Smaltire miliardi di dispositivi di protezione sarà un problema per l'ecosistema. Una cooperativa sociale bolognese ha ideato un sistema per il lavaggio certificato delle mascherine.
Guanti, mascherine e protezioni per i medici in corsia. L’emergenza covid-19, in un attimo, ha fatto scomparire dall’agenda i messaggi e gli allarmi ambientalisti lanciati nei mesi scorsi dai ragazzi di Fridays for Future. Questione di priorità, si dice: la salute delle persone viene prima della crisi ambientale del Pianeta e della produzione “usa e getta” di rifiuti non riciclabili. Eppure, oggi che l’emergenza covid-19 in Italia sembra essersi attenuata, gli ambientalisti si leccano le ferite dopo quattro mesi di produzione e utilizzo di prodotti monouso come mascherine e guanti per proteggersi dal virus.
Ma visto che ormai i dispositivi di protezione individuale sono entrati a far parte della nostra quotidianità e lo resteranno ancora per un po’ (probabilmente fino a quando sarà trovato il vaccino ma gli scienziati sono già lì a preconizzare future epidemie), qualcuno ha già ideato dei rimedi per far convivere l’esigenza di protezione sanitaria con quella ambientale. La cooperativa sociale bolognese “Eta Beta, diversamente professionali”, che dà lavoro a ragazzi svantaggiati e molto attiva in Emilia per le operazioni di sanificazione delle ambulanze, nelle ultime settimane ha stretto un accordo con “Zero Waste Italy” per un progetto innovativo: il lavaggio delle mascherine certificate DM e un processo che porti al noleggio delle stesse portando così a una riduzione, fino al minimo indispensabile, della produzione di nuovi dispositivi di protezione individuale. È l’economia circolare delle mascherine.
Il progetto è nato a fine giugno grazie alla collaborazione con “Zero Waste Italy” e “Zero Waste Europe” – la rete italiana dei rifiuti zero – ed è stato presentato durante un incontro con una delegazione di imprenditori e sindaci del settore del tessile di Prato interessati all’economia circolare. Alla riunione erano presenti anche Matteo Francesconi, assessore all’Ambiente del Comune di Capannori (Lucca), all’avanguardia in Italia per la raccolta differenziata, e il sindaco di Carmignano (nel pratese), Edoardo Prestanti. Oltre alla collaborazione tra comuni, la Regione Emilia Romagna ha firmato un protocollo per far sì che questo progetto si moltiplichi il più possibile, prima a tutto il territorio regionale e poi anche in altre parti d’Italia.
L’obiettivo del progetto di “Eta Beta” è quello di azzerare le mascherine usa e getta. Ognuno avrà il proprio dispositivo e, quando vuole, potrà portarlo a lavare se usato o sporco. Poi sarà la cooperativa sociale a organizzare la consegna e il ritiro dei dispositivi. Il sistema funziona così: dopo aver acquistato mascherine certificate con marchio CE, la cooperativa “Eta Beta” si fa carico del processo del lavaggio industriale – certificato – che avviene con detersivi ecolabel e senza l’uso di cloro prima di garantire il ritiro delle mascherine usate e la riconsegna dei dispositivi sanificati.
Il tutto avviene all’interno di un container nella sede bolognese della cooperativa – con tanto di lavatrice incorporata – in cui viene gestito il processo certificato di lavaggio e detergenza delle mascherine. Il vero “business” della cooperativa però non si basa tanto sul lavaggio, quanto sulla gestione del ritiro e della consegna dei dispositivi individuali. L’obiettivo di “Eta Beta” però non si fermerà solo alle singole mascherine perché una volta che il processo sarà pienamente attivo – e quindi la produzione ridotta al minimo – il tutto potrà essere applicato per sanificare gli altri dispositivi di protezione individuale usati dai lavoratori sanitari durante l’emergenza covid: i camici, gli scafandri, le cuffie e tutti gli altri prodotti usa e getta. Anche perché, facendo i dovuti scongiuri, questi dispositivi potrebbero essere molto richiesti in futuro nel settore sanitario.
La cooperativa individua tre vantaggi del progetto: in primo luogo quello ambientale “evitando il consumo di dispositivi monouso e il loro difficile smaltimento”, quello economico “incentivando un considerevole risparmio per le aziende e per le famiglie” e infine l’aspetto educativo in quanto “ci deve interessare quello che usiamo e buttiamo”.