La caccia al boss di Cosa nostra dura da 27 anni. Come ha potuto sfuggire alla cattura così a lungo? Secondo un magistrato avrebbe goduto delle coperture delle logge segrete e - particolare importante - potrebbe nascondere i documenti che si trovavano nel covo di Totò Riina.
Le ultime tracce “pubbliche” di una “caccia” che dura da 27 anni si fermano alla sera dell’11 gennaio 2017, quando a palazzo San Macuto, in commissione Antimafia, il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato anticipò alla commissione, in quel momento presieduta da Claudio Fava, “un fatto molto particolare, che ci ha dato dei segnali di lettura, a mio avviso di grande interesse”. E cioè che poco dopo l’emissione di due ordinanze di custodia cautelare, “una a carico di Firenze Rosario + 9″, Firenze Rosario era considerato una specie di figlioccio di Matteo Messina Denaro, e un’altra a carico di “Loretta Carlo + 13” per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, con i conseguenti sequestri, “tra il 4 e il 6 gennaio dei ladri sono penetrati all’interno della casa di Francesco Guttadauro, nipote di Matteo. L’hanno messa a soqquadro, hanno rubato delle televisioni, dei frigoriferi”. Erano le 20.30 circa, e subito dopo il magistrato ha chiesto di passare in seduta segreta, terminata alle 22.30. Sono chiuse in quelle due ore gli sviluppi pubblici (naturalmente solo per i commissari dell’Antimafia) più aggiornati delle indagini sulla cattura dell’ultimo corleonese stragista, Matteo Messina Denaro, un “carnefice sanguinario, che ha ucciso persone innocenti e bambini” e che in Sicilia hanno chiamato Diabolik, con quel misto di ammirazione e simpatia che ha circondato come un’aura il suo mito di imprendibile “primula rossa”, ultimo sopravvissuto “eccellente” di una catena di protezioni e complicità che in Sicilia ha radici antiche negli apparati dello Stato. Complicità cementate nel trapanese sullo sfondo di logge segrete in cui accanto agli uomini in grembiule e cappuccio sedevano gli uomini di Cosa Nostra. E che gli hanno consentito di costruire, con relazioni e consenso, una rete affaristico clientelare senza uguali e precedenti, incistata nel tessuto sociale, ma anche istituzionale: negli ultimi decenni è stato un fantasma evocato ad ogni retata che in Sicilia ha interrotto brillanti carriere politiche e manageriali, spedito in carcere imprenditori di successo con agganci nei palazzi romani, colpito burocrati massoni appesi alla spesa pubblica.
Ha resistito per 27 anni alla macchia, superando il poco invidiabile primato di Totò Riina (26 anni). Ed è riuscito a resistere anche ai processi delle stragi contro i giudici Falcone e Borsellino, dimenticato da magistrati e investigatori, sfuggendo all’etichetta di stragista del ’92; per quelle del ’93, inchiodato dai pentiti che ne hanno descritto il ruolo operativo, è condannato all’ergastolo dai giudici di Firenze. Per 22 anni le tracce giudiziarie di Matteo Messina Denaro si erano fermate alla fine di febbraio 1992, quando con Giuseppe Graviano guidò a Roma il commando di killer (trapanesi e di Brancaccio) che doveva uccidere Giovanni Falcone, richiamato poi in Sicilia da Totò Riina che aveva cambiato idea: doveva essere una strage.
Per 22 anni giudici e investigatori che indagavano sugli episodi del ’92 lo avevano dimenticato, nonostante le accuse di Giovanni Brusca e di Balduccio Di Maggio, e quelle di Vincenzo Sinacori e Ferro, mosse negli anni ’90, che lo indicavano come uno dei leader della strategia terroristico eversiva di attacco allo Stato. Perché questo ritardo di 22 anni nel processare MMD per strage? “Perché – è la risposta del pm Gabriele Paci nella requisitoria del processo di Caltanissetta in cui MMD è l’unico imputato – l’attenzione si focalizza su Mariano Agate che viene indicato erroneamente da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara (come il capo della Provincia di Trapani, ndr): un errore marchiano. Un errore cui si rimedia in corso d’opera’’. Catturato nel 1982 dai carabinieri dell’allora capitano Nicolò Gebbia due anni dopo essere stato sorpreso in auto con il boss Nitto Santapaola e altri tre uomini d’onore catanesi a poca distanza dal luogo dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano – iscritto alla loggia segreta Iside 2, punto d’incontro di boss e colletti bianchi e frequentata da vescovi, commissari di polizia, prefetti, ufficiali dell’esercito – e poi condannato per le stragi come componente della cupola regionale, Agate, si scoprirà dopo, nelle formali gerarchie mafiose era “solo” il capo del mandamento di Mazara.
Distrazioni, superficialità ed errori sono una costante nella lotta alla mafia in terra trapanese: tranne pochi, brillanti e motivati, investigatori – da quelli della Polizia Rino Germanà (“che aveva il difetto di chiamare spesso in ufficio il giovane Matteo ed è vivo per miracolo”) e Francesco Misiti (“che doveva fare la stessa fine), ai sottufficiali dei carabinieri Santomauro, Di Pietro, Sciarratta, che hanno deposto nel processo – chi indagava, ha detto Paci, ha preferito voltarsi dall’altra parte, anche dopo le stragi del ‘92: “Quando arrivò Bonanno, nel 1994, alla guida del commissariato di Castelvetrano – ha detto il pm – il fratello e il cognato di Francesco Messina Denaro avevano ancora il porto d’armi, il padre di Matteo era un ‘signor nessuno’ e tutti cercavano Totò Minore, morto nel 1982″. Coperture iniziate negli anni ’60, quando Francesco Messina Denaro , “era campiere dei feudi D’Alì (famiglia di proprietari terrieri, banchieri, imprenditori, uno di loro, senatore, è stato sottosegretario all’Interno, ndr) e come tutti i campieri si conoscevano i soprusi: ‘ma nessuno l’ha scritto’’’. Erano anni di soffiate mirate a protezione del boss: “Il maresciallo Santomauro che nell’86 compie una perquisizione non lo trova, e non lo trova tutte le volte che va a casa a trovarlo”, e di intimidazioni, più o meno velate: il figlio Matteo, che allora aveva 26 anni, “scrive al comandante dei carabinieri di Castelvetrano: ‘mio padre è uscito, va a lavorare non scocciate, non venite a cercarlo perchè ci da fastidio’. La lettera è agli atti”.
Nel trapanese paura, distrazioni e complicità, divisi da una linea sempre più sottile, bendano gli occhi agli apparati, con esiti amaramente grotteschi: “Nessuno – ha detto il pm Paci – aveva il coraggio di dire che Peppe Ferro (boss poi pentito, ndr), che ancora oggi gode di vitalità, si presentava in aula in barella, catatonico, e quando la polizia andava via si rimetteva i pantaloni e andava a sparare”.
Bastano queste distrazioni a spiegare ritardi e latitanza, in un contesto di sostanziale impunità che ha consentito a MMD di muoversi liberamente per il mondo seguendo i suoi affari? Dove nasce, in buona sostanza, il potere che lo protegge e lo rafforza? Nella requisitoria il pm Paci ha fornito due spunti: la massoneria e le carte di Riina. “A Trapani – ha detto – nelle logge massoniche gli iscritti stavano insieme ai mafiosi. Non appartenevano alle tradizionali obbedienze, erano coperte, dunque segrete. A Trapani c’è stato l’unico processo in Italia per associazione segreta, l’unica applicazione della legge Spadolini”. E il pentito Giuffrè “dice che Provenzano gli fa capire che allo svuotamento del covo di Riina partecipa MMD”. E ha aggiunto: “Dire che Matteo Messina Denaro è in possesso di quelle carte recuperate nel covo mai perquisito di via Bernini è attribuirgli un potere non indifferente di ricatto da utilizzare alla bisogna, ma è un problema che non possiamo porci in questa sede”. L’unica certezza, per il pm nisseno, è che “i Messina Denaro sono i custodi dei segreti e dei forzieri di Totò Riina”.
1) continua