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mercoledì 8 maggio 2024

Il codice di Hammurabi.

 

Il codice di Hammurabi è l'emblema della civiltà mesopotamica. Questa stele di basalto, eretta dal re di Babilonia nel XVII secolo a.C. è un'opera d'arte, di storia e letteratura, e il più completo compendio legale dell'antichità. Trasportato da un principe del paese di Elam in Iran 3700 anni fa, il monumento è stato esposto sull'acropoli di Susa tra gli altri prestigiosi capolavori della Mesopotamia. Questa stele di basalto fu eretta da re Hammurabi di Babilonia (1792-1750 a.C.) probabilmente a Sippar, città del Sole del dio Shamash, il dio della giustizia. Due documenti giuridici sumeri scritti da Ur-Nama, re di Ur ( 2100 a.C.) e Lipit-Ishtar di Isin ( 1930 a.C.) precedono il codice della legge di Hammurabi. Il testo, che occupa la maggior parte della stele, costituisce la ragion d'essere del monumento. La scena principale mostra il re che riceve la sua investitura da Shamash. Notevole per il suo contenuto giuridico, questo lavoro è anche una fonte eccezionale di informazioni sulla società, la religione, l'economia e la storia di questo periodo. Il testo è scritto in cuneiforme e in lingua accadica. Si divide in tre parti:- un prologo storico relativo all'investitura di re Hammurabi nel suo ruolo di " Protettore dei deboli e oppressi," e della formazione del suo impero e dei suoi successi;- un epilogo lirico che riepiloga il suo lavoro legale e ne prepara il perpetuarsi in futuro;- Questi due passaggi letterari descrivono quasi trecento leggi e decisioni legali che disciplinano la vita quotidiana nel regno di Babilonia. La parte legale del testo utilizza la lingua quotidiana ed è qui semplificata, perché il re voleva che fosse compreso da tutti. Tuttavia, le decisioni giuridiche sono tutte costruite nello stesso modo: una frase pone un problema di diritto o di ordine sociale; è seguita da una risposta nel futuro, sotto forma di sanzione per il colpevole con la soluzione di una situazione: Raggruppate in capitoli, le questioni affrontate riguardano le leggi penali e civili. I temi principali sono il diritto di famiglia, la schiavitù e il diritto professionale, commerciale, agricolo e amministrativo. Le misure economiche fissano i prezzi e gli stipendi. Il capitolo più lungo riguarda la famiglia, che ha costituito la base della società babilonese. Si tratta di fidanzamento, matrimonio e divorzio, adulterio e incesto, bambini, adozione e eredità, e i doveri delle infermiere dei bambini. Ogni aspetto di ciascun caso è affrontato, consentendo il maggior numero di osservazioni da fare.
Poiché la giustizia era una prerogativa reale in Mesopotamia, Hammurabi presenta una selezione delle decisioni giuridiche più sagge che ha dovuto prendere o ratificare.
Questa stele era tuttavia, più di uno strumento educativo. Era un codice delle regole e delle prescrizioni stabilite da un'autorità sovrana e quindi un codice di leggi. Non solo contiene un elenco di sentenze giudiziarie, ma anche un catalogo delle città e dei territori annessi al regno di Babilonia. La stele del re babilonese, costituisce un riassunto di uno dei più prestigiosi regni dell'antica Mesopotamia. Creato negli ultimi anni della vita del sovrano, era un testamento politico rivolto ai futuri principi, per i quali offriva un modello di saggezza e di equità. Il codice servì anche come modello letterario per le scuole degli scribi, che dovevano copiarlo. La stele è alta m 2,25 e larga 0,65 cm. La stele di Hammurabi è considerata un'opera d'arte e di letteratura. La stele, è una fonte eccezionale sulla società, religione, economia e storia dell'epoca.
Il testo è scritto nella lingua di Accadia, è suddiviso in tre sezioni:
Introduzione storica relativa al re Hammurabi al suo impero e alle sue imprese. Il testo descrive circa 300 sostanze illegali e decisioni legali che dovevano disciplinare la vita quotidiana dei babilonesi, la vita pubblica semplificata in modo tale da essere comprensibile a tutti. Comunque, ci sono coniate decisioni giuridiche in modo simmetrico, frasi condizionate che indicano un problema legale o sociale seguite da una risposta nel tempo presente a forma di rigore per colpa o per risolvere la questione, "...
Nella stele. ogni aspetto dei casi viene discusso, prendendo la maggior parte delle possibilità in considerazione. 

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lunedì 22 novembre 2021

Uno su 3 non usa la cintura in auto, il 50% dei bimbi è senza seggiolino. -



Studio Anas: italiani imprudenti, 2 giovani su 10 al telefono.

Italiani imprudenti alla guida: uno su tre non utilizza la cintura di sicurezza mentre è al volante, senza dispositivi di ritenuta la metà dei bambini a bordo e due giovani su dieci maneggiano impropriamente il telefono mentre l'auto è in marcia.

E' l'impietosa fotografia scattata dalla Ricerca Osservatorio Stili di Guida Utenti, commissionata da ANAS e condotta dallo Studio Righetti e Monte Ingegneri e Architetti Associati presentata oggi nell'ambito del convegno "Sicurezza stradale: obiettivo zero vittime" organizzato in occasione della giornata mondiale in ricordo delle vittime della strada (21 novembre). 
Dallo studio, che ha analizzato i comportamenti di guida lungo tre differenti tipologie di strade e autostrade in gestione ad Anas di un campione di 6.000 utenti, emerge come il 28,38% dei conducenti non allaccia le cinture, dato che si alza se riferito al passeggero anteriore (31,87%) e passeggero posteriore (80,12%). Dati molto lontani dalla media registrata negli altri Paesi europei dove il 90% degli automobilisti indossa le cinture anteriori e ben il 71% dei passeggeri quelle posteriori.
Indisciplina anche per quanto riguarda i dispositivi di ritenuta per bambini, ben il 49,47% non li utilizza, e per gli indicatori luminosi: il 55,63% non li accende per la manovra di sorpasso o rientro (76,46%), o per l'entrata (59,20%) o uscita (43,71%) da rampa. Infine un automobilista su dieci (12,41%) utilizza in modo improprio il cellulare alla guida, cifra che balza al 18,06% nella fascia di età 18-40 anni. Scendendo nel dettaglio, si evince che le violazioni, nel complesso, sono commesse all'incirca nella stessa percentuale senza distinzione tra city car e berline (11,8% e 11,3%). Aumentano tra chi è alla guida di un suv (13,4%) o di un veicolo commerciale (14,6%).
L'indisciplina decresce con l'aumentare dell'età: se nella fascia 18-40 anni la percentuale è del 30,0%, in quella 40-60 anni scende al 28,6%, per toccare il 24,8% tra gli over 60. In genere, sono gli uomini i meno attenti alle norme di sicurezza, tranne che nell'utilizzo delle cinture nei sedili posteriori e nell'adoperare i sistemi di ritenzione per bambini: qui il rapporto si inverte.
Lo studio analizza alcuni tra i fattori psicologici che influiscono sulla mancata percezione del rischio alla base dei comportamenti all'origine degli incidenti stradali, distinguendo tra le violazioni deliberate al codice della strada e gli errori del conducente (es. sviste, manovre o valutazioni errate). Il comportamento in violazione non dipende infatti da un problema nel raccogliere o elaborare le informazioni necessarie per attuare il comportamento corretto, ma da una scelta influenzata da fattori psicologici, psicosociali e motivazionali. In particolare l'analisi ha richiamato questi fattori associandoli ai dati delle violazioni riscontrate. L'analisi della percezione del rischio è stata accompagnata anche da 17 interviste semi-strutturate a utenti delle tre differenti tipologie di strade e autostrade oggetto dell'indagine.
L'obiettivo è stato quello di indagare le motivazioni percepite come sottostanti i propri comportamenti rischiosi e quelli posti in essere dagli altri utenti della strada. I primi riconducibili per lo più a stress, abitudine, mancanza di senso civico mentre i secondi ascrivibili a mancato uso degli indicatori di direzione, manovre di sorpasso a destra, sorpassi pericolosi, velocità rischiosa. Invece in relazione alla percezione di sicurezza della strada, le dichiarazioni degli intervistati variano a seconda della tipologia di strada. L'82% del campione ritiene le strade sicure o non evidenzia una rilevante percezione del pericolo rispetto a tutte le tipologie di strade analizzate.

https://www.ansa.it/canale_motori/notizie/sicurezza/2021/11/22/-auto-1-su-3-non-usa-cintura-50-bimbi-senza-seggiolino-_955136e8-4b02-4a51-8834-b9bda8928d25.html

mercoledì 15 aprile 2020

Salvini tanaliberatutti. - Roberta Labonia

A Milano comincia oggi IDN18: parlano Salvini, Fontana e Fedriga ...

Era giusto l’8 aprile scorso quando Matteo Salvini ci aveva regalato questa “perla” : “… non è il momento di mandare inchieste sugli ospedali lombardi, lasciamo che medici e dirigenti lavorino. Anzi onore a chi è in trincea, io più che un’inchiesta dei Nas o un fascicolo della procura avrei mandato medaglie”.
Il suo è lo stesso giochetto sporco che sta facendo in queste ore la premiata ditta leghista Fontana&Co. Anzi lui è il loro maestro. La stanno buttano in caciara contando sulla commozione che sta suscitando in queste ore l’abnegazione e il senso di sacrificio di tutto il personale medico e infermieristico lombardo, per nascondere le loro vergognose mancanze, le loro scelte scellerate. Come è stata quella di riaprire, il 23 febbraio scorso, dopo averlo chiuso per neanche 4 ore, il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo, senza nessuna sanificazione, appena scoperto che ci erano passati 2 casi Covid. Chi volesse una chiave di lettura dei numeri agghiaccianti di vittime dell’epidemia nel bresciano e nella bergamasca è servito.
Alle 14,00 la direzione dell’Ospedale sceglie di chiudere, riporta “L’eco di Bergamo”. “lo volevamo chiuso”, testimonia un primario, “poi telefonarono da Milano” (Leggi Pirellone). Ora la Procura di Bergamo ha aperto un inchiesta. Ed è solo una delle tante che si stanno apprendo in queste ore su molte strutture sanitarie lombarde. Quelle che Salvini, appunto, non vuole. Non è il momento, dice lui.
E stamattina sempre il Cazzaro Verde ha rincarato la dose. A Coffee Break su La7 (ormai è ufficiale, Cairo è uno dei suoi sponsor), non contento, ha dettato la sua ricetta per la ricostruzione post epidemia : “Condono è una brutta parola” – ha sentenziato – ma in tempo di guerra ci vogliono pace fiscale, pace edilizia, blocco del codice degli appalti”. E perchè no il rutto libero di fantozziana memoria? E ancora: “Io dalla task force (ndr, quella per la ricostruzione voluta da Conte), mi aspetto questo. Tutto quello che non è vietato è permesso, se non ho risposta dall’ente pubblico, faccio, parto”.
Sembra che dopo questo discorso, il “comitato” a tutela degli evasori di tutta Italia gli voglia intestare una piazza mentre i capi di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Corona Unita si dice si siano riuniti e abbiano deciso di dedicargli un monumento. Ovviamente ricorro ai paradossi così, tanto per sdrammatizzare, che di incazzature ce ne prendiamo già abbastanza. Ma come non incazzarsi, anzi indignarsi, davanti a tanta irresponsabilità, tanta superficialità? Non sarà con la ricetta dell’ennesimo condono che l’Italia potrà ripartire. Quello che non gli riuscì nel 2018 col Conte Uno, quando Luigi Di Maio gli fece tana quando scopri che nel testo del dl fiscale qualcuno aveva inserito lo scudo per i capitali mafiosi e la non punibilità per chi evade, Salvini forse vuole riproporlo adesso? Contando su un opinione pubblica resa claustrofobica dalla lunga quarantena e in grande misura pressata da problemi economici? Roba da sciacalli.
E il condono edilizio? Che c’azzecca con la ripresa post – epidemia, direbbe Di Pietro. All’Italia, per ripartire, servono investimenti in infrastrutture. Sia materiali, come gli Ospedali pubblici, le scuole antisismiche, e la manutenzione, quella vera, non quella targata Benetton, delle nostre Autostrade, che immateriali, come la banda larga. Serve ritornare ad investire nell’istruzione, in un corpo insegnante efficiente e preparato. Da qui bisogna iniziare, e serviranno tanti, tanti soldi, se l’Europa non sarà miope, per risollevare l’azienda Italia e tutto il resto del vecchio continente. Altro che l’ennesimo condono edilizio targato Salvini/Berlusconi /Meloni!
E poi il peggio del peggio, l’affondo finale del leghista: “bloccare il codice degli appalti”. Non ripensarlo, semplificarlo, renderlo più a misura del piccolo e medio imprenditore (che quelli grossi c’ hanno barba di tecnici a supportarli). No. Bloccarlo! Nel nostro Paese equivarrebbe a dire alle mafie: prego, accomodatevi, ecco le chiavi di casa, I’Italia è vostra.
Come se già non lo fosse abbastanza.

sabato 12 agosto 2017

L’arroganza delle Ong è il modo peggiore per aiutare i migranti. - Fulvio Scaglione

Risultati immagini per ong migranti

Sono 9 le ONG che hanno navi base sul Mediterraneo, e solo una al Viminale ha firmato il codice presentato dai funzionari del Ministero, e mentre l'Europa "discute" del problema l'Italia è l'unica a occuparsene. Gli altri? Ancora fermi ai loro discorsi "umanitari".


Per carità. Chiunque abbia fatto il giornalista in giro per il mondo ha un debito di riconoscenza con una qualche Ong. Per un aiuto insperato, una “dritta” in un Paese complicato, un buon consiglio, un passaggio prezioso in auto o in aereo, anche solo un pasto caldo e una risata in un giorno freddo e triste. Ma di fronte a quanto sta avvenendo tra le nove Ong che agiscono nel Mediterraneo per la salvezza dei migranti e le autorità italiane, viene crudamente da chiedersi: ma chi credono di essere?

Ricapitoliamo. Il ministero degli Interni ha elaborato un codice di condotta teso non a impedire le operazioni di soccorso ma piuttosto a regolamentarle e a coordinarle al meglio con le esigenze dello Stato italiano, ovvero dell’organismo che si fa carico non solo dell’emergenza in mare ma anche di tutto il resto. Dove “tutto” vuol dire proprio tutto: accoglienza dei migranti, censimento, verifiche legate ai problema della sicurezza, rapporti con altri Paesi europei dove la gran parte dei migranti vorrebbe in realtà recarsi.

Il risultato è stato questo: delle nove Ong che hanno navi nel Mediterraneo (cioè Moas, Seawatch, Sos Mediteranée, Sea Eye, Medici senza Frontiere, Proactiva Open Armas, Life Boat, Jugend Rettet, Boat Refugee e Save the Children), sei non si sono presentate alla riunione con i funzionari del Ministero. Delle tre presenti, solo una, Save the Children, ha firmato il codice. Le altre due, Medici senza Frontiere e Jugend Rettet, l’hanno respinto. Delle sei assenti, il Moas maltese ha fatto sapere di voler firmare. La spagnola Proactive Open Arms ha fatto sapere che firmerà solo se nel codice sarà evidenziato un qualche impegno a proteggere i diritti umani dei migranti eventualmente riportati in Libia.

Il codice proposto dal Ministero, diciamolo chiaro, è di fatto simbolico. Consta di 13 punti e quasi tutti hanno influenza zero sulle attività delle Ong. Basta confrontarli con quanto Medici senza Frontiere, la capofila dei renitenti, già afferma di fare durante le proprie operazioni. Il codice chiede di non entrare nelle acque territoriali libiche e MsF dice che non lo fa, così come già non fa tutte le altre cose che il Ministero chiede di non fare: non fa comunicazioni per agevolare la partenza dei barconi dalla Libia nè spegne o ritarda la trasmissione dei segnali di identificazione. In compenso, sempre stando a MsF, sono applicate tutte le buone pratiche richieste dal Ministero: non si trasferiscono i migranti a bordo di altre navi se non “su richiesta del Centro di coordinamento del soccorso marittimo”, che viene tenuto sempre al corrente dell’andamento delle operazioni di soccorso e delle azioni intraprese.

Con questo abbiamo già fatto fuori una decina degli articoli del codice. Il problema, quindi, deve stare negli articoli rimanenti. Che chiedono di: “Informare il proprio Stato di bandiera quando un soccorso avviene al di fuori di una zona di ricerca ufficialmente istituita” (art.5); “Ricevere a bordo, eventualmente e per il tempo strettamente necessario, funzionari di polizia giudiziaria che possano raccogliere prove finalizzate alle indagini sul traffico” (art.7); “Dichiarare le fonti di finanziamento alle autorità dello Stato in cui l’Ong è stata registrata”. Davvero, come ripete Medici senza Frontiere, è un ostacolo insormontabile avere a bordo, “eventualmente e per il tempo strettamente necessario”, un funzionario di polizia con l’arma di ordinanza? Sono, queste, condizioni capestro, tali da impedire il salvataggio di chi rischia la vita sui barconi? Per nulla. E con lo stesso rispetto con cui ho tante volte raccontato le buone azioni delle Ong in giro per il mondo, ma con un poco meno di ammirazione, giudico la mancata firma del codice un segnale di sconvolgente presunzione.

Nessuna Ong, quindi, può sostenere che lo Stato italiano non si preoccupi della salvezza dei migranti. Chiunque invece può notare che lo Stato italiano, attraverso il suo Governo, non solo se ne preoccupa (i dati lo dimostrano) ma se ne preoccupa anche per conto di tutto il resto dell’Unione Europea, che invece se ne frega.
Intanto va detta una cosa. Le navi delle Ong salvano tante vite ma pur sempre una minoranza delle vite che vengono ogni giorno salvate. Nel 2016, le Ong hanno soccorso circa 47 mila persone, mentre i soli militari italiani (Guardia costiera, Guardia di finanza, Marina militare, Carabinieri) ne hanno messe in salvo quasi 74 mila, alle quali vanno aggiunte le 7.500 delle unità militari estere, le quasi 23 mila della missione Eunavfor Med, le quasi 14 mila di Frontex e le quasi 15 mila delle navi mercantili di passaggio. Negli ultimi quattro anni, le navi delle Ong (intervenute per la prima volta nell’agosto 2014) hanno soccorso 68.309 persone. La Guardia costiera italiana 77.216, la Marina militare 154.400, la Guardia di finanza 13.500. Per non parlare degli altri.
 
In più, lo stesso Governo cerca per quanto può di trovare il modo di disciplinare i flussi, di dar loro un ritmo più sostenibile, insomma di uscire dall’emergenza del giorno per giorno, regolata solo dalle condizioni meteorologiche e dalle trame dei trafficanti di esseri umani, che è la causa principale delle morti in mare.

Ecco quindi i tentativi di coinvolgere altri Paesi europei, chiedendo loro di mettere a disposizione i porti. Ecco le trattative con il Governo della Libia, per coordinare con esso la gestione dei migranti e il pattugliamento delle coste. Il nostro Governo è debole, e qualche volta pure indeciso. Ma dobbiamo riconoscergli un’onestà d’intenti e una correttezza di fondo che infatti sono diventate il principale bersaglio dei siluri di chi, invece, dovrebbe darci una mano. Basta vedere le ultime iniziative del presidente francese Macron, le dichiarazioni di quello ungherese Orban, le proposte dell’Austria e le sempre deludenti risposte dell’Europa per capire che con Roma bisognerebbe collaborare, non polemizzare. Soprattutto se si ha a cuore la sicurezza dei migranti.

Ignorare tutto questo o, peggio ancora, entrare pretestuosamente in contrasto con l’unico Paese che dei migranti si occupa seriamente e davvero, cioè l’Italia, è un atto di arroganza e presunzione. Ma non solo. È anche il cascame di quella politica della “ingerenza umanitaria” delineata negli Usa ai tempi della presidenza Carter (1977-1981) ma poi compiutamente affermatasi negli anni Novanta dopo il crollo del Muro di Berlino. L’idea, tanto cara agli americani, era che i singoli Stati fossero ormai delle variabili dipendenti dalla volontà delle grandi potenze, pronte a prendere su di sé la funzione di supreme regolatrici dell’ordine mondiale. Da allora, al mondo anglosassone, è bastato mettere l’etichetta di “umanitario” per sentirsi autorizzato a qualunque impresa, anche la più ipocrita, sballata e sanguinosa.

Ovviamente non è questo il pensiero delle Ong. Ma quel certo senso di onnipotenza che a volte le anima deriva da quel modo di pensare. Mentre la crisi drammatica che da anni si svolge nel Mediterraneo dimostra proprio il contrario. Che i singoli Stati contano, eccome. Che smantellarli, come è stato fatto con la Libia nel 2011, con l’Iraq nel 2003 e come si è cercato di fare con la Siria, proprio in nome di quel presunto “ordine superiore”, è una tragedia. Che non aiutarli, come invece si fa con l’Italia, è l’esatto contrario dello spirito umanitario di cui tanto si parla. E che invece fare politica, attività peraltro non estranea alle grandi Ong, può servire ad aiutare l’umanità più bisognosa.

sabato 7 marzo 2015

Ecco come si legge il codice delle uova.



Una guida utile per i consumatori.

Cosa indicano tutte quelle lettere e quei numeri presenti sul guscio delle uova? È importantissimo saperlo, per saper leggere fra le righe delle diciture che troviamo in etichetta. In molte confezioni, ad esempio, leggiamo “uova di galline allevate a terra“, e pensiamo sia un sinonimo di qualità, ma in realtà le galline sono allevate in capannoni chiusi senza accesso all’esterno e con una densità (massima) di 12 per metro quadro. Guidaconsumatore.com spiega come si legge il codice delle uova:
Il primo numero che leggiamo sul guscio delle uova indica il metodo con cui sono state allevate le galline:
“0” sta a significare un allevamento di tipo biologico, ovvero che utilizza mangimi e foraggi provenienti da agricoltura biologica (prodotti senza l’utilizzo di concimi chimici di sintesi e prodotti fitosanitari), integrabili fino al 20% con prodotti tradizionali. Gli animali sono in grado di razzolare liberamente all’aperto: si tratta la tipologia di uova che più si avvicina a quelle prodotte dalle galline “ruspanti” di cascine e fattorie.
“1” corrisponde all’allevamento all’aperto: gli animali possono girare liberi per una parte della giornata, deponendo le uova nei pagliericci oppure sul terreno loro adibito in un ambiente esterno.
“2” è il codice relativo all’allevamento a terra: questa tipologia consente all’animale di muoversi libero, non all’aperto bensì in un ambiente chiuso. Un esempio di allevamento da codice “2” è rappresentato dai grandi capannoni che si trovano nelle campagne; le galline depongono le uova per terra, sulla lettiera o nei nidi.
“3” infine corrisponde all’allevamento a batteria, o in gabbia: gli animali non hanno alcuna libertà di movimento, ma trascorrono la loro vita in gabbie e depongono le uova sul fondo della gabbia stessa. Le densità sono quasi claustrofobiche: in ogni metro quadrato di gabbia possono essere presenti anche 25 animali, ed i posatoi a disposizione per deporre le uova hanno una larghezza di appena 15 centimetri. Possono essere impilati sull’altro sino a 4-6 ordini di gabbie.
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Poi ci sono altre due serie di numeri e lettere:
La seconda combinazione del codice è composta da due lettere che stanno a contrassegnare il Paese d’origine delle uova: “IT” corrisponde ovviamente all’Italia, “PT” al Portogallo, e così via. La terza parte corrisponde al codice Istat del comune dove è situato l’allevamento, immediatamente seguito dalla sigla della provincia (in questo caso, “BS” = Brescia)“.
E infine l’ultimo gruppo:
L’ultima serie di cifre è il numero identificativo dell’allevamento di provenienza delle uova: è un codice univoco che permette di risalire immediatamente e senza ambiguità all’esatta azienda agricola di allevamento. Questo è di fondamentale importanza nel malaugurato caso in cui si verificassero problemi di tipo sanitario“.
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