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domenica 13 giugno 2021

Mario è Grande e traccia il solco: per la stampa è sempre capolavoro. - Tommaso Rodano

 

Ripresa, Covid, Nato… - Comunque ci pensa lui. il summit inglese raccontato in modo poco british.

A leggere le cronache della stampa italiana, sempre attenta e generosa con l’immenso Super Mario, doveva essere un vertice bilaterale che per poco non riscriveva i confini degli equilibri geopolitici nell’area Nato. L’incontro col presidente americano Joe Biden era stato anticipato e infiocchettato con grandi titoloni gonfi d’enfasi e ammirazione: “Draghi fa asse con Biden”, “Draghi apre il vertice dei Grandi”, “Draghi indica la strada”, “Draghi con l’Occidente”. Insomma Mario mostra la via dell’uscita dalla crisi al resto del pianeta; e poi Mario e Joe s’intendono alla grande, Mario e Joe sfidano Pechino, Mario e Joe giocano a canasta e bevono amaro del capo mentre decidono le sorti del mondo.

La cronaca del giorno dopo ovviamente è molto più modesta e meno affascinante: i giornali – è noto – invecchiano male e in fretta. Ma almeno stavolta i generosi titoli di 24 ore prima regalano grandi sorrisi.

Repubblica, pagina 8: “‘Avanti sulla crescita’. Draghi guida il G7 sul rilancio post Covid”. Densissimo il retroscena degli inviati di Molinari, che con voluminose pennellate di giornalismo raccontano l’investitura di Super Mario da parte del “padrone di casa” Boris Johnson: “Mario, qualche anno fa ti ascoltai in un seminario. Con una frase hai salvato l’euro. Ora dacci la tua prospettiva”. Il lettore, per magia, inizia a salivare come il cane di Pavlov: si apre un orizzonte di benessere e floridità. S’intravede la medicina di Draghi per l’Occidente ferito. Per fortuna “l’ex banchiere non si risparmia. E illustra la sua ricetta per dimenticare la crisi”. Sempre Repubblica nella stessa pagina anticipa le magnifiche sorti del vertice Draghi-Biden, con un menu ricco e ambizioso: “L’incontro bilaterale di oggi (ieri, ndr) tra il premier e il presidente americano. Nell’agenda di Italia e Usa un’alleanza su Libia e Nato”. Il Corriere della Sera è sulla stessa falsariga. Pagina 10, grande foto dei big mondiali, titolo enfatico: “Draghi apre il vertice dei Grandi: ‘Investimenti e coesione sociale’”. Lo spin è lo stesso pubblicato dai cronisti di Repubblica, Johnson, uno dei Grandi, ferma il premier italiano e gli chiede “la prospettiva”. E pure qui c’è un ulteriore succoso retroscena su Boris che scherza affettuosamente con Mario, paragonando le scogliere della Cornovaglia alla Costiera amalfitana (insomma…).

È un trionfo a giornali unificati. La Stampa: “Draghi indica la strada al G7, più investimenti meno sussidi”. Sempre grande è la sintonia con Biden: “Futuro della Nato, Libia e dazi nell’incontro tra Joe e Mario”. Menu ricco, perché l’Italia sogna la segreteria dell’alleanza atlantica e nello staff draghiano “nessuno se la sente di escludere che tra le tante cose che Biden e Draghi hanno da dirsi ci sarà anche la futura guida della Nato”. Da sinistra a destra, l’encomio è collettivo. Anche Il Giornale si spella le mani sulla sintonia tra Mario e Joe: “Draghi fa asse con Biden su Libia e stop ai dazi. E punta a guidare la Nato”. “Il premier, non è certo una novita, ha infatti un rapporto molto stretto con il nuovo inquilino della Casa Bianca”. Forse non quanto Matteo Renzi, ma quasi.

Poi c’è il filone del terrore cinese: mentre Mario faceva il filo a Biden, gli stolti Cinque Stelle rovinavano tutto con l’occhiolino alla Cina. Il Foglio e Libero hanno praticamente lo stesso titolo. Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa, più ermetico: “Draghi con Biden, M5s con Xi”. Libero lo traduce in italiano e ci mette entusiasmo: “Draghi con l’Occidente, Grillo dai cinesi”. Super Mario difende i valori occidentali, mentre i grillini giocano col Dragone cattivo. È irresponsabilità, mica diplomazia: “Può il capo del primo partito della maggioranza (Giuseppe Conte, ndr) andare in pellegrinaggio politico dall’ambasciatore cinese mentre il presidente del consiglio s’incontra con Joe Biden?”. Conte alla fine non è andato, forse proprio per timore di Sallusti.

ILFQ

sabato 10 agosto 2019

Di Maio “richiama” i big. Ma ora al bivio c’è il Pd. - Luca De Carolis

Di Maio “richiama” i big. Ma ora al bivio c’è il Pd

Il capo dei 5Stelle raduna Casaleggio, Di Battista e altri maggiorenti e promette “collegialità”. Si punta sul taglio dei parlamentari. Ma le offerte dei dem agitano: “Rischiamo”

Il capo non può più stare solo lassù, non può più decidere da solo o con la sua cerchia ristretta, perché è al bivio che vale tutto. Da una parte c’è la guerra all’orizzonte, la campagna elettorale che mai avrebbe voluto, e dall’altra il Pd, perfino Matteo Renzi e i suoi, che bussano alle sue porte promettendo aiuto per il taglio dei parlamentari e soffiando una parola che può essere dannazione, accordo. Ma da qui in avanti Luigi Di Maio la rotta dovrà deciderla con gli altri, perché è in ballo la sopravvivenza del Movimento, e perché lui non è quello del 33 per cento. Per questo mentre viene giù tutto il tuttora vicepremier raduna a Roma in una casa sul Lungotevere gran parte di quelli che pesano nel Movimento: Davide Casaleggio, i ministri e pretoriani Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, i capigruppo alle Camere Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva, i molto inquieti Nicola Morra e Paola Taverna, quel Max Bugani appena dimessosi da suo vice-caposegretario e ovviamente Alessandro Di Battista, l’ex deputato con cui era furioso ma a cui dovrà chiedere di recuperare entusiasmo e voti.
VOTO SU ROUSSEAU.
Si pensa di far votare gli iscritti sul web sulla ricandidatura degli eletti uscenti
Di fronte a loro ammette (alcuni) errori e soprattutto promette “collegialità”. Ovvero che le decisioni importanti passeranno da lì, da un caminetto con le varie anime del M5S. Per questo Di Maio chiede a tutti di parlare chiaro, di dire come la pensano. Partendo da quella che è la prima urgenza del Movimento, rendere legge il taglio dei parlamentari prima del voto sulla mozione di sfiducia per il premier Giuseppe Conte. Una bandiera che si potrebbe sventolare, ma anche e soprattutto la via per far slittare il voto anticipato, perché tagliare 345 eletti imporrebbe di ridisegnare i collegi elettorali, e sarebbero necessari mesi per farlo. E in quel lasso di tempo chissà cosa potrebbe accadere in Parlamento.
Però il prezzo per i 5Stelle rischia di essere l’anima, perché per realizzare un’impresa quasi impossibile nei numeri e soprattutto nei tempi dovrebbero accordarsi con il Pd delle mille anime e delle mille trappole, che già chiede di più, un patto per un’altra maggioranza di governo. “Ma una cosa del genere potrebbe ucciderci” riassume un big del M5S. Perché lo sanno, i 5Stelle, che i messaggi e le telefonate dei dem (nonostante il niet del segretario Nicola Zingaretti) sono una porta con vista sull’inferno, la via che renderebbe facilissimo a Matteo Salvini gridare all’inciucio.
Per questo il leghista già ammicca: “Sento che ci sono toni simili tra Pd e M5S, ma un governo Renzi-Di Maio sarebbe inaccettabile per la democrazia”. Infatti il Movimento replica con sillabe violente: “Caro Salvini stai vaneggiando, inventatene un’altra per giustificare quello che hai fatto giullare”. E non a caso nella riunione romana, con toni e modi diversi, la maggioranza dei big rifiuta le offerte che lo staff del M5S nega ma che sono evidenti, rumorose. Almeno ora, perché dopo il voto chissà. Ma nell’attesa il taglio degli eletti con il quarto, definitivo passaggio a Montecitorio va rincorso in ogni modo. Lo dicono tutti, all’incontro di ieri. E la linea prevalente è: portiamolo a casa, poi si vedrà. Ovvero, un passo alla volta. Però Roberto Fico, il presidente della Camera, si sente di continuo con Di Maio. E gli ha confermato quanto sia difficile approvare la legge. Perché è vero, un terzo dei deputati basta per convocare d’urgenza l’Aula, e il M5S li ha. Però è necessario che la capigruppo della Camera, convocata per martedì, cambi il calendario a maggioranza. Nel caso lo faccia, bisognerebbe passare in commissione, almeno per mezza giornata, e servirebbero almeno due giorni di lavoro in Aula per approvare il testo. Maledettamente complicato in pieno agosto, per di più prima della votazione in Senato su Conte, che potrebbe svolgersi attorno al 20.
A meno che l’accordo con il Pd non sia granitico. E che Fico utilizzi a fondo i suoi poteri di presidente. Nell’attesa, Di Maio e il gotha del M5S ragionano sui nodi che verranno. A cominciare da come rimettere in gioco una classe di governo su cui grava l’esaurirsi dei due mandati. E la decisione pare già presa. Si voterà sulla piattaforma web Rousseau, dove verrà chiesto agli iscritti se ricandidare i parlamentari uscenti, spingendo sulla leva dei soli 14 mesi di legislatura, caduta per colpa di Salvini. Poi c’è il tema nodale, quello del candidato premier. Non potrà esserlo Di Maio, non più. E neppure Di Battista, trascinatore che si sentirebbe ingabbiato.
Quindi la speranza di molti, di quasi tutti è convincere Conte. Ripartire da lui, che pure lo ha giurato: “Non ho mai votato i 5Stelle”. Ma la politica corre. E può cambiare, tutto.

venerdì 7 dicembre 2018

Palermo, Catania, Enna e Agrigento Il grande summit dei boss al bar. - Riccardo Lo Verso

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A rappresentare i palermitani c'era Filippo Bisconti, uno dei capi della Cupola. Una pista porta a Messina Denaro.

PALERMO - Arrestato e condannato, poi di nuovo arrestato ma assolto. Sono anni che la cronaca giudiziaria si occupa di Filippo Bisconti. Ora si scopre che sedeva al tavolo della nuova Cupola di Cosa nostra. Era il capo del mandamento di Belmonte Mezzagno.


C'è molto di più, però, della sua partecipazione alla riunione del 29 maggio in cui nasceva la mafia 2.0. Negli ultimi anni, infatti, Bisconti ha fatto da cerniera fra le province di Palermo, Trapani e Catania. Un ruolo sovraordinato il suo,  di cui è ben consapevole Sergio Macaluso, il pentito di Resuttana che per primo ha parlato dell'esistenza della nuova commissione.

Il 13 aprile scorso Macaluso spiegava che Bisconti “è stato messo nella commissione provinciale per occuparsi dei mandamenti. Pensavamo che lo avesse messo Matteo Messina Denaro come persona di fiducia perché si occupava anche di Trapani. A parte della serietà della persona, lui si occupava delle problematiche dei paesi della zona di Trapani ad esempio Cinisi, Trapani e Partinico, sino ad Alcamo. Ci diceva che tutto doveva passare da lui".

Tra i mafiosi era maturata la certezza che "l'incarico poteva essere dato solo da Matteo, vista l'importanza del ruolo. Lui, Bisconti, però non lo ha mai detto esplicitamente”.

Bisconti, secondo i carabinieri del Nucleo investigativo, era l'alter ego di Salvatore Sciarabba, altro nome storico del mandamento di Belmonte Mezzagno, e pure lui fermato su ordine della Procura della Repubblica. Sciarabba era vincolato dall'obbligo di soggiorno a Palermo e così avrebbe delegato i poteri di rappresentanza a Bisconti soprattutto in trasferta.

Come quella che lo condusse a Catania nel febbraio 2016Fu un "summit interprovinciale”. Quel giorno una Bmw partì in direzione Catania. A bordo c'erano Antonio Giovanni Maranto (uomo forte a San Mauro Castelverde, arrestato nel maggio successivo all'incontro e condannato alcuni mesi fa), Filippo Di Pisa (arrestato nel blitz di due giorni fa e affiliato alla famiglia di Misilmeri) e il messinese Santo Di Dio.

L'appuntamento era fissato al bar “Pigno d'Oro”. I carabinieri del Ros di Catania si appostarono all'esterno del locale. Annotarono la presenza di “esponenti di spicco delle famiglie mafiose”: Giovanni Pappalardo di Catania, Giuseppe Costa Cardone di Catania, Calogerino Giambrone di Cammarata, Domenico Maniscalco di Sciacca, Giuseppe Marotta di Pietraperzia, Giuseppe Benigno e Filippo Bisconti di Belmonte Mezzagno.

Fu Bisconti ad accorgersi della presenza delle forze dell'ordine. Maranto, che diede subito la colpa ai catanesi, doveva consegnare qualcosa a qualcuno: “... glielo lascerei a lui stesso questo coso”. Ma, sentendosi braccato dalle forze di polizia (“c’è l’opera”), decise di allontanarsi. Quando Bisconti arrivò la riunione era già in corso. Lui sentì subito puzza di bruciato e fece finta di prendere solo un caffè.

Dalle parole di Maranto e Di Pisa emergerebbe che dentro il bar c'era pure Francesco Santapaola che sarebbe stato arrestato nell'aprile dello stesso anni. Pochi mesi fa Francesco Colletti, capomafia di Villabate, ha fornito un riscontro al ruolo ricoperto da Bisconti di ambasciatore lontano dalla provincia di Palermo: “... lui mi deve indicare con chi deve andare a parlare”. “Con Catania”, aggiungeva il suo autista Filippo Cusimano.

Le relazioni di Bisconti erano già emersi nel 2013. C'erano stati degli incontri fra boss palermitani e agrigentini. Incontri forse voluti da Matteo Messina Denaro. I militari seguivano Cosimo Michele Sciarabba, figlio di Salvatore, che dopo avere parlato con Alessandro D'Ambrogio, boss di Porta Nuova, partì alla volta di Agrigento in compagnia di Gaetano Maranzano, arrestato assieme a Sciarabba in un’operazione della Squadra mobila e indicato come il capo della famiglia mafiosa di Cruillas. Saranno fotografati in aperta campagna, nella zona di Sambuca di Sicilia, assieme a Leo Sutera, il boss che leggeva i pizzini di Matteo Messina Denaro, e ad un quarto uomo: Filippo Bisconti. Discutevano e leggevano qualcosa. Erano ancora lontani i giorni in cui, lo scorso maggio, Bisconti partecipava alla riunione della Cupola del dopo Riina, con il ruolo di capo mandamento di Belmonte Mezzagno.

https://livesicilia.it/2018/12/06/palermo-catania-enna-e-agrigento-il-grande-summit-dei-boss-al-bar_1018256/?fbclid=IwAR0_rr_Ukj6q2TlgjA4t2CjoKcEhYUKY6VcqqpEjRBM73jEV93fXNRCdtxQ

sabato 16 dicembre 2017

Maria Elena Boschi e gli interessamenti per Banca Etruria, nel 2014 summit in casa per difenderla dai diktat Bankitalia. - Giorgio Meletti

Scontro sul credito – Fornasari, Consoli, Boschi, Trinca

Nel marzo del 2014 - Appena arrivata al governo, l’allora ministro ha ricevuto i vertici di Veneto Banca e dell’istituto di papà per arginare la Vigilanza.

Un sabato di marzo del 2014 Flavio Trinca, presidente di Veneto Banca, e Vincenzo Consoli, amministratore delegato, sono saliti in macchina e hanno percorso di gran carriera i 330 chilometri che separano Montebelluna in provincia di Treviso (sede della banca) da Laterina in provincia di Arezzo. Lì hanno suonato il campanello della villa di Pier Luigi Boschi, consigliere di amministrazione di Banca Etruria, che li attendeva con il presidente Giuseppe Fornasari. I rapporti sono oliati. È proprio Fornasari ad aver voluto nel 2011 Boschi nel cda della banca, in rappresentanza del mondo agricolo aretino. Ed è ancora Fornasari a conoscere bene Trinca: entrambi sono stati deputati, entrambi hanno alle spalle la militanza nella Dc, sebbene in due diverse correnti, l’aretino era fanfaniano (come Boschi), il trevigiano stava con Carlo Donat-Cattin in Forze Nuove.
La rimpatriata scudocrociata non spiega i 660 chilometri in macchina tra andata e ritorno. Il fatto è che Boschi ha organizzato un vertice con la figlia Maria Elena, che da pochi giorni è entrata nel nuovo governo Renzi come ministro delle Riforme, coronando la scalata al potere condotta accanto al suo leader. 
I tre visitatori vanno speranzosi, guardano alla giovane ministra come alla protettrice dei banchieri disperati. Lei ascolta, loro le spiegano le amarezze che li accomunano. 
Da alcuni mesi sia Etruria sia Veneto Banca sono nel mirino della Vigilanza di Bankitalia. Nel corso del 2013 severe ispezioni si sono concluse con letteracce molto simili del governatore Ignazio Visco. Identico il concetto: le vostre banche sono scassate assai, dovete al più presto trovarvi un “partner di elevato standing”, cioè una banca più grande e più sana che vi assorba e vi salvi. Identico il sottotesto, esplicitato a quattr’occhi dal severo capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo: consegnatevi alla Popolare di Vicenza di Gianni Zonin. Gli uomini di Etruria se lo sentono dire il 5 dicembre, Consoli il 19 dicembre.
Le due banche recalcitrano, per due ragioni. La prima è che sono due Popolari, cioè due cooperative, che assommano circa 150 mila soci che decidono una testa un voto. Chi glielo va a dire che devono consegnarsi senza condizioni al rivale Zonin, il quale ha fatto subito sapere a Fornasari e Trinca che per aretini e trevigiani non ci sarà posto nel cda nella nuova bancona che nascerà dalle due fusioni?
La seconda ragione è più velenosa: i banchieri disperati ritengono che la banca di Zonin sia messa peggio delle loro, e che Barbagallo, forse ingannando lo stesso Visco, stia assediando Arezzo e Montebelluna non per salvare le loro banche ma per darle in pasto alla Popolare di Vicenza, istituto amatissimo da Palazzo Koch e aiutarla a tirarsi fuori dai guai serissimi in cui si è cacciata, nella distrazione della Vigilanza.
La neo ministra ascolta e annuisce. La missione di cui il padre – organizzando l’incontro – la invita di fatto a farsi carico è di mettere a disposizione di Etruria e Veneto Banca “lo spirto guerrier” del nuovo governo per rintuzzare l’aggressività di Palazzo Koch. In realtà non succede niente.
Pochi giorni dopo uno spettacolare blitz della Guardia di Finanza ordinato dal procuratore della Repubblica di Arezzo Roberto Rossi e originato da una denuncia di Barbagallo, fa secco Fornasari con accuse poi rivelatesi infondate al processo di primo grado. Lorenzo Rosi diventa presidente di Etruria e Boschi padre vicepresidente. 
Ma intanto Bankitalia continua a menare fendenti. La verità è che Matteo Renzi, non appena insediato a Palazzo Chigi, ha attaccato il governatore Visco chiedendogli di ridurre il suo stipendio da 495 mila euro annui a 248 mila, il tetto fissato per tutti i dirigenti pubblici. Visco lo manda al diavolo invocando l’indipendenza della Banca d’Italia. Lo strappo tra Palazzo Chigi e Palazzo Koch è velenoso, e non sarà mai ricucito.
Di fatto sarà Etruria la più maltrattata da Bankitalia nei mesi turbolenti delle crisi bancarie. Visco subisce il no a Zonin e va in pressing sugli aretini perché si trovino un compratore. Rosi, Boschi e gli altri battono tutte le strade possibili. Nell’estate 2014 Boschi si fa presentare il piduista Flavio Carboni dall’amico Valeriano Mureddu. Lavorano sull’ipotesi di far salvare Etruria dal fondo Qvs dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, lo stesso al quale, secondo indiscrezioni de La Stampa, si sarebbe rivolto Renzi nei giorni scorsi per chiedergli di salvare Alitalia. Non cavano un ragno da un buco. Si rivolgono allora alla banca francese Lazard e poi a Mediobanca, le quali contattano almeno una trentina di banche in tutta Europa ma ottengono solo dei cortesi “no grazie”. 
Questo spiega perché a gennaio 2015 la ministra, in un ultimo disperato tentativo, si rivolge in modo pressante al numero uno di Unicredit Federico Ghizzoni chiedendogli di salvare la baracca aretina e paterna. Lui risponde educatamente ma prende tempo.
Il 7 febbraio Rosi va a Torino e parla con Ghizzoni in occasione del discorso di Visco al Forex. Non serve a niente. Due giorni dopo il governatore firma il commissariamento di Etruria
Un anno dopo la Boschi si vendicherà con una rancorosa intervista al Correre della Sera senza nominare Visco e Barbagallo ma salutandoli come “le stesse persone che un anno fa suggerivano a Banca Etruria un’operazione di aggregazione con la banca di Zonin”.
LA PRECISAZIONE 
Nel nostro articolo di ieri, a pagina 2 e 3 del Fatto Quotidiano, intitolato “Riunione a casa Boschi per difendere Etruria dai diktat di Bankitalia”, per errore abbiamo scritto che Flavio Carboni era un “piduista”. In realtà, in tutte le inchieste giudiziarie sulla Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli, non è mai emerso che lo stesso Carboni risultasse negli elenchi del “maestro venerabile” sequestrati dalla magistratura nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi (Arezzo). Flavio Carboni, invece, fu coinvolto nell’inchiesta sulla fuga a Londra e sull’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi (nel giugno del 1982). Un’accusa dalla quale, però, è stato poi assolto a titolo definitivo, mentre fu condannato per concorso nel fallimento dell’Ambrosiano. 
Il nome di Carboni è legato alle vicende di Banca Etruria (Arezzo) perché a lui, nell’estate del 2014, si era rivolto Pier Luigi Boschi (padre del sottosegretario Maria Elena), allora vicepresidente dell’istituto toscano, per chiedergli consigli sulla nomina del direttore generale di Etruria. A mettere in contatto Boschi con Carboni era stato un massone, Valeriano Mureddu.