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martedì 9 febbraio 2016

Banche, emesse obbligazioni subordinate per 67 miliardi. I risparmiatori ne hanno in portafoglio per 59 miliardi.

Banche, emesse obbligazioni subordinate per 67 miliardi. I risparmiatori ne hanno in portafoglio per 59 miliardi

Il dato emerge da un appunto del dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia per il direttorio. Adusbef e Federconsumatori: "Via Nazionale sapeva dei rischi ma non ha informato. Ora il governo dia rimborsi integrali ai truffati. Le elemosine arbitrali accenderanno gli animi per ulteriori proteste".

Le obbligazioni subordinate emesse dalle banche italiane e finite nei portafogli di piccoli risparmiatori e investitori istituzionali ammontano a 67 miliardi di euro. Il dato emerge da un appunto del dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia per il direttorio, datato 30 dicembre 2015 e motivato con “le recenti vicende legate alla risoluzione delle crisi aziendali di quattro intermediari (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, ndr), che hanno generato una forte richiesta di informazioni sull’ammontare dei titoli subordinati emessi dalle banche”. Come è noto, infatti, erano proprio obbligazioni subordinate i titoli che sono diventati carta straccia, lasciando sul lastrico molti risparmiatori, in seguito al decreto salva banche varato dal governo il 22 novembre. Al netto dei titoli temporaneamente riacquistati dalle banche emittenti (circa 8,5 miliardi), le subordinate ora in circolazione sono pari a 59 miliardi.
A diffondere il documento è stata l’Adusbef, che insieme a Federconsumatori torna a chiedere al governo di “prendere in considerazione i rimborsi integrali dei truffati” perché la bozza di decreto che il consiglio dei ministri dovrebbe esaminare mercoledì “basata su otto indici presuntivi e nove elementi di valutazione, per valutare chi ha diritto ai risarcimenti, fissando perfino il limite in 100.000 euro, oltre ad essere un ulteriore papocchio giuridico e legale, conferma l’inaccettabile arbitrio di confondere i diritti con aiuti umanitari” e “le elemosine arbitrali accenderanno gli animi per ulteriori proteste dei truffati contro Governo, Consob, Bankitalia, quest’ultima attaccata ieri finalmente, dalla stampa economica internazionale, il Financial Times, per la sua inadeguatezza ed inutilità a gestire il pubblico risparmio e proteggere il sistema bancario”.
Peraltro, nota Adusbef, “perfino da questo documento (classificato come riservato, ma inviato al direttorio ‘anche per una eventuale diffusione all’esterno dell’Istituto’)”, emerge che via Nazionale “sapeva da molto tempo dei rischi tangibili delle obbligazioni subordinate, e ciononostante non ha attivato alcuna doverosa e trasparente informazione, per offrire la possibilità ai sottoscrittori retail di tali bond spazzatura con la direttiva Ue del bail-in del maggio 2014, quelle famiglie poi truffate ed espropriate dal decreto salva banche del 22 novembre 2015, di prendere cognizione sui loro rischiosissimi investimenti”.
La cifra vale l’11% del totale delle obbligazioni bancarie, che ammontano a 623 miliardi. I principali emittenti di obbligazioni subordinate sono le due maggiori banche italiane, Unicredit e Intesa Sanpaolo, con rispettivamente 22,8 e 14,4 miliardi di euro. Le obbligazioni emesse dalle prime dieci banche rappresentano l’83% del totale.

venerdì 23 gennaio 2015

Riforma banche popolari, esposto M5S-Adusbef a Consob per aggiotaggio. - Antonio Pitoni e Giorgio Velardi

Riforma banche popolari, esposto M5S-Adusbef a Consob per aggiotaggio

Nel mirino del grillino Barbanti la “fuga di notizie” sulla riforma che impone la trasformazione in spa delle dieci più grandi: “Nessuno è intervenuto per bloccare le contrattazioni sui titoli”. E con un’interrogazione chiede di verificare anche l’operato dell'authority presieduta da Vegas. Che una petizione online vuole abolire: "Funzioni passino all'Antitrust".

I rialzi record registrati in Borsa dai titoli delle dieci banche popolari interessate dalla riforma varata dal governo stanno per piombare sul tavolo della Consob. Con un esposto che il Movimento 5 Stelle sta mettendo a punto insieme all’Adusbef e che sarà trasmesso a breve alla Commissione nazionale per le società e la Borsa, nel quale, chiedendo di fare luce su quanto accaduto lunedì a Piazza Affari, si arriva ad ipotizzare addirittura il reato di aggiotaggio. Una vicenda che il deputato Sebastiano Barbanti, componente della commissione Finanze di Montecitorio, ricostruisce nei suoi passaggi salienti. “Tutto comincia venerdì scorso quando, nella frenetica rincorsa dell’annuncio, Matteo Renzi sceglie la vetrina della direzione del Pd per anticipare imminenti provvedimenti sul credito”, ricorda. Notizia ripresa all’indomani dai principali quotidiani nazionali che, però, iniziano a diffondere anche i primi dettagli della riforma, studiata per le popolari con attivi superiori agli 8 miliardi, citando (in alcuni casi) “fonti dell’esecutivo”. C’è perfino l’indicazione della data prevista per il via libera. Quella del martedì successivo, quando il decreto sarà poi effettivamente varato dal Consiglio dei ministri.
Governo esposto - Per il M5S non ci sono dubbi: si tratta di una vera e propria fuga di notizie che, dopo il primo generico annuncio del premier (il venerdì) e le anticipazioni della stampa (il sabato), ha determinato alla riapertura dei mercati (il lunedì) l’impennata delle quotazioni azionarie dei dieci istituti di credito interessati dal provvedimento. “Vogliamo che la Consob indaghi per chiarire se, come sospettiamo, la turbativa del mercato innescata dalla divulgazione di quelle notizie configuri il reato di aggiotaggio”, spiega Barbanti. Avvertendo che, in caso di inerzia della Commissione presieduta da Giuseppe Vegas, non è escluso “un ulteriore esposto” alla Procura della Repubblica. “Anche un bambino – aggiunge – avrebbe potuto prevedere le ripercussionidi quelle dichiarazioni alla riapertura delle contrattazioni”. Quando, effettivamente, i titoli delle popolari destinatarie del decreto sono schizzati alle stelle. Come nel caso di Bpm che ha guadagnato il 14,89%, Ubi il 9,68%, Creval il 9,63%, Bper l’8,51%, Banco Popolare l’8,33% e Popolare di Sondrio l’8,06%. “Peraltro – aggiunge l’esponente del M5S – è davvero inspiegabile perché, di fronte all’evidente fuga di notizie del fine settimana, né il governo né la Consob abbiano ritenuto di intervenire per bloccare le contrattazioni sulle popolari prima della riapertura dei mercati di lunedì”.
Vigilare sul vigilante – Ma non finisce qui. Perché se dopo la presentazione dell’esposto Barbanti si aspetta che l’organo di vigilanza sulla borsa faccia chiarezza sull’accaduto, con un’interrogazione parlamentare in commissione Finanze alla Camera il deputato chiederà al ministero dell’Economia di verificare se la stessa Consob “abbia assunto tutte le azioni prescritte normativamente in particolar modo in materia di aggiotaggio”. Insomma, una richiesta all’esecutivo di vigilare sul vigilante. Non solo, il deputato del M5S solleva anche un’altra questione. Dal momento che la riforma delle popolari è stata adottata per decreto che cosa accadrebbe se, in sede di conversione, l’articolo che la introduce venisse soppresso o modificato? Domanda che nell’interrogazione viene riproposta al Mef, con l’invito a valutare l’opportunità di “assumere iniziative volte a bloccare e sanzionare ogni forma di vendita allo scoperto (vendita di azioni senza averne la proprietà, nella speranza di comprarle a un prezzo più basso prima di consegnarle al compratore, ndr) sulle banche popolari quotate”. Per scongiurare, conclude Barbanti “nuovi possibili attacchi speculativi sui titoli, stavolta al ribasso”.
Tutto all’Antitrust - Intanto, l’Adusbef guidata da Elio Lannutti, che sta collaborando con il M5S per redigere l’esposto, continua la sua battaglia contro la Consob. L’associazione dei consumatori ha addirittura dato vita a una petizione online suchange.org per chiedere al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di abolirla trasferendone poteri e funzioni all’Antitrust. L’Adusbef denuncia nel testo come la vigilanza sulle banche sia ormai ridotta a uno “spezzatino” a quattro: “La Consob per l’attività finanziaria; la Banca d’Italia per quella strettamente bancaria; l’Ivass (ex Isvap) per le attività assicurative (che ormai, vista la massiccia diffusione di prodotti “misti”, è sempre più un mercato assicurativo-finanziario) e infine per la repressione delle condotte anticoncorrenziali l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”. La petizione mira inoltre a scongiurare l’idea del governo di “assorbire le competenze della Consob in Banca d’Italia”. Meglio sarebbe, secondo l’associazione dei consumatori, trasferirle all’authority per la concorrenza che, si legge nel testo, “sin dalle origini nel 1990, ha rappresentato una felice eccezione nel desolante panorama delle autorità indipendenti italiane”.

giovedì 3 gennaio 2013

Un miliardo in fumo in sei mesi. Ecco la socializzazione delle perdite finanziarie. - Costanza Iotti




Secondo le stime dell'Adusbef, negli ultimi dieci anni i risparmiatori hanno lasciato per strada qualcosa come 52 miliardi di euro di perdite, più di 46mila euro a testa per più di un milione di persone, un miliardo solo nei primi sei mesi del 2012. Ma il conto è al ribasso, perché tiene in considerazione solo i crac finiti in un'aula di un tribunale. Senza contare, quindi, le fregature del tutto legali.

Oltre un miliardo di euro. E’ il totale dei risparmi degli italiani andati in fumo soltanto nei primi sei mesi del 2012. E non per tasse, rincari o riduzione della busta paga causa cassa integrazione, ma per la malafinanza. Del resto la cosiddetta socializzazione delle perdite, contraltare della privatizzazione degli utili ora di gran moda nell’Europa della crisi che taglia il welfare a piene mani per tappare i buchi, è sempre stata di casa dove scorrono i soldi dei risparmiatori. Per dare un’idea delle cifre in gioco, secondo le stime dell’Adusbef i crac finanziari dal 2001 ai giorni nostri sono costati complessivamente 52 miliardi di euro che sono stati scuciti dalle tasche di 1,121 milioni di comuni cittadini, per una spesa media unitaria di 46.387 euro. E il calcolo è parziale, perché tiene conto solo dei casi finiti in Tribunale, ma infinite sono le vie, anche quelle legali, per privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Tanto più in Borsa, dove i risparmiatori meno avvezzi ai giochi di prestigio sono soprannominati il parco buoi, ma dove chi decide di giocare si assume il rischio d’impresa. Senza contare i costi dell’intervento pubblico, delle perdite di posti di lavoro e delle conseguenza per il territorio. Anche per l’anno che ci buttiamo alle spalle, quindi, ce n’è per tutti i generi e tipi.
I GRANDI CLASSICI DEL CRAC. Con un costo stimato, sempre dall’Adusbef, in 860 milioni di euro il primo e 160 milioni il secondo, sono stati i casi Deiulemar e Banca Network a fare la parte del leone nella prima metà dell’anno coinvolgendo oltre 42mila risparmiatori. Per il crac della compagnia di navigazione di Torre del Greco delle famiglie Della Gatta, Iuliano e Lembo è stato disposto il giudizio immediato con la prima udienza in calendario per il prossimo 11 marzo. Ma sarà lunga sdipanare la matassa di una vicenda che ha dell’incredibile, dove i milioni raccolti presso i risparmiatori, ma anche vip locali e capiclan, non venivano messi a bilancio e depositati direttamente sui conti correnti personali del capostipite degli armatori, senza alcun controllo alla faccia delle normative sull’antiriciclaggio.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ha commentato qualcuno. Che dire invece della vicenda di Banca Network Investimenti, Bni, il cui slogan era “Una banca efficiente. Sempre al tuo fianco”, salvo poi lasciare a piedi 69 dipendenti e 28mila correntisti che quest’estate si sono visti congelare i conti da un giorno con l’altro in attesa dell’intervento del Fondo di tutela dei depositi? Per non parlare della sorte degli obbligazionisti che avevano finanziato con oltre 32 milioni di euro la Sopaf dei fratelli Magnoni che aveva in mano la maggioranza della banca e che a sua volta è crollata in autunno sotto il peso di oltre 100 milioni di debiti. Ma che grazie alla riforma del diritto fallimentare in tema di concordati preventivi introdotta dal governo Monti con il decreto Sviluppo, viaggia ancora tra le tutele del concordato e il fallimento.
A secco, quindi, creditori e, ancor di più, i piccoli azionisti che soltanto nell’ultimo anno di scambi, in Borsa hanno assistito al tracollo del titolo che ha bruciato l’84% del suo valore. Proprio mentre il socio di maggioranza, Giorgio Magnoni fratello del più noto Ruggero, ex presidente di Lehman Brothers per l’Italia, “faceva affari d’oro nell’immobiliare sull’asse tra il Lussemburgo e la Germania”, come riportato dal quotidiano Mf lo scorso 12 dicembre. Immancabili, quindi, gli accertamenti in corso da parte della magistratura sulla vicenda Sopaf, come su quella di Banca Network che include gli investimenti in titoli rischiosi da parte dell’istituto A partire da quelli targati Lehman Brothers.
PRODOTTI BANCARI FINITI IN CLASS ACTION. Ma i soldi dei risparmiatori non finiscono solo nelle azioni delle società quotate in Borsa. Ci sono sia i prodotti finanziari più o meno strutturati, sia i banali conti correnti. Un’area piuttosto vasta e delicata, quindi, che quest’anno ha registrato il via della prima class action nei confronti di un gruppo bancario, Intesa SanPaolo. Oggetto del contendere, che potrebbe riguardare fino a 400mila clienti dell’istituto, alcune spese di conto che sono state introdotte dalla banca in sostituzione delle commissioni di massimo scoperto abolite per legge nel 2009 e giudicate illegittime da Altroconsumo, che ha promosso l’azione collettiva partita a settembre. Il termine per l’adesione è il prossimo 21 gennaio, mentre l’appuntamento in Tribunale a Torino per il conteggio finale delle adesioni è fissato per marzo.
In attesa degli esiti della più ampia inchiesta della magistratura sulla gestione della Banca Popolare di Milano di Massimo Ponzellini, si sta invece chiudendo con una conciliazione da almeno 40 milioni di euro la triste vicenda del convertendo allegro della Bpm, il bond ad alto rischio da 170 milioni di euro che era stato venduto nel 2009 senza la necessaria informazione a 15mila clienti della banca milanese oggi nelle mani di Andrea Bonomi. L’intesa, però, non porterà a grandi risultati per i consumatori secondo l’Aduc, unica associazione che non l’ha firmata commentando che “questi tavoli di conciliazione si risolvono in una buffonata a danno dei risparmiatori ed a vantaggio in primo luogo della Banca (che paga una piccola frazione di quello che dovrebbe sborsare), secondariamente delle associazioni che vi partecipano”.
MANCATI INCASSI. Notevole, poi, la lista delle fregature assolutamente legali. Come le uscite dal listino a prezzi convenientissimi per l’azionista di maggioranza, ma piuttosto deludenti per il piccolo investitore costretto giocoforza ad aderire alle Offerte pubbliche di acquisto (Opa) perché in minoranza. E’ il caso, per esempio, di Benetton, con la famiglia di Ponzano Veneto che a febbraio ha approfittato dei prezzi da saldo per ritirare dal mercato la società dei maglioncini a un controvalore di circa 270 milioni di euro pari a 4,6 euro per azione. Somma che secondo il Sole 24 Ore equivale pro quota a meno del solo valore degli immobili della società.
“Sempre meglio che niente”, commenta chi invece è rimasto a bocca asciutta. In caso di cambio di controllo di una società quotata, per offrire a tutti i soggetti coinvolti la stessa possibilità di guadagno, la normativa prevede infatti l’obbligo del lancio di un’Opa allo stesso prezzo per tutti gli azionisti. Legge che però si può aggirare. In prima istanza fermandosi alla soglia 29,99% del capitale, basta che non ci sia un accordo segreto con altri azionisti per avere comunque la maggioranza nelle assemblee dove si prendono le decisioni importanti senza pagare il dazio ai soci di minoranza. E’ proprio su questa ipotesi che sta indagando la Procura di Milano a proposito della vittoria del gruppo Salini sul rivale Gavio all’assemblea di Impregilo dello scorso luglio, che peraltro è stata dichiarata regolare dal Tribunale, anche se sulla sentenza pende un ricorso in appello. La questione non è da poco, anche perché tra la ragnatela di interessi che gravitano intorno alla società di costruzioni c’è l’appalto per il Ponte sullo Stretto di Messina con annesse penali da mezzo miliardo a carico dello Stato.
Ancor più delicato, coi tempi che corrono, il tema delle esenzioni dall’Opa nei casi accertati di salvataggio delle società in crisi. Come quello del gruppo Premafin-Fondiaria Sai che fu dei Ligresti che ha tenuto banco per tutto l’anno. E anche qui la Procura indaga, tra il resto, sull’ipotesi dell’esistenza di accordi irregolari nell’ambito dell’esenzione dal lancio dell’Opa concessa dalla Consob a Unipol, a patto che dal piano orchestrato da Mediobanca venissero cancellati i vantaggi previsti per la famiglia Ligresti, dato che avrebbero premiato l’azionista uscente e per di più responsabile del dissesto, lasciando a bocca asciutta gli altri investitori. Le clausole sono state cancellate, ma a fine luglio gli stessi Ligresti hanno fatto saltar fuori un ipotetico accordo segreto da 45 milioni con l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, che nella faccenda, in quanto creditore miliardario sia verso i Ligresti che verso Unipol, aveva tutti gli interessi a che l’operazione andasse a buon fine.
GRUPPI E CREDITI DA SALVARE. Ma quella del papello Nagel-Ligresti è sola una delle tappe della vicenda Ligresti al vaglio degli inquirenti tra Milano e Torino. Come è ancora tutta da giocare la partita entrata nel vivo nel 2012 sul salvataggio dei grandi gruppi quotati con una buona dose di debiti che non fanno dormire sonni tranquilli né ai banchieri, né ai grandi azionisti. E talvolta neppure allo Stato. Si va dall’immane debito dell’editrice del Corriere della SeraRcs, che coinvolge tutto quel che resta del gotha della finanza italiana che sul tema continua a prendere tempo, al buco del Monte dei Paschi di Siena, passando per Parmalat e Telecom Italia, a proposito della quale perfino un manager pubblico come Franco Bassanini si è appena unito al coro della richiesta di un incentivo statale, per aiutare la società soffocata da 30 miliardi di debiti frutto di una privatizzazione “sbagliata” ad aprire la rete agli altri operatori.
Quel che è certo, intanto, è che nel caso Unipol-FonSai i risparmiatori, inclusi quelli che avevano investito sulla compagnia delle Coop, oltre che con l’Opa mancata possono già fare i conti con l’evaporazione di investimenti per una somma complessiva compresa tra 300 e 400 milioni di euro. In quello del Monte dei Paschi, i soldi, 3,9 miliardi più altri 550 milioni potenziali per gli interessi, arrivano direttamente dal contribuente via ministero del Tesoro. Mentre su Parmalat pagano innanzitutto i dipendenti, che con la prevista chiusura di tre stabilimenti rischiano il posto di lavoro. Intanto l’azionista francese Lactalis si è premurato di vendere a Collecchio una sua società americana, portandosi a casa metà del tesoretto da 1,5 miliardi raccolto da Enrico Bondi con le azioni legali contro le banche per il crac di Calisto Tanzi, che era custodito nelle casse del gruppo. E che così ha finito col servire anche ad alleggerire i debiti dei francesi verso Mediobanca, che a Lactalis nel 2011 aveva prestato 410 milioni proprio per l’acquisto di Parmalat. Anche qui la magistrature è al lavoro, l’ipotesi a carico dei vertici della società è di appropriazione indebita. Ma è difficile che si arrivi a un punto prima di una decisione definitiva sulle sorti del centinaio di dipendenti italiani a rischio.