venerdì 22 novembre 2013

Terremoto Abruzzo, i soldi degli Sms imboscati dalle banche. - Emiliano Liuzzi




I circa cinque milioni di euro donati dagli italiani per "dare una mano" alla ricostruzione dei luoghi colpiti dal sisma del 2009, sono fermi nei forzieri degli istituti di credito. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato e spiega come li ha spesi.


Gira e rigira sono finiti alle banche i 5 milioni di euro arrivati via sms dopo il terremoto dell’Aquila sotto forma di donazione. E la loro gestione è stata quella prevista da qualsiasi rapporto bancario: non è bastata la condizione di “terremotato” per ricevere un prestito con cui rimettere in piedi casa o riprendere un’attività commerciale distrutta dal sisma. Per ottenerlo occorreva – occorre ancora oggi – soddisfare anche criteri di “solvibilità”, come ogni prestito. Criteri che, se giudicati abbastanza solidi, hanno consentito l’accesso al credito, da restituire con annessi interessi. I presunti insolvibili sono rimasti solo terremotati. Anche se quei soldi erano stati donati a loro. Il metodo Bertolaso comprendeva anche questo. È accaduto in Abruzzo, appunto, all’indomani del sisma del 2009. Mentre Silvio Berlusconi prometteva casette e “new town”, l’ex numero uno della Protezione civile aveva già deciso che i soldi arrivati attraverso i messaggini dal cellulare non sarebbero stati destinati a chi aveva subito danni, ma a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos, che avrebbe poi usato i fondi per garantire le banche qualora i terremotati avessero chiesto piccoli prestiti. E così è stato. Le donazioni sono confluite in un fondo di garanzia bloccato per 9 anni. Un fondo che dalla Protezione civile, due mesi fa, è stato trasferito alla ragioneria dello Stato. La quale, a sua volta, lo girerà alla Regione Abruzzo. E di quei 5 milioni i terremotati non hanno visto neanche uno spicciolo. Qualcuno ha ottenuto prestiti grazie a quel fondo utilizzato come garanzia, ma ha pagato fior di interessi e continuerà a pagarne. Altri il credito se lo sono visto rifiutare.
L’emergenza
Bertolaso
, allora, aveva pieni poteri. Come capo della Protezione civile, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma soprattutto nella veste di uomo di fiducia del premier Silvio Berlusconi. I primi soldi che Bertolaso si trovò a gestire furono proprio i quasi 5 milioni donati dagli italiani con un semplice messaggio del cellulare. Ma lui, “moderno” nella sua concezione di Protezione civile, decise che i milioni arrivati da tutta la penisola sarebbero stati destinati al post emergenza e alle banche, non all’emergenza. Questo aspetto non venne specificato al momento della raccolta, ma Bertolaso aveva il potere di decidere a prescindere. Spedì poi un suo emissario alla Etimos di Padova, consorzio finanziario specializzato nel microcredito, che raccoglie al suo interno, attraverso una fondazione, molti soggetti di tutti i colori, da Caritas a Unipol.
I numeri.
Quello che è successo in questi 3 anni è molto trasparente, al contrario della richiesta di donazione via sms che non precisò a nessuno dove sarebbero finiti i soldi. Nemmeno a un ente, la Regione Abruzzo che, paradossalmente, domani potrebbe usare quei soldi per elicotteri o auto blu. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato, ma non fatica ad ammettere come sono stati usati i soldi: dei 5 milioni di fondi pubblici messi a disposizione del progetto dal dipartimento della Protezione civile, 470 mila euro sono stati destinati alle spese di start-up e di gestione del progetto, per un periodo di almeno 9 anni; 4 milioni e 530 mila euro invece la cifra utilizzata come fondo patrimoniale e progressivamente impiegata a garanzia dell’erogazione dei finanziamenti da parte degli istituti di credito aderenti. Intanto sono state 606 le domande di credito ricevute (206 famiglie, 385 imprese, 15 cooperative). Di queste 246 sono state respinte (85 famiglie, 158 imprese, 3 cooperative) mentre 251 sono i crediti erogati da gennaio 2011 a oggi per un totale di 5.126.500 euro (famiglie 89/551mila euro, imprese 153/4 milioni 233mila e 500 euro, cooperative 9/342mila euro). Infine 99 domande sono in valutazione (68 famiglie, 28 imprese, 3 coop).
Gli aiuti e le banche.
Al termine dell’operazione quello che è successo è semplice: i soldi che le persone hanno donato sono serviti a poco o a niente. Non sono stati un aiuto per l’emergenza, ma – per decisione di Bertolaso – la fase cosiddetta della post emergenza. Che vuol dire aiuti sì, ma pagati a caro prezzo. Le persone si sono rivolte alle banche (consigliate da Etimos, ovviamente) e qui hanno contrattato il credito. Ma chi con il terremoto è rimasto senza un introito di quei soldi non ha visto un centesimo. Non è stato in grado neppure di prendere il prestito perché giudicato persona a rischio, non in grado di restituire il danaro.
Che fine han fatto gli sms?I terremotati sono stati praticamente esclusi. Se qualcosa hanno avuto lo hanno restituito con un tasso d’interesse inferiore rispetto agli altri, ma pur sempre pagando gli interessi. Chi ha guadagnato sono le banche, sicuramente, e la Regione Abruzzo che, al termine dei 9 anni stabiliti, si troverà nelle casse 5 milioni di euro in più. Vincolati? Questo non lo sappiamo. Ne disporrà come meglio crede, sono soldi che entreranno nel bilancio.
La posizione di Etimos.
Fino a oggi, scoperto il metodo Bertolaso, il consorzio finanziario Etimos si è preso le accuse. Ma il presidente dell’azienda padovana al Fatto Quotidiano spiega che il loro è stato un lavoro pulito e trasparente. “Se qualcuno ha mancato nell’informazione”, dice il presidente Marco Santori, “è stata la Protezione civile che doveva precisare che i soldi erano destinati al post emergenza e non all’aiuto diretto. Noi abbiamo fatto con serietà e il risultato è quello che ci era stato chiesto”.

Verissimo!



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Autodichia, la “zona franca” dello Stato nello Stato: ecco dove non entrano i giudici. - Thomas Mackinson


Il principio giuridico a garanzia dell’indipendenza degli organi costituzionali è stato trasformato in uno strumento di privilegio, dove chi produce le leggi è dispensato dal rispettarle. E nessuno tocca la sottrazione alla legge ordinaria e a qualunque forma di controllo esterno, dalla magistratura alla Corte dei Conti.

E’ inutile girarci intorno, in Italia c’è uno Stato nello Stato. E, attenzione, non è San Marino non è ilVaticano. La zona franca dove non entrano guardia di finanza, magistratura ordinaria e contabile e neppure il giudice del lavoro è tutta nel centro di Roma, prolifera nel cuore stesso della nostra bella e vituperata democrazia. I suoi confini triangolano tra le assemblee elettive di Camera e Senato, il Quirinalee gli organi costituzionali. Cos’hanno in comune? Il fatto che incidentalmente, da dentro, s’illuminano spiragli su decisioni, conti e costi che destano improvviso scandalo: lo stipendio stellare del funzionario inamovibile, la nomina discutibile, l’appalto opaco che sfugge al controllo della Corte dei Conti, fino alla gestione dei bilanci interni che è tanto autonoma e inconoscibile nei dettagli da consentire a chi li firma di proclamare grandi risparmi che si rivelano, puntualmente, falsi. La breccia si richiude subito, senza disturbare troppo gli inquilini, fino al prossimo lampo di cronaca. La chiave della sacra porta dello “Stato nello Stato” ha incisa una parola antica e carica di suggestioni: “Autodichia”. E che significa? Neppure chi ne beneficia – onorevoli, funzionari e dipendenti degli alti organi dello Stato – lo sa esattamente. Per lo Zanichelli è la “potestà riconosciuta alle Camere e alla Corte Costituzionale di giudicare, sostituendosi in ciò agli organi della giustizia amministrativa, sulle controversie relative al rapporto di impiego del personale da essi dipendente”.
Ma anche di regolare gli appalti lontano dalle maglie del codice dei contratti pubblici e dai controlli della Corte dei Conti. Nasce dal potere di giudicare ammissibilità e permanenza di un proprio membro anche di fronte alle richieste della giustizia ordinaria: ma mentre questo si ricava in Costituzione (art. 66 anche se tutte le revisioni costituzionali proposte cercano di superarlo), il principio ha dato luogo ad una estensione– mai introdotta espressamente nell’ordinamento – che sottrae alla legge ordinaria perfino le funzioni amministrative, che nulla hanno a che vedere con l’esercizio delle funzioni costituzionali. Gli esperti di diritto hanno spesso dibattuto l’argomento. Chi difendendo a spada tratta un principio nato per una ragione nobile di autonomia e indipendenza della rappresentanza politica dall’ingerenza di altri poteri (in origine quello monarchico, poi giudiziario). Chi perorando possibili contrappesi o denunciando gli effetti deleteri dell’autodichia sulla vita democratica.
I radicali Irene Testa e Alessandro Gerardi ne hanno scritto un libro (“Parlamento zona franca. Le camere e lo scudo dell’autodichia”, edito da Rubbettino) che spiega, tra cronaca politica e analisi giuridica, quanto siamo lontani dalle nobili origini. Persa la ragione storica resta quella politica, intesa come potere dei partiti e dei singoli che ne fanno parte “contro” le regole e le leggi che governano il resto della società. Il giurista Santi Romano dava questa interpretazione dell’autodichia: “Il falso dogma dell’onnipotenza parlamentare, congiunto a quello della divisione dei poteri ha contribuito a fare del Parlamento uno Stato entro lo Stato, un corpo chiuso ed indipendente, cui si è persino negata la qualità di organo statale, facendolo invece un organo di una democrazia giuridicamente immaginaria e un rappresentante, specie per il mezzo della Camera elettiva, della volontà sovrana del popolo, non immedesimata con quella dello Stato, ma concepita in antitesi, talvolta in vera lotta, con questa”.
Correva l’anno 1898. E da allora non è cambiato nulla, anzi. In 67 anni di vita repubblicana l’istituto è stato applicato, esteso e piegato a scopi molto meno “alti”. Da principio di garanzia dell’organo l’autodichia è diventato uno strumento di privilegio per chi ne fa parte: è il dna della Casta, la particella primordiale del privilegio e della rendita di posizione. “Sembra un vezzo, una reminiscenza per storici o un’argomentazione da accademici e giuristi”, spiega Irene Testa “e invece è il cuore stesso del problema Italia, quello che ha consentito e consente al sistema partitocratico di vivere, alimentarsi, e diffondersi corrompendo ogni anfratto della vita pubblica”.
L’autodichia all’italiana condiziona, altera e distorce lo stato di diritto a vantaggio di alcuni e a danno di tutti. Il tema è entrato, in parte, nell’agenda dei 10 saggi chiamati da Napolitano a fornire, tra le altre, embrionali ipotesi di riforma dell’architettura costituzionale. Il loro intervento si è però limitato a proporre una modifica all’articolo 66 nella direzione di “attribuire a un giudice indipendente e imparziale il giudizio sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. L’accordo è stato possibile su quel punto perché “era evidente a tutti che il problema del Parlamento che decide su se stesso si dimostra insolubile”, spiega Stefano Ceccanti (Pd), costituzionalista e membro della Giunta per il Regolamento del Senato. Ma anche questa indicazione potrebbe restare lettera morta. “Tutto dipende da quello che accadrà nei prossimi mesi – spiega – Stiamo aspettando l’ultima lettura della legge di procedura, che dovrebbe avvenire a dicembre e una volta avvenuta si dovrebbe passare alla discussione sui contenuti e a quel punto il governo e le forze politiche dovrebbero presentare il testo”.
Non si sa quando, insomma, ma lo Stato nello Stato sembra disposto a cedere un pezzo della sua autonomia. Si tiene ben stretta però quella che esercita su altri fronti non meno rilevanti che potrebbero tranquillamente essere normati con legge ordinaria: nessuna ipotesi è balenata, ad esempio, relativamente agli aspetti contabili-amministrativi, al potere di organizzare uffici, servizi e nominare dipendenti attraverso insindacabili regolamenti interni. “La complessità su questi nodi è legata al fatto che le vie per limitare l’autodichia senza comprimere l’autonomia dell’organo costituzionale tocca trovarle caso per caso”, spiega Ceccanti. “Ciascuna di quelle prerogative richiede di calibrare due esigenze: quella di individuare forme neutre ed esterne di controllo e quella di garantire l’autonomia dei vari organi senza subordinarli a ulteriori poteri che ne possano limitare l’indipendenza. Sulle spese dei gruppi, ad esempio, abbiamo stabilito nella scorsa legislatura di rendere obbligatoria la pubblicazione online dei rendiconti. Affidarne l’esame alla magistratura contabile avrebbe comportato il rischio di un conflitto tra potere legislativo e giudiziario. Abbiamo optato per una soluzione meno problematica che fa leva sull’effetto di deterrenza dato dalla visibilità esterna”. Intanto, nell’impossibilità di trovare la quadra generale sull’autodichia e le sue degenerazioni, lo Stato nello Stato continua a dettar legge. E a farla valere esclusivamente fuori dal portone dei suoi Palazzi.

Cambiare il mondo seminando alberi. - Luca Amadei

piantare alberi

Seminare alberi. Qualcuno potrebbe giustamente dire "e perchè dovrei farlo?". Ve lo spiego io.
Il mondo stà cambiando sotto i nostri occhi, ogni giorno. Le temperature aumentano; la produzione di anidride carbonica dei paesi industrializzati non tende a diminuire; le barriere coralline si stanno letteralmente sciogliendo; le foreste primarie dell Amazzonia vengono sempre più violentate e disossate; nei centri abitati aumentano i casi di allergia, asma, irritazioni delle vie aeree.
La deforestazione è diventata un male di dimensioni inimmaginabili: ogni due secondi viene cancellata un area di foresta grande quanto un campo da calcio, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Il mondo si stà consumando sotto ai nostri occhi e ognuno di noi è consapevole di essere un artefice passivo di questa strage silenziosa.
Tutti amiamo il Pianeta Terra e nel profondo di ognuno di noi c'è il desidero di proteggerlo.
Tra le tante azioni che possiamo fare per prevenire tutto questo, ce n' è una che io adoro particolarmente e che applico da qualche anno: seminare alberi.
Ebbene sì, niente di più semplice. Gli alberi sono dei fantastici accumulatori di CO2, regolano il microclima, prevengono l'erosione, donano ossigeno e frutti commestibili, offrono riparo per gli animali e rendono più bello il paesaggio. Sono indispensabili per tutti noi!
Credo con tutto me stesso nella frase "Se molte formiche si mettono assieme, spostano anche l'elefante."
Siamo tante piccole formiche, ma insieme siamo un esercito. Seminiamoli! Possiamo farlo e non ci costa nulla. Abbiamo nelle nostre mani il potere di decidere di migliorare questo mondo. La nostra azione avrà un impatto grandissimo a livello locale, soprattutto a lungo termine. Se uniamo le forze e lo facciamo tutti insieme, saremo proprio come quelle piccole formiche che, unite, riescono a spostare un intero elefante.
Seminare un albero è talmente semplice che ne rimarrete meravigliati: basta prendere i semi dagli alberi che preferiamo (scegliere sempre ed esclusivamente piante autoctone del luogo, per esempio ghiande di quercia), posizionarli a circa 5 cm di profondità in dei piccoli vasetti riempiti di terra, annaffiarli costantemente e vederli germinare in primavera. Sarebbe meglio seminare più di un seme per vasetto; in questo modo aumenterete le probabilità di germinazione.

seminare alberi

I primi due/tre anni gli alberelli vanno allevati e coccolati proprio come dei neonati perchè questo è il periodo più delicato della loro vita. Infatti in questo periodo gli alberelli sono sensibilissimi alla siccità, ai parassiti e rischierebbero di morire facilmente. E' dunque nostra cura proteggerli e farli crescere nei vasetti per i primi tempi.

seminare alberi fusto

Dopo tre anni circa saranno abbastanza resistenti da poter essere posizionati in piena terra. Potremo finalmente trapiantare i nostri giovani alberi in un giardino comunale, in aree verdi, parchi, zone di campagna. Gli alberi andrebbero protetti dal tagliaerba con 3 piccole aste di legno e fil di ferro. Oppure potremmo fare un bel regalo ai nostri amici che hanno la fortuna di avere un pezzo di terra! Si può anche contattare il Corpo Forestale dello Stato per donari gli alberelli ed inserirli nei loro progetti periodici di "riforestazione".
Immaginate se ognuno di noi seminasse tre alberi a testa. Ora moltiplicate: potrebbe uscirne fuori una foresta intera! Se utilizzate Facebook e volete seguire questa iniziativa, unitevi al nostro gruppo "SEMINARE ALBERI, la nostra rivoluzione verde"  ed iscrivetevi.
Seminate alberi e fate germogliare l'amore per la terra. Diventate parte di questa rivoluzione.



"Durante un incendio nella foresta mentre tutti gli animali fuggivano, un piccolo colibrì volava in senso contrario con una goccia d'acqua nel becco."Cosa credi di fare" gli disse il leone. "Vado a spegnere l'incendio" rispose il piccolo volatile. "Con una goccia d'acqua?" disse il leone con un sogghigno di irrisione. Ed il piccolo colibrì proseguendo il volo rispose: "io faccio la mia parte!"

Privatizzazioni, cosa si vende e quanto si pensa di ricavare. - Massimo Morici

Privatizzazioni, cosa si vende e quanto si pensa di ricavare

Sul mercato i gioielli di Stato come Eni, Fincantieri e le reti gas per portare alle casse pubbliche 12 miliardi.

Parte il nuovo piano di privatizzazioni che dovrà garantire alle casse dello Stato, stando alle stime del governo Letta, risorse aggiuntive tra i 10 e i 12 miliardi di euro.
Soldi che serviranno alla riduzione immediata del debito, a ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti e a convincere la Commissione Ue che il nostro paese ha la possibilità di fare investimenti aggiuntivi senza che si intacchi il rapporto tra deficit e Pil.
Sono otto le società coinvolte nel primo pacchetto di cessioni: la Stm, l'Enav, Eni, Fincantieri, Cdp Reti, Cdp Tag, Grandi stazioni e Sace.
Eni: sul mercato il 3%
Il governo vorrebbe sfruttare il piano di buy-back di azioni proprie, approvato nel luglio del 2012 dall'assemblea del cane a sei zampe, che prevede il riacquisto fino ad un massimo del 10% delle azioni in circolazione.
"Qualora il piano di buy-back - si legge in una nota del Ministero dell'economia - fosse integralmente realizzato da Eni e l'assemblea degli azionisti deliberasse l'annullamento delle azioni proprie in portafoglio, la partecipazione pubblica detenuta dal Ministero dell'economia e delle finanze e da Cdp, pari ad oggi al 30,1% complessivo, si incrementerebbe a poco più del 33% del capitale di Eni".
La successiva cessione sul mercato di circa il 3% da parte del Ministero, quindi, consentirebbe di mobilizzare circa 2 miliardi di euro, assicurando comunque il mantenimento del controllo del colosso energetico da parte dello Stato, grazie a  una partecipazione pubblica complessiva al capitale di Eni superiore alla soglia Opa del 30%.
Le altre dismissioni
Le altre vendite, invece, vedranno calare, e di molto, l'attuale partecipazione dallo Stato: la dismissione sarà, infatti, nell'ordine del 60% per Grandi Stazioni (che gestisce le 13 principali stazioni ferroviarie italiane) e nel gruppo assicurativo - finanziario Sace.
Sarà, infine, del 40% per Enav (servizi per il traffico aereo), Fincantieri e le reti in possesso della Cassa depositi e prestiti, Cdp Tag che porta il gas russo in Italia e Cdp Reti che controlla Snam Rete Gas e la cablazione in fibra ottica nei capoluoghi più importanti d'Italia (Metroweb) tramite il Fondo Strategico Italiano.

Allerta pesce velenoso nei mari italiani: non va assolutamente mangiato. - Giusy Ocello



In questi giorni, il Ministero della Salute ha reso noto un comunicato, diffuso dall’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) che allerta sulla presenza nelle acque siciliane di un particolare pesce, di nome Lagocephalus sceleratus, particolarmente velenoso anche dopo la cottura.
Il comunicato diffuso dall’Ispra è datato 7 novembre ed è stato diramato in tutti i servizi veterinari delle Regioni e delle ASL per gli interventi di competenza.
Il pesce in questione, originario del Mar Rosso, appartiene alla famiglia dei Tetraodontidae, i più conosciuti pesci palla, e sembra stia compiendo da tempo una migrazione che, attraverso il Canale di Suez, lo ha portato prima in Turchia, poi in Israele, per arrivare a Rodi e infine nella zona di Lampedusa, dove sembra sia stato pescato un esemplare.
Noto più comunemente con il nome di Pesce palla maculato, stando a quanto segnalato dal Ministero della Salute, sembra che la sua presenza nei mari italiani sia stata segnalata da diversi anni.
La pericolosità dei tetraodontidi è conosciuta da tempo ed è dovuta al fatto che i pesci che fanno parte di questa famiglia possono accumulare la tetrodotossina (TTX), una tra le più potenti tossine conosciute ad azione paralizzante sulla muscolatura. L’effetto di questa tossina, permane anche dopo la cottura dell’alimento e un avvelenamento da tetrodossina è altamente rischioso: può comportare conseguenze particolarmente gravi per la salute, fino alla morte, che può avvenire dopo poche ore dall’ingestione.
Per questa ragione, nel 1992, con il Regolamento (CE) 854/2004, recante “norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano”, è stata vietata la commercializzazione dell’intera famiglia. Un divieto che è stato diffuso anche a livello europeo.
Secondo quanto stabilito dal regolamento, si legge sul sito del Ministero, “gli operatori del settore alimentare hanno l’obbligo di garantire il rispetto dei requisiti di sicurezza per i prodotti della pesca immessi in commercio e di non immettere sul mercato specie ittiche appartenenti alle famiglie dei Tetraodontidae, Molidae, Diodontidae e Canthigasteridae in quanto contenenti tossine nocive per la salute umana”.

Fermo restando che, a tutela della salute umana, il Ministero della salute e l’Ispra hanno prontamente provveduto a diramare le informazioni riguardanti questo pesce, allertando i servizi veterinari delle Regioni e delle Asl e affiggendo avvisi nei porti siciliani, è sempre bene dare risalto a questa notizia, per evitare che cittadini e pescatori non professionisti, ignari del pericolo, ne consumino le carni. Anche se è impossibile che venga trovato nei mercati ittici, visto che per legge ne è assolutamente vietata la vendita.

giovedì 21 novembre 2013

L'ALLUVIONE SARDA E I FANTOCCI IMPICCATI. - Pino Cabras




Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d'acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l'elenco di piaghe descritte nel Libro dell'Esodo, gli ha dato la definizione di "piena millenaria". La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d'acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie. 

I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l'Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e "prevalente" che sta a monte. 

È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d'asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di "sviluppo" che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia.

Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell'abusivismo: dove un tempo c'erano stagni e dove scorrevano magri torrenti.


Le "piene millenarie", proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti.
Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d'arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.

Olbia è cresciuta in fretta, è un piccolo emblema dell'ideologia della crescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il PIL veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L'onda del PIL era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All'acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l'acqua della montagna, e tutto è stato devastato.


Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l'emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev'essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un'amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico. Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) "piani di risanamento". Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si "risanava", senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio.


Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c'erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul "rischio alluvione". La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d'apertura di Repubblica. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.

Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi.
Proprio un geologo, Fausto Pani, sardiniapost.it, in veste di autore del PAI (Piano stralcio per l'assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».


Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall'alluvione è Terralba, nell'oristanese.

Ho visto in TV il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio.»

Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese». Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l'Orinoco.
Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l'ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato.

Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al PIL. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il PIL dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere.

Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è "costruire oppure no": è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.