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sabato 2 aprile 2016

Petrolio in Basilicata, 850mila tonnellate di sostanze pericolose nei pozzi. “Eni beneficiaria dell’ingiusto risparmio”. - Thomas Mackinson

Petrolio in Basilicata, 850mila tonnellate di sostanze pericolose nei pozzi. “Eni beneficiaria dell’ingiusto risparmio”

Le dimissioni del ministro Guidi hanno messo in secondo piano le pesantissime accuse per reati ambientali della Procura di Potenza. Secondo i pm, grazie all'alterazione dei codici rifiuto, l'azienda ha risparmiato fino a 100 milioni sui costi di smaltimento. Anche le emissioni in atmosfera, sistematicamente in eccesso, venivano taroccate. La produzione, per ora, è sospesa. Intanto prosegue l'indagine dei carabinieri del Noe e non si esclude l'ipotesi di disastro ambientale.

Sei numeri su un foglio. Bastava cambiarne due per far splendere il sole nella valle del petrolio. Il rifiuto da pericoloso diventava innocuo, pronto per esser smaltito nei pozzi e nelle terre agricole della Val D’Agri, a un costo di 33 euro a tonnellata anziché 90 o 160. Un cambio dei “codici Cer” operato sistematicamente dai manager dell’Eni di Viggiano, con la complicità delle ditte incaricate dello smaltimento, che avrebbero reiniettato in un solo anno qualcosa come 854mila tonnellate di liquidi inquinanti, permettendo – secondo i pm – alla società del cane a sei zampe di risparmiare fino a 100 milioni di euro.
E’ solo un frammento della vicenda che ha sconvolto la Basilicata. Una storia che rischiava di finire in ombra per via delle più clamorose dimissioni del ministro Guidi, costretto a lasciare a causa delle intercettazioni con il compagno sullo sblocco del progetto Tempa Rossa, sul quale l’imprenditore aveva messo gli occhi. Invece l’indagine dei carabinieri del Noe sul fronte ambientale prosegue, e la procura di Potenza non esclude l’ipotesi di disastro ambientale. In ballo c’è il destino delle terre inquinate e il futuro dello stabilimento coi relativi guai occupazionali che già si profilano. Fino a segnare, forse, il definitivo tramonto della grande illusione del petrolio pulito in Val D’Agri.
Eni, il “principale beneficiario” – Sullo sfondo, resta anche il tema delle emissioni in eccesso, a completare l’opera di chi – per un qualche profitto e tornaconto ancora da chiarire – ha inteso nascondere per anni la reale capacità inquinante dell’impianto petrolifero, avvelenando l’ambiente. Sul punto Eni, come si conviene, ostenta sicurezza. Precisa che i sei dipendenti arrestati sono stati subito sospesi e che è in corso un’indagine interna. Sulle motivazioni che li avrebbero indotti a taroccare rifiuti pericolosi ed emissioni in eccesso trapela un malcelato stupore. I pm non contestano loro il peculato, Eni smentisce che possano aver ricevuto premi per i risparmi conseguiti illecitamente. E dunque le utilità di quelle condotte non avrebbero altro agente che l’azienda stessa che i pm indicano espressamente come “il principale beneficiario dell’ingiusto risparmio conseguito”. E tuttavia Eni non risulta tra i soggetti indagati. D’altra parte quello stesso risparmio appare risibile sia per un’azienda che fattura 200 miliardi l’anno e rispetto al rischio di finire nella bufera e vedersi sigillare gli impianti. Al momento, a quanto si apprende, la società presieduta da Emma Marcegaglia è impegnata proprio nel tentativo di scongiurare il sequestro del centro oli, contestando il nesso causale tra il suo funzionamento e la reiterazione del reato, come all’Ilva di Taranto. E anche in Basilicata si farà leva sul fattore occupazionale che non riguarda solo i 196 occupati diretti al Cova ma molti di più: gli ultimi dati pubblicati nel LR 2014 mostrano che hanno lavorato per le attività di Eni Distretto Meridionale 3.530 persone di cui 409 occupati diretti e 3.121 occupati indiretti nell’indotto oil&gas. I dipendenti da giorni stanno facendo manutenzione alle macchine ferme, la certezza è che “viste le perdite, se l’attività non riprende a breve non potremo garantirgli un lavoro”. E il ricatto è servito.
Scambio di codici. E le sostanze nocive finiscono nel pozzo – 
Poi c’è l’ambiente, poi. 
E’ l’ordinanza del Noe dei carabinieri il fulcro di questa storia che porta all’emissione di una cinquantina di provvedimenti cautelari e al sequestro preventivo dell’impianto Cova di Viggiano. Per l’alterazione dei codici rifiuto sono indagati vari manager e responsabili del centro, imprenditori dello smaltimento. L’elenco comprende funzionari della regione, otto manager dell’Eni nonché imprenditori affidatari di contratti di smaltimento. Tutti, secondo le accuse, contribuivano in vario modo a praticare e gestire il “traffico illecito di rifiuti”. Di queste condotte, al di là delle posizioni giudiziarie, resta il lascito di centinaia di migliaia di tonnellate di liquidi contenenti metidieanolammina (MDEA) e glicole trietilenico, sostanze tossiche che venivano comunemente smaltite come acque di produzione e reiniettate nel pozzo Costa Molina2, ubicato in agro di Montemurro (PZ), benché in realtà fossero “rifiuti speciali pericolosi” da trattare anziché nascondere sotto terra. Le cronache lucane sono piene di studi, rilevazioni e dossier che attestano da anni il riemergere degli inquinanti e degli scarti di estrazione/lavorazione degli idrocarburi. Dati che venivano smentiti dall’Eni e dalle autorità pubbliche, sulla scorta di certificazioni che l’inchiesta definisce senza fronzoli “false”.
Sforamenti e allarmi ignorati. Il sistema per nasconderli – False anche le attestazioni sulla capacità inquinante dei camini del centro Oli che, insieme ai residui di produzione, sono l’altro fattore di maggior impatto ambientale. Qui gli inquirenti hanno fatto un lavoro certosino tra intercettazioni e documenti, rilevando come gli allarmi per gli sforamenti dei limiti alle emissioni in atmosfera fossero sistematicamente falsati, per ricondurli ai valori delle prescrizioni e nasconderli alle autorità competenti, sempre allo scopo di non incorrere nel blocco delle attività del centro. A consentirlo era il sistema automatizzato di monitoraggio degli allarmi, che prevedeva l’invio di un sms a una lista di funzionari dell’Eni-Cova, con anche l’indicazione del punto di emissione (camino). Solo tra dicembre 2013 e luglio 2014 ne arrivano 208, tutti a indicare l’avvenuto superamento dei limiti di emissione di Nox So2.
Il Noe di Potenza accerta però che per molti avvisi scattava da parte dei vertici del Centro Oli una “condotta fraudolenta volta a nascondere agli enti di controllo le reali cause del problema e celare le inefficienze dell’impianto”. Nelle intercettazioni, ad esempio, i vertici della gestione ambientale del SIME di Eni, Vincenzo Lisandrelli e Roberta Angelini, si accordano su come giustificare gli sforamenti per farli apparire transitori, al fine di non palesare i persistenti problemi dell’impianto che possono causare problemi di carattere prescrittivo. Un trucco per abbattere il numero di sforamenti segnalati era quello di tenere aperta la comunicazione oltre le 24 ore previste, così da far rientrare più eventi in una sola.  “Appare chiaro”, scrivono i magistrati “che i problemi impiantistici che causano gli sforamenti delle emissioni in atmosfera del Cova hanno ripercussioni anche sulla qualità dei rifiuti liquidi che escono dal Cova e vanno a smaltimento presso i vari depuratori finali”. E’ il perfetto (quanto illecito) ciclo dei rifiuti: dove a un dato alterato ne segue un altro, lungo tutta la filiera che porterà l’ombra nera del petrolio più sporco sulla Val D’Agri.

venerdì 1 aprile 2016

Federica Guidi, storia dell’emendamento a favore di Tempa Rossa: dal tentativo notturno al via libera dopo ok Boschi. - Marco Palombi

Federica Guidi, storia dell’emendamento a favore di Tempa Rossa: dal tentativo notturno al via libera dopo ok Boschi

Nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 2014, la deputata M5s Liuzzi e le opposizioni protestano per la richiesta di modifica a firma dell'ex ministro dello Sviluppo che viene dichiarata "inammissibile". Va meglio con la legge di Stabilità, la responsabile per le Riforme accetta il provvedimento che riesce a passare con il voto di fiducia.

La prima notte è quella tra il 16 e il 17 ottobre 2014, quando le commissioni Ambiente e Attività produttive di Montecitorio stanno discutendo il decreto Sblocca Italia: quel testo rende, tra le altre cose, molto più facile costruire impianti petroliferi (e inceneritori) visto che li dichiara “infrastrutture strategiche per l’interesse nazionale”. Si procede a tappe forzate ed è notte quando la deputata M5S Mirella Liuzzi si accorge di uno strano emendamento che rende “strategiche” pure tutte le opere connesse all’attività estrattiva: gasdotti, porti, siti di stoccaggio. Proprio quello che serve al progetto Tempa Rossa, come vedremo. Più interessante, adesso, è notare che quell’emendamento era stato consegnato alle commissioni dal capo di gabinetto del ministro Federica Guidi e portava la sua firma: la rivolta delle opposizioni, e forse l’imbarazzo del Pd, causano una irrituale dichiarazione di inammissibilità per quel testo (un Gronchi rosa per un emendamento governativo).
Va meglio con la legge di Stabilità
La notte è quella tra il 12 e il 13 dicembre 2014 e siamo in commissione Bilancio in Senato. L’emendamento viene consegnato – come da prassi – dal ministero dello Sviluppo economico a Maria Elena Boschi, titolare dei Rapporti col Parlamento e gestore del traffico delle proposte governative. Stavolta il testo passa e viene recepito nella manovra poi approvata con la fiducia: non è chiaro, finché Boschi non ce lo spiegherà, con quale motivazione sia stata convinta dalla collega a inserire “l’emendamento Tempa Rossa” tra quelli da approvare. Pochi minuti dopo, comunque, Guidi avverte il fidanzato e s’inguaia.
Detto delle modalità notturne d’intervento della ex ministra, resta da spiegare cos’ha fatto in pratica. 
Breve riepilogo: il progetto Tempa Rossa ha il suo cuore nel giacimento lucano la cui concessione è appannaggio di Total (al 50%), Shell e Mitsui. I sei pozzi in Basilicata (più 2 da autorizzare) a regime dovrebbero produrre 50 mila barili al giorno, aumentando del 40% la produzione nazionale di greggio. Questo progetto ha già ottenuto una Valutazione di impatto ambientale positiva nel 2011. Qual è il problema allora? Quello che si fa col petrolio una volta estratto: bisogna portarlo a Taranto, stoccarlo e raffinarlo. È una vera fortuna che Eni disponga di un impianto proprio nella martoriata città dell’Ilva. E qui, però, cominciano i guai: cittadinanza, movimenti e (fino a un certo punto) pure i politici locali si oppongono a potenziare la capacità inquinante dell’impianto del Cane a sei zampe. Il motivo lo spiegò Arpa Puglia nel 2011: “L’esercizio di questi impianti comporterà un aumento delle emissioni diffuse pari a 10 tonnellate/anno che si aggiungeranno alle 85 tonnellate/anno già prodotte (con un incremento del 12%)”.
C’erano insomma problemi a fare i lavori al punto di approdo del petrolio estratto nel giacimento di Total e soci di Gorgoglione, in Basilicata: due siti di stoccaggio, un prolungamento del pontile e altre cosette. È qui che arriva l’ex ministro Guidi: l’emendamento prevede che l’autorizzazione unica per le opere “strategiche” valga anche “per le opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere accessorie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali” anche lontano dal giacimento. E se gli enti locali si oppongono? C’è il secondo comma: lo Sblocca Italia prevede che, in quanto strategiche, su queste opere alla fine decida il governo. Il via libera definitivo ai lavori a Taranto è arrivato il 19 dicembre 2015, quattro mesi fa. Lo ha firmato il ministro Federica Guidi. Non si sa se poi abbia avvertito il fidanzato.