lunedì 3 agosto 2020

Un Ponte a 5 stelle. - Tommaso Merlo



La corsa per accaparrarsi i meriti del Ponte è iniziata da mo’. Ma se era per i vecchi partiti il Ponte di Genova lo avrebbero ricostruito i Benetton che all’inaugurazione si sarebbero seduti in prima fila col doppiopetto di sartoria e un ghigno in faccia. Pregustando i mega profitti e il pugno di mosche dei processi a loro carico. Andazzo italiano. Inconcludenti calvari giudiziari coi parenti delle vittime fuori dal tribunale con dei cartelli in mano e gli automobilisti a farsi spennare su una rete fatiscente. Come nulla fosse. In attesa del crollo successivo. Il solito andazzo. Delle stragi impunite. Della legge del più forte che coincide col più ricco. Ed invece questa volta è andata diversamente. Eccome se lo è. Il Ponte di Genova crollò a pochi mesi dal 4 marzo, una tornata elettorale anomala che portò alla nascita di un governo che Conte definì “populista” ma in senso buono e cioè al servizio del popolo dopo decenni in cui la politica s’inginocchiava davanti a potentati di ogni risma. Sembrava l’inizio di un nuovo paradigma. Un entusiasmo e una voglia di cambiamento che crollato il Ponte determinò un fatto storico. Il governo si schierò subito e con forza dalla parte dei cittadini. Ma non a chiacchiere. A fatti. Invece di nascondersi dietro al peloso garantismo, la politica si assunse le sue responsabilità. Escludendo i Benetton dalla ricostruzione e avviando la procedura per la revoca delle concessioni. Fu la determinazione del Movimento a portare al Modello Genova nonostante resistenze e allarmismi dei soliti uccellacci del malaugurio. Che perfino la Lega fosse dalla parte dei Benetton lo si è scoperto solo dopo. Non hanno mai avuto il coraggio di ammetterlo apertamente per paura di perdere voti. I cittadini avevano del resto innalzato il Ponte a simbolo del nuovo corso politico ignorando le ambizioni dell’ego selvatico di Salvini che un anno dopo mandò tutto all’aria. Un voltafaccia che riapriva le porte ai Benetton. Ma Salvini è solo un membro della foltissima tribù dei voltagabbana che scorrazzano per il Belpaese. E così quello che rimane della fu sinistra si decise a sporcarsi le mani con quegli impestati del Movimento facendo nascere un nuovo governo. Una fu sinistra che nel sottobosco lobbistico ci ha sguazzato per decenni collezionando perle preziose proprio come quella di regale le autostrade ai Benetton. Cambia comunque trama. Il coriaceo ministro Toninelli viene messo alla porta ed iniziano mesi di silenzi tombali e ritardi giurassici intorno alla bega autostradale. I corvacci del malaugurio gracchiano di goduria prefigurando l’ennesima sconfitta degli impestati a 5 stelle. Una seconda TAV e un pronto ritorno agli splendori del vecchio regime partitocratico. Melina, veti incrociati, perverso retroscemismo. Ma la fu sinistra è troppo molle. Col 4 marzo ha rischiato l’estinzione e non può permettersi di buttar via un’insperata opportunità di riscatto. A mettere fine al calvario ci pensa Giuseppe Conte salendo in cattedra e siglando un clamoroso e storico accordo. Le autostrade ritornano ai loro legittimi proprietari e cioè ai cittadini italiani in attesa che i responsabili del crollo paghino fino all’ultimo centesimo di responsabilità. Una vittoria dei cittadini, una vittoria della politica, una vittoria dello Stato e dell’interesse pubblico su quello privato, ma anche una innegabile vittoria degli impestati del Movimento. Una vittoria da ricordare. Con tutti i media e i soldi dalla sua parte, il vecchio regime partitocratico potrebbe riuscire a tornare in sella prima o poi. Ma comunque vada a finire, il Ponte a 5 stelle di Genova rimarrà lì, in piedi. A ricordare a tutti quanto sia dura la battaglia per il cambiamento, ma quanto alla fine valga la pena combatterla anche in un paese martoriato come il nostro.

https://repubblicaeuropea.com/2020/08/03/un-ponte-a-5-stelle/

Cerimonia di inaugurazione del ponte 'Genova San Giorgio'



Dal minuto 31,46 potrete ascoltare il discorso di Renzo Piano che è riuscito a commuovermi; la frase che più mi ha colpito è che "costruire un ponte è bellissimo, perché il ponte è un segno di pace".
by-c.

Immigrati, virus, tamburi e Briatore: levategli il mojito. - Selvaggia Lucarelli

Immigrati, virus, tamburi e Briatore: levategli il mojito

Deve essere un’estate durissima per Matteo Salvini, a giudicare dal livello della sua propaganda social e non solo social. Un livello così infimo e spassoso allo stesso tempo che c’è solo una spiegazione: i mojitos quest’estate ha cominciato a berseli tutti Luca Morisi. Senza zucchero di canna, succo di lime, menta e acqua di seltz: solo rum, però. Ecco dunque la speciale classifica delle minchiate postate da Matteo Salvini negli ultimi giorni.
1)Il leader della Lega esprime solidarietà a Mario Conte, sindaco di Treviso, per i 129 richiedenti asilo positivi al Covid nell’ex caserma Serena. Sindaco che afferma: “Il nuovo focolaio all’interno della struttura genera un danno incalcolabile, anche in termini di immagine, faccio causa alla Stato!”. “Sacrosante parole, questi sono i sindaci della Lega!”, tuona Matteo Salvini. Peccato che sia il sindaco di Treviso che Salvini si dimentichino, nell’ordine, che a) Treviso è stato uno dei primi focolai d’Italia e una delle prime zone rosse d’Italia, per cui “l’immagine” della città – se vogliamo scomodare un termine da soubrette – era già compromessa dal 7 marzo. b) Il 9 luglio a Treviso è arrivato un pullman di badanti dal Kosovo che rientravano in città per tornare ad assistere gli anziani: due di queste erano positive. Quindici persone di quel pullman sono risultate irrintracciabili. In quel caso il sindaco non ha parlato di bomba sanitaria e di cause al governo italiano. Si vede che se devono svuotare il pappagallo agli anziani trevigiani, gli stranieri sono un po’ meno stranieri degli altri.
2) Alla luce dell’arrivo dei migranti in Italia, Matteo Salvini mette le mani avanti e scrive: “Se tornerà l’epidemia, sappiamo chi ne sarà colpevole”. In pratica lui gira senza mascherina nel tour delle piazze stringendo mani e maneggiando i cellulari di chiunque, va in Senato rifiutandosi di indossare la mascherina, dice che il saluto col gomito è la fine della specie umana, strizza l’occhio ai no-mask, dice che non manderà sua figlia a scuola con la mascherina, lancia il messaggio che la mascherina sia una specie di bavaglio che il governo vuole mettere agli italiani e se torna l’epidemia è colpa dei migranti. Certo. I leghisti non si ammalano, basta bagnarsi con l’acqua del Po. O stringere la mano di Salvini, Gesù aveva le stimmate, lui ha gli anticorpi sui palmi. Gli dai il cinque e sei immune.
3) Posta un video di Flavio Briatore scrivendo a caratteri cubitali la frase dell’imprenditore contro il Governo: “VIVONO IN UNA BOLLA, NON HANNO IDEA DELLA VITA REALE!”. Cioè, secondo Salvini Flavio Briatore è l’esperto di vita reale. Attendiamo che citi Attilio Fontana come esperto in trasparenza bancaria.
4) Scrive: “Non vi sembra un’Italia al contrario? Quando lo spiego all’estero non ci credono!”. Ora, sarebbe interessante sapere a chi spieghi l’Italia all’estero Matteo Salvini. E in che lingua, visto che il suo unico interlocutore al momento sembrerebbe quell’Orban che a maggio gli scrisse saggiamente via sms “Dear friend! Congratulations. L’Ungheria è con te, Matteo! Viktor”. Della serie: fino a “dear friend” magari ci arriva, il resto glielo scrivo in italiano così capisce.
5) Per frignare a proposito del processo Open Arms, Salvini posta la foto di sua figlia che è in un’età – 7 anni – in cui non può ancora incazzarsi per la sua esposizione pubblica a fini propagandistici. E commentando la foto scrive: “Per amore dei nostri figli, per il bene dell’Italia, in difesa dei nostri valori e del nostro futuro. Possono anche processare un uomo, ma non potranno mai arrestare le nostre idee e la nostra voglia di Libertà”. Inutile dire che sogno un futuro in cui quella bambina, per spiegare la sua idea di libertà, a 18 anni, con una crocchia di dreadlocks in testa come Carola Rackete, speronerà un gazebo della Lega alla guida di una ruspa.
6) Salvini posta una notizia di cronaca di quelle che scuotono il paese come neppure riuscì a fare la strage di Erba e cioè: “Torino, immigrato tunisino strappa una collana a una 70enne. I passanti lo inseguono e lo bloccano”. Segue il commento: “E io a processo?”. Giuro che ho riflettuto almeno 15 minuti sul nesso tra i due avvenimenti ma non l’ho compreso. Cioè, se un tunisino delinque, Salvini non deve essere processato? E se anziché tunisino fosse stato messicano, cosa avrebbe scritto, qualcosa tipo “E noi qui mangiamo ancora nachos al formaggio?”. E se il ladro fosse stato italiano, il processo andava bene? Perché nel caso informo che ieri un italiano ha tentato di compiere un furto nel duomo di Arezzo, un altro italiano ha rubato una moto a Modugno, uno ha commesso un furto alla Ip di Sondrio, un altro ha rubato una borsa a Genova e insomma, dovrebbe essercene abbastanza per compensare il tentato furto del tunisino e chiedere il 41 bis per Salvini, se il criterio è “se delinquono solo gli stranieri niente processo”.
7) L’account ufficiale “Lega Salvini Premier” posta una foto del premier Conte, di Roberto Fico e di Teresa Bellanova che suonano i tamburi. Il commento per sbeffeggiarli è: “Mentre l’Italia affonda, loro suonano il tamburo”. Tamburo che chissà, al leghista medio deve sembrare anche uno strumento vagamente esotico, che evoca danze tribali e cannibalismo. Purtroppo l’account “Salvini premier” ignora il fatto che si trattava di un’iniziativa di inclusione per i disabili. Speriamo che nella foga di questi giorni Salvini non chieda di rispedire anche loro, in Tunisia.

Re Juan Carlos abbandona la Spagna e si trasferisce all’estero dopo inchieste per evasione. -

Re Juan Carlos abbandona la Spagna e si trasferisce all’estero dopo inchieste per evasione

All'origine della decisione di Juan Carlos le indagini avviate dai pubblici ministeri svizzeri e spagnoli sui presunti fondi nei paradisi fiscali. Il suo legale ha assicurato in una dichiarazione che, nonostante la partenza, il suo cliente resta a disposizione della Procura.
All’origine della decisione di Juan Carlos le indagini avviate dai pubblici ministeri svizzeri e spagnoli sui presunti fondi nei paradisi fiscali. Il suo legale ha assicurato in una dichiarazione che, nonostante la partenza, il suo cliente resta a disposizione della Procura.Non è ancora ufficialmente indagato, anche se fonti giudiziarie svizzere non escludono che lo sarà in futuro. Ma le pesanti ombre dell’inchiesta per evasione fiscale in patria e in Svizzera che lo ha coinvolto hanno spinto il re emerito di Spagna Juan Carlos ad abbandonare la Spagna e a lasciare il palazzo della Zarzuela per trasferirsi all’estero. Lo ha annunciato al figlio Felipe VI, attuale regnante, che ha ricevuto una sua accorata lettera in cui spiega la sua decisione “di fronte alla ripercussione pubblica che alcuni eventi passati nella mia vita privata stanno generando” e ha espresso al suo erede la sua “assoluta disponibilità ad aiutarvi per facilitare l’esercizio delle vostre funzioni con la tranquillità e la calma che richiede la tua alta responsabilità. Lo esigono la mia storia e la mia dignità di persona”. Il re, scrive El Pais, lo ha ringraziato per la sua decisione, esprimendo “sincero rispetto e gratitudine”.
A marzo re Felipe aveva deciso di rinunciare all’eredità del padre e aveva tolto la pensione ai genitori proprio a seguito dell’apertura da parte dell’autorità anticorruzione di un’inchiesta su cento milioni di euro che Juan Carlos avrebbe ricevuto su un conto svizzero a nome di una fondazione panamense della casa reale saudita. Soldi che sarebbero stati ripartiti fra l’allora re e altre persone affinché l’appalto per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità fra la Mecca e Medina, nel 2011, venisse assegnato a ditte spagnole, su cui pendono sospetti di corruzione.
L’indagine dell’anticorruzione per far luce sull’appalto risale al 2018. Il coinvolgimento di Juan Carlos, padre dell’attuale re Felipe, è nato da una telefonata fra l’imprenditore Juan Villalonga e Corinna zu Sayn-Wittgenstein, amica del sovrano da molti ritenuta sua amante. L’inchiesta però sarà è stata limitata al periodo successivo al 2014, anno della sua abdicazione: nel momento in cui ha lasciato il trono al figlio, Juan Carlos ha perso l’immunità legata al suo ruolo.

domenica 2 agosto 2020

Processi e altre indagini, cosa resta di Consip. - Marco Lillo

Processi e altre indagini, cosa resta di Consip

4 anni dopo - Agosto 2016: iniziano le intercettazioni dell’inchiesta sulla centrale acquisti. Ad oggi l’ex ministro è a processo, il padre dell’ex premier non ancora archiviato.
Il 3 agosto del 2016, esattamente quattro anni fa, le microspie dei Carabinieri del Nucleo Tutela Ambiente, Noe, intercettavano per la prima volta Carlo Russo che parlava di Tiziano Renzi con Alfredo Romeo negli uffici romani dell’imprenditore, vicino alla Camera. I pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano si imbattono per puro caso in questo 33enne di Scandicci molto amico di Tiziano che si offre di aiutare Romeo nelle gare. Romeo si era aggiudicato provvisoriamente 3 lotti della gara più grande d’Europa: 2,7 miliardi in tutto per la pulizia e manutenzione dei palazzi pubblici italiani. Temeva di essere fatto fuori in graduatoria definitiva e di perdere così 609 milioni di euro. Inoltre era interessato a altre gare di Inps e Grandi Stazioni. Così inizia quattro anni fa il caso Consip. Gli incontri proseguono. Le microspie registrano le chiacchiere in libertà di Russo e Romeo.
Secondo le informative dei Carabinieri, Romeo un mese dopo offre a Russo nell’incontro del 14 settembre 2016 un informale “accordo quadro” che prevedeva dazioni (mai avvenute) di 30 mila euro al mese per “T.” (alias Tiziano Renzi) e 5 mila a bimestre per “CR” (Carlo Russo per i pm). Romeo in cambio voleva entrare in contatto con Luca Lotti e con l’Amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.
Tiziano Renzi si è sempre dichiarato all’oscuro di tutto. L’indagine è funestata subito dalle fughe di notizie a favore degli indagati. Il 21, 22 e 23 dicembre Il Fatto svela le indagini sulle fughe suddette in una serie di articoli: il ministro Luca Lotti e il generale dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia (ex comandante della Toscana) sono indagati perché avrebbero spifferato l’esistenza dell’indagine a Luigi Marroni e il comandante generale dei Carabinieri, Tullio del Sette, è indagato per un “allarme” dato a Luigi Ferrara, presidente della Consip. L’inchiesta poi nel 2017 passa per competenza alla Procura di Roma e cambia obiettivi e passo.
Quattro anni dopo cosa resta dell’inchiesta Consip? Al tagliando, la Procura di Roma non fa una bella figura. Vediamo la sorte dei protagonisti della vicenda.
Luca Lotti Accusato di aver rivelato l’inchiesta.
La Procura di Roma a dicembre 2018 ha chiesto il rinvio a giudizio sia per l’ex ministro Luca Lotti che per il generale Emanuele Saltalamacchia per favoreggiamento. Per entrambi invece i pm hanno chiesto l’archiviazione per la rivelazione di segreto. Lotti e Saltalamacchia avrebbero rivelato un segreto che non era proprio del loro ufficio, per i pm. Il Gip Gaspare Sturzo però ha rigettato questa impostazione e alla fine il Gup Niccolò Marino ha disposto – contro il parere dei pm – il rinvio a giudizio anche per rivelazione di segreto. Al processo, fissato il 13 ottobre, Lotti e il generale Saltalamacchia dovranno difendersi da entrambe le accuse. Dalle intercettazioni del maggio 2019 agli atti di un’altra inchiesta, quella di Perugia su Luca Palamara, emerge l’ostilità di Lotti verso i pm romani: il deputato Pd probabilmente si aspettava la richiesta di archiviazione per entrambi i reati.
Nell’indagine Consip, chi fa il suo nome è l’ex ad Luigi Marroni, teste che i magistrati ritengono affidabile. É il 20 dicembre del 2016 quando i carabinieri del Noe dice: “Ho appreso in quattro differenti occasioni da Vannoni, dal generale Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Lotti di essere intercettato”. Ferrara, spiega Marroni, lo avrebbe saputo dall’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette. Tutti hanno respinto le accuse. Il processo è in corso.
Tiziano Renzi L’incontro a Firenze con Romeo e l’amico Carlo Russo.
L’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi hanno chiesto l’archiviazione per il traffico di influenze illecite ipotizzato da loro stessi all’inizio. L’amico Carlo Russo, che spendeva il nome di Tiziano per trattare compensi, sarebbe per i pm un millantatore. Conclusione mantenuta anche quando i pm hanno individuato, grazie allo studio delle celle telefoniche agganciate dai rispettivi cellulari, un incontro a tre a Firenze il 16 luglio 2015 tra Alfredo Romeo, Carlo Russo e Tiziano Renzi. Incontro negato dai protagonisti. Il Gip Gaspare Sturzo ha accolto la richiesta di archiviazione per alcuni episodi minori di traffico di influenze ma non ha voluto archiviare i due episodi più importanti: la gara Consip e la gara Grandi Stazioni. Sturzo ha chiesto alla Procura di fare nuove indagini e i pm hanno sentito nei mesi scorsi come persone informate dei fatti l’ex tesoriere del Pd renziano Francesco Bonifazi (estraneo all’inchiesta) e hanno risentito l’amministratore di Consip, Marroni.
A settembre potrebbero seguire l’orientamento del Gip e chiedere il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi. Oppure insistere con la richiesta di archiviazione.
Alfredo Romeo A giudizio nella capitale per corruzione.
Arrestato dai pm di Roma nel marzo 2017 e poi scarcerato dalla Cassazione. Ora è a processo sia a Napoli che a Roma con l’accusa di corruzione. A Roma perché avrebbe consegnato circa 100mila euro all’ex dirigente Consip Marco Gasparri (che ha già patteggiato), in cambio di favori. A Napoli il processo riguarda fatti di corruzione minore in Campania. Su entrambi i processi incombe la sentenza della Cassazione che va nel senso dell’inutilizzabilità delle intercettazioni captate dai pm di Napoli. Il Consiglio di Stato e la Cassazione intanto hanno confermato l’esclusione dalla gara Consip per la società di Romeo. L’imprenditore resta in ballo a Roma per l’ipotesi più delicata politicamente: quella di traffico di influenze illecite contestata a lui in concorso con Carlo Russo e Tiziano Renzi. Come gli altri è in attesa anche lui delle determinazioni dei pm di Roma dopo il rigetto della richiesta di archiviazione e la richiesta di nuove indagini.
John Woodcock Il pm al centro di accuse infondate.
Il pm di Napoli nell’estate del 2017 è stato indagato ingiustamente per rivelazione di segreto in concorso con la sua amica Federica Sciarelli e anche per falso in concorso con il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto. Tutte le accuse erano infondate. Come poi la Procura di Roma ha dovuto ammettere chiedendo e ottenendo l’archiviazione, Woodcock non era la fonte del Fatto. La sua amica Federica Sciarelli non era il tramite della trasmissione delle notizie. Inoltre i giudici hanno stabilito che Scafarto ha fatto errori ma non c’era nessun falso voluto. Soprattutto Woodcock non c’entrava nulla perché aveva solo chiesto a Scafarto di fare un capitolo apposito dell’informativa sull’argomento servizi segreti.
Sciarelli è stata perquisita, nel luglio 2017, e i Carabinieri le hanno sequestrato e analizzato il cellulare perché accusata ingiustamente di essere il tramite delle notizie al Fatto. Tutto falso.
Woodcock è stato sottoposto anche a un procedimento disciplinare tanto lungo quanto ingiusto dal Csm. Il magistrato era accusato di avere parlato con la giornalista Liana Milella mancando di rispetto al suo capo: il procuratore reggente Nunzio Fragliasso. Dopo un primo verdetto di censura del Csm e l’annullamento con rinvio della Cassazione, Woodcock è stato definitivamente “assolto” da ogni addebito nel giugno 2020. Luca Palamara, amico di Luca Lotti, si era interessato attivamente del procedimento contro Woodcock, partito nella consiliatura precedente quando lui era membro del Csm.
Giampaolo Scafarto Il maggiore silurato.
Il capitano dei Carabinieri che ha svolto l’inchiesta scrivendo molte cose sbagliate nelle sue informative è stato accusato dalla Procura di Roma di numerosi reati: dalla rivelazione di segreto al falso fino al depistaggio. La Procura di Roma – come per Woodcock – manifesta nei confronti del Carabiniere una pervicacia degna di miglior causa. Al padre di Matteo Renzi, Tiziano, i pubblici ministeri romani non hanno mai fatto una perquisizione o un sequestro di cellulare, mentre Scafarto ha subito due sequestri di cellulare. La Procura di Roma ha chiesto e ottenuto dal Gip nel gennaio 2018 per lui la sospensione dal servizio. Il Tribunale del Riesame però nel marzo 2018 l’ha annullata. Infine il gup Clementina Forleo ha disposto il non luogo a procedere per Scafarto su falsi, rivelazioni di segreto e depistaggi. Il capitano, nel frattempo divenuto maggiore, per i giudici (Gip e come detto prima anche tribunale del Riesame) non ha fatto nulla di penalmente rilevante. La Procura ha fatto ricorso e il processo è fissato il primo ottobre davanti alla Corte di Appello.

Amenità.

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Ungaretti: "M'illumino d'immenso"

Quasimodo: "Ed è subito sera"


Poche parole, molto pathos.