai baillages, le circoscrizioni feudali amministrative e giudiziarie nelle mani dei “balivi” o – come disse un tempo Massimo D’Alema – dei “cacicchi” locali. La rappresentanza territoriale significa oggi soprattutto favorire i faccendieri locali che dispongono di pacchetti di voti clientelari, i lobbisti che intrallazzano a Roma.

I territori e le loro esigenze non hanno da avere rappresentanza?

Al contrario. Ma devono esprimersi politicamente. Sottolineo: politicamente. I deputati e i senatori “rappresentano la Nazione senza vincolo di mandato”. Non lo dice solo la Costituzione, ma lo dice la concezione moderna della politica come cura di interessi generali. Per esempio, lei sa che se si ha “sul territorio” il proprio rappresentante nella politica centrale (parlamentare, ministro, sotto-ministro, ecc.) è facile farsi costruire la strada o l’autostrada che interessa in loco (pensi all’autostrada Voltri-Gattico-Sempione), oppure promuovere l’assunzione di schiere di dipendenti nelle amministrazioni locali (pensi ai postini in Abruzzo, regno d’un famoso ministro delle Poste). Questo è caciccato. Diversa è la gestione dei trasporti o dell’impiego pubblico all’interno di una visione generale nella quale anche le esigenze locali possono trovare il loro giusto spazio. Questa è la rappresentanza politica.

Lorenza Carlassare ha scritto che la legge elettorale ideale è fatta così: proporzionale con soglia di sbarramento non superiore al 3% senza liste bloccate e pluri-candidature. Ma poi che fine fa la governabilità?

La governabilità – parola truffaldina: ne abbiamo parlato più volte – dipende dalla struttura del sistema politico, molto meno dal sistema elettorale. Ne abbiamo avuto la riprova pratica con le riforme degli anni 90 che miravano, per l’appunto, a costruire solide maggioranze di governo come effetto di leggi elettorali. È andata così?

Quindi la legge elettorale ha poca importanza?

Nient’affatto. Ne ha poca per la governabilità, ma ne ha molta per altri importanti aspetti. Come tutte le leggi, anche questa deve ispirarsi a un qualche concetto di giustizia, di giustizia elettorale. Mescolare elementi contraddittori, un po’ di proporzionale e un po’ di maggioritario, liste e candidature singole, liste bloccate e preferenze, voto congiunto e disgiunto, eccetera, può incontrare l’interesse di questo o quel partito, ma non degli elettori che alla fine non ne capiscono più nulla. Lo stesso Parlamento risulta un guazzabuglio di legittimazioni diverse. Insomma: il primo requisito d’una buona legge elettorale è la chiarezza nella quale l’elettore possa ritrovarsi facilmente.

E dell’idea della professoressa Carlassare?

Francamente, tra proporzionale e uninominale a doppio turno, sono incerto. Di primo acchito, sarei per la proporzionale con qualche ragionevole sbarramento. Di secondo acchito, mi rendo conto dei pregi, ma anche dei difetti delle liste con preferenze. Insomma, sospendo il giudizio. L’unica cosa è che, una volta scelta la legge elettorale, non la si modifichi tutti i momenti, secondo le occorrenze e le convenienze.

Si discute molto sul modo di migliorare la qualità della rappresentanza.

È il grande tema che dovrebbe occupare il dibattito pubblico, infinitamente più importante della quantità della rappresentanza. Bisognerebbe incominciare con l’abbandono della falsa visione della democrazia di coloro che dicono: siccome siamo un Paese intaccato dalla corruzione, non possiamo stupirci che anche la corruzione venga rappresentata in Parlamento, sulla base dell’assunto che le Camere sono lo specchio del Paese. Una posizione smaccatamente giustificazionista del peggio. Nella vecchia tradizione costituzionale, si diceva che il Parlamento dovrebbe rappresentare il meglio del Paese. Se è il contrario, possiamo stupirci del discredito dell’istituzione parlamentare, discredito diffuso non solo tra gli antiparlamentaristi per principio, ma anche tra tante persone, diciamo così, “perbene” democraticamente parlando.

Secondo alcuni è grave che non siano state contestualmente corrette le maggioranze per l’elezione del presidente della Repubblica: così, dicono, i delegati delle Regioni peseranno troppo (passano dal 6 al 10 per cento circa).

L’aumento del peso dei delegati delle Regioni è semplicemente un effetto indotto della riforma. Non mi pare un aspetto di chissà quale importanza. Nell’elezione del presidente della Repubblica i delegati regionali hanno sempre svolto un ruolo trascurabile. Ciò che conta è l’appartenenza partitica, che non fa differenza, che si sia parlamentari o delegati dei consigli regionali. Piuttosto, c’è un aspetto politico, in presenza di un’avanzata della destra nelle regioni. Questa avanzata può attribuire un peso maggiore a quei partiti nell’elezione presidenziale. Ma è questione tutta politica, non costituzionale.

Un altro grande argomento a sostegno del No è che ad accompagnare questa piccola modifica non ci sia una grande riforma, a iniziare dal bicameralismo paritario. Che ne pensa?

Non si era detto, dopo la débâcle delle due gradi riforme del 2006 e del 2016, “d’ora in poi solo modifiche puntuali della Costituzione”? E comunque: siamo di fronte all’ennesimo argomento specioso. Mi spiego: tutti i precedenti progetti di revisione della forma di governo prevedevano una riduzione del numero dei parlamentari. Ma se si procede per ora su questo punto, che cosa vieta che, dopo, si metta mano al bicameralismo paritario? Il meno, che è già qualcosa, impedisce un più. Dove sta la logica?

Lei è favorevole a ritoccare il bicameralismo, vero?

Sono favorevole al mantenimento di due Camere, differenziate per composizione, procedure e funzioni. Naturalmente non a quel pasticcio, che è stato sventato con il referendum di quattro anni fa. L’ho anche scritto, con proposte che si sono perdute in un bailamme.

Con il Sì verrà rafforzato l’esecutivo a discapito del Parlamento?

E perché mai?

Alcuni sostengono che la scelta del Sì rafforza i sentimenti, perniciosi, dell’antipolitica.

Anche questa obiezione mi pare una sciocchezza. Se i sentimenti antipolitici e antiparlamentari ci sono – e ci sono – non è che la prevalenza del Sì li rafforzerebbe. Semplicemente a loro darebbe espressione e costringerebbe i partiti a prenderne atto e ad agire di conseguenza per neutralizzare i fattori che l’antipolitica alimenta e che, assai spesso, dipendono da loro. Il referendum è semplicemente una conta numerica che serve a dare l’immagine di ciò che c’è nella nostra società. Far finta di niente, come per anni s’è fatto, è solo politica dello struzzo. Non è che con il No quei sentimenti si indebolirebbero. Semmai, il contrario. Poi, è chiaro che una netta vittoria del Sì con il Movimento 5 stelle che da solo si è mobilitato per quel risultato giustificherebbe che se la intestasse come un proprio successo politico. Insomma, paradossalmente il No di chi vuol dare una lezione al Movimento 5 Stelle rischia di provocare un effetto boomerang: noi soli contro tanti, direbbero, l’abbiamo voluta e abbiamo vinto.

Ma quindi lei alla fine come voterà?

Secondo lei?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/19/ecco-perche-molte-ragioni-del-no-non-stanno-in-piedi/5936652/

mercoledì 16 settembre 2020

La paura fa 90: tutti i nominati sperano nel “No”. - Giacomo Salvini

 


Trasversali I capponi a Natale.

Salvaguardare la rappresentanza, tutelare il Parlamento rispetto al governo ma soprattutto difendere la Costituzione contro un’ipotetica “deriva autoritaria”. Ma dietro alle ragioni nobilissime del No di molti costituzionalisti al referendum sul taglio di 345 eletti – per la maggior parte dei casi infondate – c’è un altro motivo, molto più concreto, che spinge un folto gruppo dei parlamentari, da destra a sinistra, a fare campagna contro la riforma: salvare la propria poltrona. La maggior parte di loro, infatti, nel 2018 è stata eletta grazie ai listini bloccati dei collegi plurinominali previsti dal Rosatellum e quindi la loro elezione non è il frutto di preferenze personali o della vittoria in un collegio uninominale ma dai voti raccolti dal proprio partito: per questo, in caso di vittoria del Sì e di riduzione dei parlamentari, alle prossime elezioni rischiano di non essere rieletti. Per non fare la stessa fine del cappone a natale quindi si schierano per il No al taglio di un terzo dei parlamentari.

Prima di tutto ci sono quelli che sono stati candidati direttamente nei listini bloccati senza farli correre nei collegi uninominali. A sinistra c’è l’ex dalemiano Matteo Orfini e Luigi Zanda eletti nel collegio Lazio 1, il renziano tra i promotori del referendum Tommaso Nanncini candidato al Senato nel collegio Lombardia 3, mentre nel centrodestra tra i fautori più agguerriti del No c’è il senatore Lucio Malan eletto nel listino bloccato Piemonte 1 e molti leghisti: Claudio Borghi nel collegio Toscana 2, Guglielmo Picchi nel Toscana 1 e Paolo Grimoldi e Massimiliano Capitanio in Lombardia. Qualche fautore del No emerge anche tra i 5 Stelle: Andra Vallascas è stato eletto deputato nel 2018 nel collegio Sardegna 3 e Marinella Pacifico nel Lazio 3. Poi ci sono i deputati e i senatori che hanno ottenuto lo stesso la poltrona nonostante siano stati trombati dagli elettori nei rispettivi collegi uninominali perché recuperati nelle liste bloccate. Tra questi ci sono anche molti volti noti come il deputato di Forza Italia Vittorio Sgarbi che nel 2018 perse nel confronto con Luigi Di Maio nel collegio uninominale Campania 1 ed eletto lo stesso grazie al listino dell’Emilia Romagna. Poi l’attuale ministra dell’Agricoltura di Italia Viva Teresa Bellanova, arrivata addirittura terza dopo Barbara Lezzi (M5S) e Luciano Cariddi (Lega) nel collegio uninominale in Puglia e ripescata al Senato anche lei grazie alla generosa Emilia. Stesso discorso per il leghista Alberto Bagnai, sconfitto da Matteo Renzi in Toscana, Pietro Grasso e Gianluigi Paragone.

Ma al comitato del No non bastavano i dinosauri della politica – da Paolo Cirino Pomicino a Pierferdinando Casini – ai pregiudicati come Roberto Formigoni o Silvio Berlusconi. Nelle ultime ore si sono aggiunti due sostenitori di peso: il finanziere renziano Davide Serra e il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana. Il primo lo ha annunciato al Foglio dopo essere tornato in Italia dopo anni a Londra in cui gestiva la sua holding Algebris con sede alle Cayman: questa riforma, ha detto, “toglie spazio alla società civile” per mettere “schiavi di partito” rendendoli “dipendenti più che dei parlamentari (di fatto violando la Costituzione)”. Il governatore Fontana invece è andato dietro a Giancarlo Giorgetti sul No: “Non si può fare un taglio senza altre riforme – ha detto sabato – è improponibile”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/16/la-paura-fa-90-tutti-i-nominati-sperano-nel-no/5932991/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-09-16

sabato 3 dicembre 2016

Dieci volte No. - Corradino Mineo

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No, No, No e ancora No a questa barbarie. Ecco i titoli dei giornali: “Assedio a Renzi”, la Stampa, che aggiunge: “Renzi contro tutti. Dunque la riforma è già bocciata visto che è la riforma di uno solo? Di che parliamo! “Renzi - Grillo il rush finale”, Repubblica. Allora votiamo per il governo, Pd o 5 Stelle, domani scegliamo il premier? Il Corriere torna a Palazzo Grazioli, da Berlusconi, il quale evoca “brogli della sinistra”.”Sfida finale sugli italiani all’estero”. È impazzito? “ In realtà ad evocare questa schifezza è stato proprio il premier: “quel 3% di voti (per corrispondenza, non necessariamente segreti) può cambiare tutto!” Alcuni suoi zelanti corifei hanno divulgato un un sondaggio (violando la legge?) che attribuirebbe 500mila Sì in più dentro quei mille sacchi. Insomma la Renzi&Company potrebbe ancora vincere, grazie alla madonna pellegrina Maria Elena e a qualche console che con la scheda ha mandato agli elettori dell’estero la letterima del premier (pare però con buste e bolli pagati dal partito di cui è segretario) che intimava di votar Sì.Per il bene d’Italia, si capisce. “Mille sacchi di voti dall’estero, l’hangar dove può cambiare tutto!” fa eco la Stampa. Del Rio, invece, fa pesare sugli elettori la minaccia del grande abbandono: “Se vince il No, Renzi andrà al Colle”. Si dimetterà. “Se invece vinco”, fa eco Lui, “non ci saranno elezioni anticipate”. Perché che fa, se perdi sciogli tu le Camere? A Torino Grillo corteggia la sconfitta: “Fallire è poesia più forti se perderemo”. Ti credo, se vince il No Renzi è probabile che Matteo non riesca a cambiare la legge elettorale su cui aveva posto tre volte la fiducia (Silvio non gli farà questo dono) e al ballottaggio saranno i 5 Stelle a espugnare il Palazzo.
Si supera il bicameralismo? No. Resta per le leggi elettorali, costituzionali ed europee. I consiglieri e sindaci senatori potranno “richiamare” persino le leggi economiche e di bilancio, facendo perdere tempo. Con la riforma, il bicameralismo da paritario diventa confuso.
Nasce il Senato delle Autonomie? No. I senatori saranno scelti e voteranno secondo logiche di partito, non rappresenteranno gli interessi delle loro regioni. Le quali perdono, con la riforma, poteri politici e restando centri di spesa, enti amministrativi.
Cambia solo la seconda parte della Costituzione? No. La riforma maltratta organi di garanzia. Ben 2 giudici della Consulta saranno eletti da 100 consiglieri con immunità. Per il Capo dello Stato, basterà un quorum dei presenti, non più degli aventi diritto al voto.
La legge elettorale non c’entra con la riforma? No. Se si passa da due a una sola Camera eletta dal popolo, quella camera dovrebbe rappresentare tutte le cultura, ogni sorta di elettore. I tedeschi, che hanno un Senato delle regioni, eleggono il Bundestag con la proporzionale. Renzi pretende fare eleggere, con il 30% dei voti, il 54% dei deputati.
Si cambia la Costituzione rispettando la Costituzione? No. L’Articolo 138 serve per rivedere, in modo puntuale, la carta, non per mutarne in un colpo 47 articoli. Il referendum dovrebbe prevedere un quesito semplice, che dia senso al Sì o al No. Domenica voteremo alla cieca su senato, regioni, referendum, leggi d’iniziatica popolare, organi di garanzia.
È da 70 anni, come dice Renzi, che si parla di riforma? No. 70 anni fa, nel 1946 si era appena votato per la Repubblica e la Carta non era stata scritta. Di riforma “bonapartista” comincò a parlarne la destra, perché non riesciva a sbarazzarsi del 68 e dell’autunno caldo.
Il bicameralismo ha trasformato l’Italia in una tartaruga nel far le leggi? No. Siamo velocissimi, solo che fabbrichiamo leggi imposte dal governo, frettolose e scritte male. Ne servirebbero poche e ordinative, il governo dovrebbe applicarle, il parlamento controllare.
È vero che se vince il No arriveranno fulmini da Europa e Mercati? No. Dopo Trump e la Brexit l’Europa non può permettersi di perdere l’Italia: gli stessi “favori” che han fatto al Renzi I, li farebbero al Renzi-bis o a un governo Del Rio, se Matteo si ritirasse sotto la tenda del Pd. I mercati giocherebbero un paio di giorni col nostro debito. Poi basta.
Tutte le democrazie hanno leggi maggioritarie come l’Italicum? No. Quella tedesca è proporzionale (come ora la vorrebbe per l’Italia Silvio) quella spagnola somiglia alla proposta dei 5 Stelle. Sistemi maggioritari ormai obsoleti hanno favorito la vittoria di Trump, la Brexit e ridurranno il confronto in Francia tra una destra ultra liberista e una fascista.
Il fronte del No è un’accozzaglia indecente? No. Perché le costituzioni si votano insieme, destre sinistre e 5 Stelle. È trasformista chi governa senza mandato popolare, con Alfano e Verdini, uomini del Pdl, con cui avevamo promesso agli elettori di non governare.