domenica 11 gennaio 2015

La follia economica dell'Europa non può continuare - Joseph Stiglitz


"Finalmente, l’America sta mostrando segni di ripresa dalla crisi che esplose alla fine della amministrazione del Presidente George W. Bush, quando la quasi implosione del suo sistema finanziario inviò onde d’urto in tutto il mondo. Ma non si tratta di una forte ripresa; al massimo, il divario tra dove l’economia dovrebbe essere e dove si trova oggi non si sta allargando. Se si sta chiudendo, lo sta facendo molto lentamente; il danno provocato dalla crisi sembra essere a lungo termine.
La rovina dell'Europa
D’altronde, potrebbe andar peggio. Dall’altra parte dell’Atlantico, ci sono pochi segni persino di una ripresa modesta del genere di quella statunitense: la differenza tra dove l’Europa è e dove sarebbe dovuta essere in assenza della crisi, continua a crescere. In gran parte dei paesi dell’Unione Europea, il PIL procapite è inferiore a quello che era prima della crisi. Un mezzo decennio perduto si avvia rapidamente a diventare un decennio intero. Dietro le fredde statistiche, ci sono vite rovinate, sogni infranti e famiglie che vanno in pezzi (o che non si formano) mentre la stagnazione – in alcuni luoghi la depressione – prosegue un anno dietro l’altro. L’Unione Europea ha persone di talento, con elevata istruzione. I suoi paesi membri hanno sistemi giuridici forti e società ben funzionanti. Prima della crisi, aveva persino economie ben funzionanti. In alcuni posti, la produttività oraria – oppure il tasso di crescita – era tra i più alti al mondo.
La follia dell'austerità
Ma l’Europa non è una vittima. E’ vero, l’America ha mal condotto la sua economia; ma non si può dire che gli Stati Uniti abbiano agito in modo da far pesare la ricaduta globale della crisi sull’Europa. Il malessere l’Europa se l’è provocato da sola, a seguito di una sequenza decisioni economiche negative senza precedenti, a cominciare dalla creazione dell’euro. Per quanto concepito per unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa; e, in assenza della volontà politica di creare le istituzioni che avrebbero consentito alla valuta unica di funzionare, il danno non viene sbrogliato. L’attuale disordine in parte deriva dall’aver aderito alla fiducia da tempo mal riposta in mercati ben funzionanti, senza imperfezioni di informazioni e di competizione. Anche l’arroganza ha giocato un ruolo. Come altrimenti si spiega il fatto che, anno dopo anno, le previsioni delle conseguenze delle loro politiche da parte dei dirigenti europei siano state costantemente sbagliate?
Quelle previsioni erano sbagliate non perché i paesi dell’Unione Europea non sono stati capaici di attuare le politiche prescritte, ma perché i modelli sui quali quelle politiche si basavano erano a tal punto pieni di difetti. In Grecia, ad esempio, le misure intese ad abbassare il peso del debito hanno di fatto lasciato il paese più appesantito di quello che era nel 2010: il rapporto debito-PIL è cresciuto, a seguito dell’impatto brutale della austerità della finanza pubblica sulla produzione. Il Fondo Monetario Internazionale ha, almeno, ammesso questi fallimenti intellettuali e politici.
La scomparsa della democrazia
I dirigenti europei restano convinti che una riforma strutturale deve stare in cima alle loro priorità. Ma i problemi che essi indicano erano visibili negli anni precedenti alla crisi, ed allora non impedivano di crescere. Quello di cui l’Europa ha bisogno, più che di una riforma strutturale all’interno dei singoli paesi, è una riforma della struttura stessa dell’eurozona, ed una inversione delle politiche di austerità, che più di una volta non sono riuscite a riavviare la crescita economica. Coloro che pensavano che l’euro non sarebbe potuto sopravvivere hanno ripetutamente avuto torto. Ma su una cosa i critici hanno avuto ragione: senza un riforma della struttura dell’eurozona, e senza una inversione dell’austerità, l’Europa non si riprenderà.
Il dramma dell’Europa è lungi dall’essere superato. Uno dei punti di forza dell’Unione Europea è la vitalità delle sue democrazie. Ma l’euro ha tolto ai cittadini – specialmente nei paesi in crisi – la possibilità di pronunciarsi sui loro destini economici. Ripetutamente gli elettori si sono liberati di coloro che erano in carica, insoddisfatti per l’indirizzo dell’economia – con il risultato di ritrovarsi con nuovi governi che hanno proseguito sullo stesso indirizzo imposto da Bruxelles, Francoforte e Berlino. Ma quanto a lungo si può continuare in questo modo? E come reagiranno gli elettori? Dappertutto in Europa abbiamo constatato l’allarmante crescita dei partiti estremisti e nazionalisti, che si contrappongono ai valori dell’Illuminismo che hanno consentito all’Europa di avere successo. In alcuni luoghi stanno avanzando ampi movimenti separatisti.
La questione greca
Ora la Grecia sta mettendo sul tavolo un’altra prova per l’Europa. Il declino del PIL in Grecia a partire dal 2010 è di gran lunga peggiore di quello con il quale si misurò l’America durante la Grande Depressione degli anni ’30. La disoccupazione giovanile è superiore al 50 per cento. Il Governo del Primo Ministro Samaras ha fallito e adesso, a seguito dell’incapacità del Parlamento a individuare il nuovo Presidente greco, il 25 gennaio saranno tenute elezioni generali anticipate. Il partito di opposizione di sinistra Syriza, che è impegnato a rinegoziare i termini del salvataggio della Grecia da parte dell’Unione Europea, è in testa nei sondaggi. Se Syriza vince ma non prende il potere, una ragione principale sarà la paura della risposta dell’Unione Europea. La paura non è la più nobile delle emozioni, e non fa crescere quel genere di consenso nazionale del quale la Grecia ha bisogno per andare avanti.
Fermare la follia economica europea
Il tema non è la Grecia. E’ l’Europa. Se l’Europa non cambia le sue procedure – se non riforma l’eurozona e non revoca l’austerità – un contraccolpo popolare diventerà inevitabile. La Grecia, in questa occasione, può mantenere la rotta. Ma questa follia economica non può proseguire all’infinito. La democrazia non lo permetterà. Ma quanta sofferenza ancora l’Europa dovrà sopportare prima che sia ripristinata la ragione?" 
Joseph Stiglitz, economista e saggista statunitense, premio Nobel per l'economia nel 2001, insegna alla "Graduate School of Business" presso la "Columbia University"

sabato 10 gennaio 2015

le nuove meravigliose foto di saturno dalla sonda cassini. - 92DRAGO1



Nel mese di Marzo la sonda Cassini è stata particolarmente occupata con alcuni sorvolo spettacolari mirati all'osservazione di come stanno cambiando le tempeste intorno al polo nord di Saturno con l'evolversi del grande sistema di tempeste dalla forma esagonale. Saturno è mozzafiato come sempre, ed i suoi anelli e le loro ombre non smettono mai di creare quadri davvero incredibili.

https://www.youtube.com/watch?v=6rSy_3a7ssM

venerdì 9 gennaio 2015

Ismett: arriva la scure dei tagli botta e risposta Crocetta-Faraone. - Paolo Patania



I timori di chi difende il centro trapianti che opera in collaborazione con l’università di Pittsburgh è che le cesoie del governo regionale non risparmino neanche questa struttura sanitaria, che costa 94 milioni all’anno, ed è considerata un’eccellenza. Il sottosegretario renziano: ”No alla normalizzazione di un centro tra i più avanzati”. Ma Crocetta lo zittisce: ”E’ viceministro all’istruzione, è logico che non sappia cosa fa il ministro alla Salute”.

E' polemica sull’Ismett, il centro trapianti che opera a Palermo in collaborazione con l’università di Pittsburgh. La vicenda si trascina da qualche mese e, nei prossimi giorni, quando l’Ars inizierà a discutere le riforme – che in buona parte saranno tagli in tutti i settori dell’Amministrazione regionale – dovrebbe entrare nel vivo. Su questo tema, da qualche giorno, va in scena un batti e ribatti tra il presidente della Regione, Rosario Crocetta, e il sottosegretario alla Pubblica istruzione Davide Faraone, molto vicino a Renzi.
I timori di chi, da sempre, difende l’Ismett - e tra questi c’è Faraone – è che i tagli non risparmino neanche questa struttura sanitaria, considerata un’eccellenza. I numeri sono noti. Per l’Ismett la Regione siciliana, ogni anno, stanzia 94 milioni di euro. Di questi, meno di 40 milioni di euro vengono impiegati come Drg (acronimo che sta per Diagnosis related groups, ovvero Raggruppamenti omogenei di diagnosi), che è il sistema di retribuzione che le pubbliche amministrazioni pagano nel nostro Paese ai soggetti privati che operano nella sanità in base alle prestazioni effettuate. Mentre con il resto dei fondi – regionali – si occupa di sperimentazione gestionale.
“L’Ismett non è una Asp – ha detto Faraone – Sono preoccupato da come si sta gestendo la vicenda Ismett in Sicilia. Avverto sintomi di ‘normalizzazione’ di un’istituzione di rilevanza nazionale che in quindici anni ha ottenuto risultati straordinari grazie all’innovativo partenariato pubblico-privato con UPMC, una delle organizzazioni sanitarie più avanzate nel mondo” (Upmc è l’acronimo di University of Pittsburgh Medical Center, cioè l’università di Pittsburgh).
Pronta la replica di Crocetta: “Probabilmente il sottosegretario Faraone non conosce la vicenda Ismett di Palermo, d’altro canto è sottosegretario all’Istruzione e capisco che non sa cosa faccia il ministro della Salute”. La convenzione tra Regione e Università di Pittsburgh è scaduta lo scorso 31 dicembre. “Quella convenzione – dice Crocetta all’Adnkronos – trovava ragione sulla base della sperimentazione. La condizione affinché l’Ismett potesse essere riconosciuto come centro di cura per la ricerca scientifica era che venisse incardinata nel sistema sanitario. E il percorso è stato concordato con il Ministero della Salute e dell’Economia”. Non è in discussione il rapporto con gli Usa, aggiunge il presidente della Regione. Ma l’Ismett non dovrà più trasferire tutti gli utili, “come ha fatto con la vecchia convenzione, a Pittsburgh. Da questo momento – conclude Crocetta – comincia un altro percorso. L’università di Pittsburgh non può essere padrona dell’Ismett che è pagato dalla Regione”.
Faraone, da parte sua, ricorda i due commi contenuti nella legge di Stabilità nazionale. Sono i commi 607 e 608, voluti, tra gli altri, dal senatore siciliano del Nuovo centrodestra del ministro di Angelino Alfano, Marcello Gualdani, con i quali “al fine di agevolare la prosecuzione dell’investimento straniero nell’Istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione di Palermo… la Regione siciliana è autorizzata fino al 31 dicembre 2017 ad incrementare la valorizzazione tariffaria dell’attività sanitaria del predetto Istituto” (sembra del 7 per cento).
Si profila una diversità di vedute, se non uno scontro, tra il governo nazionale – appoggiato dal centrodestra – che vorrebbe addirittura aumentare i fondi pubblici all’Ismett (a spese della Regione siciliana), addirittura “con riferimento agli anni 2013 e 2014” (quindi pure con gli arretrati!) e la Regione che invece sembra avere altre idee. Quali? Qualche tempo fa le ha sintetizzate il presidente della commissione Sanità dell’Ars, Pippo Di Giacomo, esponente del Pd. Che non ha mai parlato di tagli all’Ismett, ma ha soltanto detto che se l’Istituto per i trapiani vorrà continuare a percepire dalla Regione 94 milioni di euro all’anno, dovrà assicurare 94 milioni di prestazioni sanitarie ogni anno.
Insomma, non è possibile che l’Ismett continui a introitare oltre 50 milioni di euro di fondi regionali per sperimentazione gestionale. Dice Renato Costa, segretario regionale della Cgil medici: “La storia è sempre la stessa: l’Ismett è o non è un servizio sanitario regionale? Se è un servizio sanitario regionale deve rispettare le regole che rispettano tutti gli altri. Non ci possono essere tariffe diverse. Questa storia della sperimentazione gestionale sarebbe dovuta durare sei anni. Poi è stata prorogata per altri tre anni. Ora siamo arrivati a quindici anni. Non è possibile continuare così”.
Nei giorni scorsi in difesa dell’Ismett è intervenuto il professore Luigi Pagliaro, tra i sostenitori, nella seconda metà degli anni ’90, di questa ‘Piattaforma trapiantologica”.

Oggi, però, molte strutture sanitarie pubbliche della Sicilia sono in affanno. E’ giusto continuare a mantenere la “sperimentazione gestionale” dell’Ismett con i Pronto Soccorsi dell’Isola al collasso a causa dei tagli dei posti letto voluti per risanare il settore?

Bernard Maris, tra le vittime di Charlie Hebdo anche l’economista “no-global”. - Salvatore Cannavò

Bernard Maris, tra le vittime di Charlie Hebdo anche l’economista “no-global”

Si firmava "Oncle Bernard" (Zio Bernard) ed era consigliere della Banca di Francia. Keynesiano convinto, era molto critico con l'austerità europea e proponeva una cancellazione di una parte del debito.

Non solo vignettisti. Non solo presunti nemici dell’Islam, ma anche un economista di valore, giornalista e umorista, uomo poliedrico capace di rientrare nella categoria dell’altermondialismo e, allo stesso tempo, di sedere nel Consiglio generale della Banca di FranciaBernard Maris, Oncle Bernard (zio Bernard), come si firmava su Charlie Hebdo, economista nato nel 1946 a Tolosa, è tra le dodici vittime dell’attacco mortale al settimanale francese. Una morte che sa di beffa perché Maris è di quelli che non ha esitato a inchiodare l’economia occidentale, ed europea, alle proprie responsabilità.
Estimatore di John Maynard Keynes, a cui ha dedicato uno dei suoi libri, candidato al Parlamento dai Verdi, Oncle Bernard ha sempre avuto una spiccata sensibilità di sinistra. Che lo ha portato a divenire membro del consiglio scientifico di una delle associazioni che hanno dato vita al movimento anti-globalizzazione, Attac France. Ma, oltre a un impegno politico e civile, ha frequentato anche l’accademia e l’economia ufficiale. Era associato in scienze economiche e professore all’Istituto di studi europei dell’Université Paris VIII. E, in virtù di queste qualità oltre che di un’evidente volontà di contrappeso politico, nel 2011 viene nominato dal presidente del Senato di allora, il socialista Jean-Pierre Bel, nel consiglio economico della Banca di Francia. A lui si è riferito il governatore francese, Christian Noyer, nel condannare ieri l’attacco definito “un atto codardo e barbaro contro la libertà di stampa e quelli che la difendono”. Persone di grandi ideali, “tra le quali il nostro amico e collega Bernard Maris, un uomo di cuore, di cultura e di una grande tolleranza. Ci mancherà tanto”.
Tra i suoi scritti si ritrovano testi dai titoli non convenzionali come Ah Dieu! que la guerre économique est jolie !, (“Dio, quanto è bella la guerra economica”) oppure Lettre ouverte aux gourous de l’économie qui nous prennent pour des imbéciles (“Lettera aperta ai guru dell’economia che ci prendono per imbecilli”) ma anche Marx, ô Marx, pourquoi m’as-tu abandonné ? (“Marx, o Marx, perché mi hai abbandonato?”). Tra le sue proposte non convenzionali per risolvere la crisi economica ne spiccano due: il default del debito pubblico perché “tutti i Paesi europei – come ha scritto – dovranno, prima o poi, rassegnarsi a cancellare una parte del debito. Occorre rinegoziare la parte che supera il 60% del Pil”. Maris era però anche fautore del “reddito minimo di esistenza” un “reddito da elargire a ciascun essere umano, ricco o povero, da conservare per tutta la vita e cumulare con qualsiasi altro reddito o patrimonio”. Un modo per sganciarsi dal lavoro in una società che il lavoro non lo garantisce più.
Nel numero di Charlie Hebdo uscito il 7 gennaio, Maris si è distinto anche per una recensione positiva dell’ultimo libro di Michel HouellebecqSottomissione, attorno al quale le polemiche non sono mancate e non mancheranno anche in relazione all’attentato di ieri. Al romanziere francese, Maris aveva già dedicato un libro Houellebecq economista, i cui romanzi hanno una “intelligenza del mondo contemporaneo impregnata di economia”. “Così come, leggendo Kafka, scrive Maris, comprenderete che il vostro mondo è una prigione e, leggendo Orwell, che il cibo che si serve a tavola è una bugia, leggendo questo aspetto economico di Michel Houellebecq saprete che la colla che frena i vostri passi, vi rammollisce, vi impedisce di muovervi e vi rende così tristi e così tristemente patetici, è di natura economica”. I tre guerriglieri killer hanno ucciso anche questo.
da il Fatto Quotidiano dell’8 gennaio 2015

Tiziano Renzi, lo Stato paga i debiti del padre del premier Matteo Renzi. - Davide Vecchi



A saldare i debiti del padre ci pensa il governo del figlio. 
Debiti, tra l’altro, concessi da una banca guidata da un fedelissimo del figlio, già in società con il fratello del cognato, a sua volta socio in un’altra azienda di famiglia riconducibile alla madre. Cose che capitano in casa Renzi. La vicenda è complessa e gli intrecci sono molti, come gli attori coinvolti.
Tutto ruota attorno alla Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6.
ALLA CHIL POST rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier. Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro. 

Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai. Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto.
Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai.
Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni. Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento. Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva. 

E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia. E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato.
“La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana. Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi. Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia. Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro. Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito.
IERI, DONZELLI assieme ad altri due consiglieri di minoranza, Paolo Marcheschi e Marina Staccioli, ha presentato un’interrogazione al governatore Rossi per chiedere spiegazioni. “Ci appare a dir poco indecente che i debiti creati dall’azienda di famiglia del premier siano stati pagati con soldi pubblici concessi in un momento in cui la crisi porta un imprenditore al suicidio ogni cinque giorni e in un Paese in cui l’accesso al credito è una delle maggiori difficoltà, insieme alla pressione fiscale, che riscontrano le aziende”, dice Donzelli. Da Rossi, prosegue, “vorremmo sapere perché la gestione dei fondi è stata affidata a Fidi senza alcuna gara, se e come ha valutato la domanda presentata da Chil, se la garanzia non deve essere revocata in caso di modifiche aziendali che trasformano radicalmente la società come è avvenuto alla Chil e, infine, se reputa corretto ed etico il comportamento della famiglia Renzi”. Secondo Donzelli “non dovrebbe essere prerogativa della Regione pagare, tramite fidi, i debiti dell’azienda di famiglia del presidente del Consiglio e del segretario del partito di maggioranza. E men che meno prerogativa dello Stato”.


Il Fatto Quotidiano del 8 Gennaio 2015


http://www.huffingtonpost.it/2015/01/08/tiziano-renzi-stato-paga-debiti-padre-premier_n_6434368.html

La strage di Parigi, i conti non tornano. CharlieHebdo. - Aldo Giannuli



"Come in tutti i “grandi casi” (Kennedypiazza FontanaPalme11 settembre, morte di Osama bin Laden ecc. ec.), anche in questo di Parigi, i conti non tornano e ci sono un sacco di cose da spiegare:


1. Come mai un obiettivo sensibile -come la redazione di Charlie Hebdo- era così debolmente protetto? Vista da questo angolo visuale, la vignetta che presagiva l’attentato appare come una cosa più sinistra di un semplice presentimento.


2. I servizi francesi sono fra i migliori del mondo ed hanno una scuola di pensiero molto avanzata, ma poi si fanno fregare in questo modo da tre ragazzi che vanno in giro armati di kalashnikov a fare strage di giornalisti? A quanto pare, sembra che non abbiano alcun controllo dell’ambiente jihadista presente sul proprio territorio, al punto di non essere capaci di monitorare neppure i reduci dalle guerre mediorientali.


3. E le armi, gli attentatori, dove se le sono procurate? Portate appresso dalla Siria? E i francesi se le sono fatte passare sotto il naso? Bella groviera sono i controlli! La mala vita, come suggerisce Loretta Napoleoni sul Fatto? Ma, da sempre la malavita è la cosa più infiltrata dalla polizia, per cui, se anche la cosa è sfuggita prima, ora dovrebbe essere relativamente (dico relativamente) agevole risalire agli attentatori.


4.Gli attentatori sono provetti professionisti del mitra”, anzi no, “sono principianti che fanno errori da recluta come intrecciarsi sulle rispettive traiettorie di tiro durante la ritirata” e sbagliano pure indirizzo al primo colpo. La maggioranza dei giornali è del primo parere (professionisti), il Corriere della sera (8 gennaio) invece mette in risalto i diversi errori che fanno pensare a persone di recente addestramento. Mi sembra più plausibile la seconda ipotesi.


5. A proposito di errori: ma voi dove avete mai visto dei terroristi che vanno a fare un’azione portandosi appresso la carta di identità che, poi, dimenticano in auto? L’unico caso che mi ricordo è quello dello “sventato” brigatista che smarrisce il borsello a Firenze con dentro le chiavi del covo milanese di Montenevoso. Ma non stava andando a fare un’azione e nel borsello non c’era un documento di identità. Non è che, per caso, qualcuno ha volontariamente lasciato la carta di identità di un altro per depistare le indagini?


6. Meno che mai si ricordano terroristi che agiscono perdendo tanto tempo durante la fuga e dopo aver avuto ben due scontri a fuoco con auto della polizia: si attardano a dare il colpo di grazia ad un agente, raccattano scarpe, poi lasciano un guanto….


7. E’ ragionevole supporre che i giornalisti della sovrastante agenzia, fuggiti sul tetto e che hanno registrato le immagini che vediamo, abbiano subito telefonato alla polizia avvisando di quel che stava accadendo. Ed altrettanto avranno fatto, via radio, le prime due auto della polizia direttesi in rue Appert. Considerando il tempo necessario al completamento dell’azione, alle manovre per risalire in macchina, sostenere due scontri a fuoco a distanza di poco (il primo in Alèé Verte, il secondo in boulvard Richard Lenoir), fare inversione di marcia, freddare l’agente, raccattare la scarpa, ecc. debbono essere passati diversi minuti (stimiamo non meno di 20-25) per arrivare in boulevard Voltaire e poi via sino a Porte de Pantin. E non è scattato alcun blocco della zona? Nel pieno centro di Parigi, non devono essere state poche le auto della polizia in zona. E Parigi non ha un traffico scorrevolissimo.


8. Poi il preteso autista del complotto è arrestato, cioè si è arreso, o meglio si è costituito e, peraltro, avrebbe un alibi: non si capisce niente. Ovviamente è possibile che il giovanotto sia effettivamente fra gli attentatori e che, vistosi perduto, si sia volutamente consegnato, dopo aver messo insieme un qualche alibi ovviamente da verificare. Ma potrebbe anche darsi che effettivamente non c’entri, il che farebbe traballare tutto l’impianto investigativo attuale dando fiato all’ipotesi della carta di identità lasciata per depistare.


Insomma, resto dell’idea che la pista della strage jihadista sia quella nettamente più probabile, perché coerente con tutto un quadro formatosi da 10 anni in qua, questo però non vuol dire che nella questione non possano esserci altre “manine” di ben altra qualità. E neppure che gli attentatori non siano stati lasciati fare, magari perché qualche sentore c’era, ma non ci si aspettava una cosa di questa gravità. O che gli organi inquirenti non abbiano altri scheletri nell’armadio, che non c’entrano con la strage, ma che qualche aspetto della strage potrebbe portare alla luce e che, invece, occorre tener nascosti. O anche che nella vicenda le mani che intervengono a vario titolo (mandanti, organizzatori, utilizzatori occasionali, infiltrati, esecutori, intervenuti marginali ecc.) siano decisamente più di due, quattro o sei…


Insomma, molto probabilmente la strage è islamica, però… che gran puzza di bruciato!" 

http://www.beppegrillo.it/2015/01/la_strage_di_parigi_i_conti_non_tornano_charliehebdo.html

Eolico, il 2014 fa segnare record a Danimarca e UK.

Eolico, il 2014 fa segnare record a Danimarca e UK

  • Le due nazioni hanno chiuso lo scorso anno con risultati eccellenti sul fronte della produzione eolica.
  • (Rinnovabili.it) – Nonostante i mercati emergenti abbiano rubato la scena in fatto di investimenti e nuova capacità per le energie rinnovabili, in Europa c’è ancora chi grazie alle fonti alternative compie veri e propri record. Parliamo di Regno Unito e Danimarca, due Paesi che nel 2014 sono stati benedetti dal vento. Una “benedizione” che si è tradotta con veri e propri picchi produttivi di energia green. A ottobre dello scorso anno, infatti, le pale eoliche scozzesi sono state in grado di alimentare oltre tre milioni di case grazie ad una produzione di ben 982,842 MWh; si tratta, a conti fatti, di un quantitativo di energia elettrica pari 126% della domanda della Scozia. I risultati eolici scozzesi hanno giocato una parte importante nelle performance del Regno Unito che, stando ai dati forniti dal gestore della rete, ha confermato nell’ultima settimana dello scorso anno come l’eolico sia arrivato al 15% del mix nazionale, abbastanza da soddisfare i bisogni di oltre 6,7 milioni di famiglie della Gran Bretagna.

    Sulla scia delle ottime performance britanniche c’è anche la Danimarca che proprio in questi giorni ha rivelato come il vento contribuisca finalmente al 39% del mix energetico nazionale; ovvero ben 6 punti percentuali in più rispetto al 2013.
    Secondo i media locali, il gestore della rete avrebbe confermato che la quota di energia eolica è addirittura diminuita rispetto ai picchi all’inizio del 2014, quando questa fonte copriva ben il 41,2% della fornitura energetica. Un risultato di cui si è vantato per primo il Ministro per il Clima Rasmus Helveg Petersen che dai microfoni dell’emittente DR ha annunciato come la nazione sia oramai prossima a raggiungere gli obiettivi europei del 2020. “Raggiungeremo sicuramente i nostri target. Abbiamo stabilito un record unico al mondo che dimostra che siamo in grado di raggiungere il nostro obiettivo finale, vale a dire fermare il riscaldamento globale”.
    E non sembrerebbe essere da meno neppure la Germania che, sempre grazie alle performance dell’eolico offshore ha prodotto 8,9 TWh di energia eolica nel mese di dicembre.