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martedì 6 luglio 2021

G20 e multinazionali, nei paradisi fiscali nascosto un tesoro uguale al Pil dell'Italia. - Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi

Illustrazione di Maria Limongelli/Il Sole 24 Ore

Da Jersey all'Olanda le grandi corporation hanno ammassato utili per oltre 2.000 miliardi di dollari per non pagare le imposte. Ogni anno spostati 700 miliardi per eludere le tasse.

Il dossier del Fisco statunitense con gli ultimi dati è arrivato sul tavolo di Joe Biden all'inizio di marzo 2021. Nel 2018 – rivelavano quelle cifre dell'Internal Revenue Service - le multinazionali americane avevano accumulato fuori dagli Stati Uniti profitti per più di 3.300 miliardi di dollari, una cifra superiore al Prodotto interno lordo della Francia. Il 63% di quel tesoro offshore – vale a dire oltre 2.000 miliardi, pari al Pil dell'Italia – era ammassato in soli 11 paradisi fiscali.

Ben 412 miliardi erano stati spostati nell'isola di Jersey, un fazzoletto di terra di 18 chilometri per cinque al largo della Normandia. Altri 386 miliardi di utili erano parcheggiati in Olanda, paese “frugale” nel cuore dell'Unione europea. E poi 328 miliardi in Lussemburgo, 240 alle Bermuda, 191 alle Cayman, 81,1 miliardi di dollari in Irlanda.

La distorsione del mercato.

Ma i dati del Fisco americano consultati da “Fiume di denaro” evidenziavano soprattutto un'enorme distorsione del mercato internazionale. Perché leggendo i bilanci delle multinazionali Usa passati al setaccio dall'Internal Revenue Service balzava agli occhi un'anomalia che non era più politicamente giustificabile.

Di fronte ai 2.000 miliardi nascosti negli 11 piccoli paradisi fiscali, i profitti accumulati dalle grandi corporation americane in Germania erano di soli 7,6 miliardi di dollari, in Italia erano appena 13,6 miliardi, in Spagna 17,9 e in Francia di 37,2. Paragonati ai 714 miliardi conservati nella piccola Olanda e nel minuscolo Granducato del Lussemburgo, i dati relativi alle grandi economie dell'Unione europea erano la conferma che il sistema fiscale internazionale era definitivamente impazzito e che occorreva riportarlo sui giusti binari, se si voleva finanziare l'ambizioso piano dell'amministrazione Biden per dare una scossa all'economia degli States messa in crisi dal covid 19.

L'offensiva di Biden.

Così, il 31 marzo a Pittsburgh, in Pennsylvania, Biden comincia il cannoneggiamento contro le multinazionali. Il capo della Casa Bianca annuncia che aumenterà dal 21% al 28% le tasse sui profitti delle società. “Un recente studio – annuncia il presidente degli Stati Uniti - ha dimostrato che 91 società sulle prime 500 elencate da Fortune hanno pagato zero tasse nel 2018. Vi chiedo, come è possibile che un insegnante debba versare il 22% e Amazon zero? Non voglio punirle, ma è sbagliato”.

Non c'è alcuna ragione economica perché una tale massa di profitti venga contabilizzata in paesi dove le multinazionali non hanno nessuna struttura produttiva. L'unica ragione è quella fiscale: pagare sempre meno tasse.

E così, mentre le piccole e medie imprese soffocano sotto il peso delle imposte, le multinazionali ingrassano, pagano balzelli irrisori e ammassano i profitti nei paradisi fiscali. Una concorrenza sleale non più sostenibile. Va avanti così da 25 anni (e vedremo perché) ma adesso la pandemia sembra aver cambiato le carte in tavola.

A perderci sono soprattutto i paesi dell'Unione europea, visto che globalmente il 35% dei profitti spostati nei paradisi fiscali proviene dagli Stati membri della Ue (con l'eccezione naturalmente di Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Cipro). La Ue perde il 18% dei ricavi fiscali da utili societari.

La missione del G20.

La soluzione a questa pericolosa asimmetria promettono di trovarla – se tutto andrà bene – i ministri delle Finanze e i governatori centrali dei paesi del G20 riuniti in Italia dal 7 all'11 luglio. I grandi della terra saranno chiamati a esprimersi sulla base di un impegno già sottoscritto dai sette paesi più industrializzati del mondo nel G7 dei ministri finanziari lo scorso 5 giugno a Londra.

In quell'occasione i Sette hanno deciso di istituire una tassa minima globale di almeno il 15% sugli utili delle multinazionali e di prevedere una tassazione aggiuntiva per le più importanti e profittevoli corporation pari ad almeno il 20% degli utili che eccedono un margine di profitto del 10%.

Il 1° luglio anche 130 dei 139 paesi che negoziano il nuovo regime fiscale internazionale sotto l'egida dell'Ocse hanno dato il via libera a un'aliquota minima globale del 15%.In pratica, solo per fare un esempio, se una multinazionale statunitense, francese o italiana paga il 5% di tasse in Irlanda e lo 0,1% a Jersey, gli Stati Uniti, la Francia o l'Italia potranno tassare la società al 10% per i profitti realizzati in Irlanda e del 14,9% per quelli ottenuti a Jersey.

Gli “esattori di ultima istanza”.

Insomma, gli Stati imporrebbero paese per paese imposte tali che l'aliquota fiscale effettiva di quella multinazionale, in ciascuno dei paesi in cui opera, sia pari almeno al 15%. I singoli Stati, dunque, giocherebbero per le proprie multinazionali il ruolo di esattori di ultima istanza: riscuoterebbe le tasse che i paesi stranieri hanno scelto di non raccogliere. Per ora si tratta solo di un principio che ha l'obiettivo di porre fine alla corsa al ribasso della tassazione delle società. Ma non sarà facile applicarlo.

Le cifre fotografate dal Fisco americano rendono bene l'idea delle dimensioni del fenomeno. Nel 2017, prima della riforma fiscale di Trump che aveva diminuito l'imposta federale sulle società e aveva favorito il rimpatrio dei capitali offshore con una tassazione di favore, i dati erano ancora peggiori.

I profitti stipati dalle corporation Usa nei paesi offshore erano addirittura superiori a 4.200 miliardi di dollari, quasi 3.000 dei quali concentrati nei soliti 11 paradisi fiscali, il 70% del totale. Solo nelle Bermuda erano ammassati 634 miliardi di dollari.

La corsa dell'elusione.

Ma sono 25 anni che il sistema al ribasso tra multinazionali e paradisi fiscali viaggia a pieno regime. Tutto è cominciato nel 1996, sotto la presidenza di Bill Clinton. Prima di quella data gli Stati Uniti, come altri paesi ad alto reddito, avevano regole anti-elusione, le cosiddette disposizioni relative alle “società estere controllate”, progettate per tassare immediatamente negli Stati Uniti alcuni redditi esteri (come royalties e interessi) che favoriscono il trasferimento dei profitti.

Nel 1996, l'Irs ha però emanato dei regolamenti che hanno consentito alle multinazionali statunitensi di evitare alcune di queste regole scegliendo di trattare le loro controllate estere come se non fossero società ma soggetti non riconosciuti ai fini fiscali. Questa regola è comunemente chiamata “checking the box” (ovvero “spuntare la casella”) perché basta spuntare una casella su un modulo fiscale e il gioco è fatto.

Dopo l'introduzione di questa normativa, per esempio, gli utili delle corporation registrati in Irlanda sono aumentati dal 5% al 15%. Ed ecco perché le multinazionali americane sono così aggressive e utilizzano i paradisi fiscali più delle altre imprese degli altri paesi, spostando offshore in media il 60% dei loro profitti.

Spostati 700 miliardi all'anno.

Secondo uno studio degli economisti Thomas Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman, ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali viene trasferito nei paradisi fiscali. Si tratta di una cifra che fino al 2017 oscillava tra i 640 e i 700 miliardi di dollari all'anno.

I ricercatori dell'Institute on Taxation and Economic Policy hanno dimostrato che il 40% dei profitti viene spostato in paesi che tassano le multinazionali a un'aliquota effettiva inferiore all'1% mentre una percentuale compresa tra l'85% e il 90% degli utili viene contabilizzata nelle giurisdizioni che applicano aliquote effettive inferiori al 10%. Sebbene poco ambiziosa, se la proposta sulla tassa minima globale restasse ferma al 15%, colpirebbe quasi la totalità dei profitti immagazzinati nei paradisi fiscali.

Questo spostamento – il profit shifting – si traduce in un risparmio di circa 200 miliardi di dollari all'anno per le grandi corporation, pari al 10% delle entrate fiscali globali provenienti dalle società, ma contemporaneamente provoca un ammanco fiscale della stessa entità per i paesi delle multinazionali.

La competizione tra gli Stati per attrarre investimenti esteri ha provocato negli ultimi decenni un forte calo delle aliquote fiscali effettive. Tra il 1985 e il 2020, l'aliquota media globale dell'imposta sugli utili societari è scesa dal 49% al 23%. Negli Stati Uniti è diminuita da quasi il 50% degli anni 50 del secolo scorso al 17% nel 2018.

Ma dove sono i quartier generali delle multinazionali? Quali paesi dovrebbero svolgere la funzione di “esattori di ultima istanza”? La metà delle multinazionali ha sede negli Usa e in Europa ma secondo uno studio dell'International centre for tax and development (Ictd) pubblicato a marzo 2021, sulla base della banca dati Orbis (che copre oltre 300 milioni di aziende pubbliche e private in tutto il mondo) gli Stati Uniti sarebbero la “casa” di 1.501 multinazionali. La Cina ne avrebbe 583, il Giappone 715, la Francia 206, l'Italia 151. Mancano in questo elenco i dati relativi al Regno Unito e alla Germania.

Il caso delle Bermuda.

“Andate in paradiso se volete, io preferisco rimanere nelle Bermuda”. Mark Twain non aveva tutti i torti quando pronunciò queste parole. Cosa c'è di meglio del paradiso sulla terra? Isolette coralline, spiagge immacolate, mare cristallino. Un arcipelago incastonato nel Mar dei Sargassi che evoca pace, tranquillità, sole, vacanze. Già, le Bermuda sono tutto questo. Ci sono 140mila turisti all'anno ma anche 20mila società che hanno la loro sede proprio qui: grandi gruppi finanziari e assicurativi, multinazionali, banche, studi legali. Ma che ci fanno in un paese di appena 65mila abitanti?

Se ogni società presente nell'arcipelago volesse assumere tre dipendenti dovrebbe arruolare anche i lattanti, i bambini e gli anziani. E dovrebbe ricoprirli d'oro vista la scarsità di manodopera. Ma non è il caso di sottilizzare. Perché la realtà è che tutte le più grandi multinazionali americane sono corse qui per aprire una filiale e se guardiamo i dati ufficiali, fanno utili a non finire. Le Bermuda sono un vero Eldorado. Nel 2017 i miliardi accumulati qui dalle multinazionali americane erano pari a 84 volte il Pil delle Bermuda, che non raggiunge i 7,5 miliardi di dollari. In termini percentuali fa l'8.453% del Pil. Roba da leccarsi le dita. Da queste parti le filiali sono dieci volte più efficienti di tutte le altre nel mondo. Sulla carta, naturalmente. Perché niente è reale. Aveva ragione Mark Twain: meglio le Bermuda del Paradiso.

Boeing, Caterpillar e Coca Cola.

Sì, ma è proprio così? E perché la Boeing possiede una filiale alle Bermuda, se nelle 300 isolette non esiste nessun impianto industriale che fabbrica aerei? E perché esiste anche una sede di Caterpillar? Qui non ci sarebbe nemmeno lo spazio per produrre gli enormi escavatori. E del resto con 65mila abitanti quanti ne venderebbero? E cosa se ne fa la Pepsi Cola delle 15 società che ha aperto nell'arcipelago? Quante lattine bevono ogni giorno i suoi abitanti? La risposta è sempre la stessa: l'irresistibile attrazione del Fisco.

A 2.200 chilometri di distanza, le Isole Cayman, hanno un Pil di 5,5 miliardi di dollari e una popolazione di meno di 60mila abitanti. Sono l'impero degli hedge fund, con circa 11mila fondi d'investimento domiciliati nelle isole (quasi tutti in una cassetta postale). Le quasi 200 banche che hanno qui le loro filiali gestiscono 1.500 miliardi di dollari. Le controllate di società estere sono 100mila (due per ogni abitante) e le multinazionali americane vi hanno accumulato 191 miliardi di dollari di utili nel 2018. Si tratta di una cifra che è 35 volte il Prodotto interno lordo delle Cayman, o se vogliamo il 3.472% del Pil. A George Town, una cittadina di Gran Cayman, sorge un piccolo edificio di quattro piani, la Ugland House al cui interno ci sono 19mila società, ma naturalmente sono solo sulla carta.

Apple in cima alla lista.

Nel 2017 l'Institute on taxation and economic policy (Itep) e il U.S. Public interest research group education fund (U.S. Pirg Education Fund), hanno pubblicato uno studio dettagliato sugli utili delle big companies spostati nei paradisi fiscali. I dati sono precedenti alla riforma fiscale di Trump e dunque oggi sono probabilmente sovrastimati ma rendono bene l'idea delle dimensioni del fenomeno.

Le prime 30 società per quantità di profitti conservati offshore registravano complessivamente più di 1,7 miliardi di dollari nei paradisi fiscali attraverso 2.213 filiali in giurisdizioni segrete.

Apple aveva 246 miliardi di dollari parcheggiati offshore. La società farmaceutica Pfizer (oggi titolare di un vaccino contro il covid 19) ne possedeva 198,9 con un numero impressionante di controllate nei paradisi fiscali (159). Microsoft aveva 142 miliardi all'estero, General Electric 82, Ibm 71,4, Johnson & Johnson (anch'essa titolare oggi di un vaccino anti-covid attraverso la controllata Janssen) 66,2 miliardi (e 60 filiali offshore), Google 60,7 miliardi.

Su queste cifre le tasse pagate erano irrisorie. Apple registrava un'aliquota fiscale del 3,8%, Microsoft del 3,3%, Oracle del 3,2%, Qualcomm dello 0,0%, così come Netflix.Olanda, il paese più attrattivo

Ma non è tutto. Lo studio evidenziava che almeno 366 società (il 73%) comprese nell'elenco Fortune 500, possedevano una o più filiali in paradisi fiscali. Complessivamente si contavano 9.755 controllate offshore. Il paradiso fiscale più popolare tra le 500 più grandi società americane era (ed è ancora) l'Olanda. Più del 50% delle 366 big companies possedeva una filiale nei Paesi Bassi, che nella classifica erano seguiti da Singapore, Hong Kong, Lussemburgo, Svizzera, Irlanda, Bermuda e Cayman.

Nel 2004, poco prima che l'uragano Ivan si abbattesse sulle Cayman, decine di piccoli aerei si levarono in volo dalle spiagge dell'isola. Non portavano in salvo gli abitanti e nemmeno soldi ma i server e gli hard disk che contenevano i documenti delle società offshore e degli hedge fund domiciliati nell'arcipelago. Dopo l'uragano gli aerei tornarono indietro con il loro prezioso contenuto. Anche così si misura la potenza di un paradiso fiscale.

La scelta da compiere.

Come ha sottolineato il segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, riprendendo gli studi di economisti come Gabriel Zucman, Emmanuel Saez e Kimberly Clausing, se si riuscirà a porre fine alla corsa al ribasso della tassazione sulle imprese finalmente gli Stati potranno competere tra di loro sul valore delle loro infrastrutture, sulla qualità dell'istruzione, sulla produttività della forza lavoro, sull'efficienza della giustizia. Una competizione più sana e più trasparente. Non alterata da parametri che rendono l'economia globale più inefficiente e iniqua.

“Non c'è niente nella globalizzazione che impone che la tassazione sulle società debba scomparire – affermano Emmanuel Saez e Gabriel Zucman nel loro ultimo libro “The triumph of injustice” -. La scelta è nostra. Avremmo potuto scegliere di proibire alle multinazionali di contabilizzare gli utili in paesi a tassazione bassa ma non lo abbiamo fatto. Possiamo fare scelte diverse, a partire da oggi”.

IlSole24Ore

domenica 22 novembre 2020

Paradisi fiscali, ecco quali Paesi «rubano» più soldi a tutti gli altri. - Mario D’Angelo


 










L’evasione fiscale è responsabile del «furto» di $427 miliardi dalle casse pubbliche ogni anno. Ecco i maggiori paradisi fiscali.

Quanto costa l’evasione fiscale nel mondo? Uno studio senza precedenti, effettuato su scala globale, lo ha scoperto. La cifra è agghiacciante: 427 miliardi di dollari tolti ogni anno alla spesa pubblica degli Stati: soldi che potrebbero essere utilizzati per istruzione, sanità, servizi.

Quanto costa l’evasione fiscale nel mondo.

Il Tax Justice Network ha diffuso il suo primo rapporto State of Tax Justice, il primo studio a misurare con accuratezza quanti soldi perdono i Paesi del mondo ogni anno a causa di evasione fiscale aziendale e privata.

“Un sistema di tassazione globale che perde $427 miliardi l’anno non è un sistema rotto, è un sistema programmato per fallire”, ha detto Alex Cobham, executive di Tax Justice Network.

Secondo il Tax Justice Network, che ha svolto la ricerca, gli Stati perdono ogni secondo l’equivalente di uno stipendio annuo di un infermiere. Di questa perdita - lo studio è molto chiaro su questo - i responsabili sono gli Stessi Paesi che non mettono in campo misure efficaci di contrasto all’evasione.

Quali sono i maggiori paradisi fiscali.

“Sotto la pressione dei colossi corporate e delle potenze dei paradisi fiscali come Paesi Bassi e la rete del Regno Unito, i nostri governi hanno programmato il sistema fiscale globale per dare la priorità ai desideri delle aziende e degli individui più ricchi rispetto ai bisogni di tutti gli altri”, ha aggiunto.

Secondo il rapporto, l’impatto dell’evasione fiscale sul pubblico non è mai stato così evidente. La pandemia di coronavirus, salvo poche eccezioni, ha esposto la difficoltà di reazione di sistemi pubblici sotto-finanziati, dal punto di vista di tecnologia e monitoraggio, sanitari e coscienza civile. Nei Paesi più poveri, i soldi persi a causa dell’evasione fiscale corrispondono al 52% della spesa sanitaria.

I principali responsabili, però, sono i Paesi occidentali. I paradisi fiscali delle Isole Cayman, dell’orbita britannica, sono la causa della perdita di $70 miliardi fondi pubblici degli altri Paesi. Il Regno Unito si porta via altri $42 miliardi. Al terzo posto ci sono i Paesi Bassi ($36,4 miliardi), al quarto il Lussemburgo ($27,6 miliardi). Gli Stati Uniti sono al quinto posto nel mondo, togliendo ad altri Paesi $23,6 miliardi ogni anno.

domenica 17 maggio 2020

A chi la ciccia e a chi le frattaglie. - Gaetano Pedullà

JOHN ELKANN

Che qualcosa di grosso stesse cucinando in pentola l’avevano capito tutti da tempo. Se n’era sentito l’odore quando alcuni grandi giornali erano passati alla Fiat (che ora si chiama Fca, ma a me piace usare lo stesso nome a cui lo Stato bonifica da decenni montagne di miliardi pubblici sotto forma di cassa integrazione, contributi e rottamazioni). Perché – mi domandavo – gli Elkann, cioè gli eredi della dinastia Agnelli, portano il cuore del loro gruppo automobilistico ad Amsterdam, a Londra e Detroit, poi si fondono con la francese Peugeot e intanto comprano la Repubblica e spingono una schiera di direttori che anche in tv sentiamo ripetere come un disco rotto ogni contumelia contro il Governo?
Elkann nisciuno è fesso, e noi quanto i discendenti dell’Avvocato sappiamo bene che di questi tempi (anzi, in tutti i tempi) i giornali sono un pessimo investimento, a meno che non ci sia da usarli come clave per guadagnarci da un’altra parte. E stavolta la clava si era vista subito: neanche il tempo di salutare i dipendenti che già il nuovo direttore del quotidiano di Scalfari incorniciava in prima pagina i consigli non richiesti di Cottarelli e Moavero per salvare l’Italia, con implicito avviso di sfratto a Conte e a quegli scappati di casa del Movimento Cinque Stelle.
Il governissimo con dentro tutti, dalla Lega di Giorgetti e Zaia (le sparate elettorali di Salvini ora non servono) all’Italia Viva di Renzi, con il Pd e frotte di responsabili, è il sogno di chi vuole sedersi a capotavola del grande banchetto allestito con i miliardi di aiuti pubblici stanziati per ripartire dopo il Covid. Tant’è vero che ieri, su un’agenzia di stampa straniera, è saltata fuori la notizia che Fiat sta trattando con Banca Intesa Sanpaolo un prestito da oltre sei miliardi interamente garantito dalla Sace (cioè lo Stato). Niente male mentre famiglie e imprese ricevono col contagocce i prestiti garantiti fino a 25mila euro, e c’è un Paese da rimettere in piedi, possibilmente senza lasciare tutta la ciccia ai soliti noti, e agli altri le frattaglie.

lunedì 20 aprile 2020

Paradisi fiscali in Ue: ecco quanti soldi ci sottraggono Olanda, Irlanda e Lussemburgo offrendo alle multinazionali una tassazione di favore. - Felice Meoli

Paradisi fiscali in Ue: ecco quanti soldi ci sottraggono Olanda, Irlanda e Lussemburgo offrendo alle multinazionali una tassazione di favore
nella foto i primi ministri di Olanda (Mark Rutte), Lussemburgo (Xavier Bettel) e Irlanda (Leo Varadkar)

L'Italia perde ogni anno almeno 6,5 miliardi euro di entrate: finiscono nelle casse dei sei Paesi che stando al rapporto dalla commissione speciale sui crimini finanziari TAX3 "facilitano una gestione fiscale aggressiva”. Ci sono anche Cipro, Malta e Ungheria ma olandesi e lussemburghesi sono quelli che ci guadagnano di più impoverendo il resto dell'Unione. La Germania si vede sottrarre addirittura 19 miliardi, la Francia 17. Non si interviene perché le modifiche in materia fiscale richiedono l’unanimità.
Più che paradisi, dei veri e propri “buchi neri fiscali”. Questa la definizione dell’ex Commissario europeo all’economia Pierre Moscovici, poco più di due anni fa. Cioè due mesi prima della partenza dei lavori della commissione speciale sui crimini finanziari TAX3. Sette – poi scesi a sei – Paesi che sottraggono risorse ai propri vicini di casa, provocando un danno netto a tutto il condominio, a favore di chi può eludere il pagamento delle tasse. A causa del profit shifting, l’Italia perde ogni anno il 19% delle entrate tributarie dalle proprie imprese ovvero 7,5 miliardi di euro l’anno, di cui 6,5 all’interno dell’Unione EuropeaTax Justice Network di recente ha stimato che Paesi Bassi – grandi oppositori di misure “solidali” di risposta alla pandemia come i coronabond – l’anno scorso abbiano sottratto al nostro Paese 1,5 miliardi. Una distorsione dell’architettura comunitaria ben conosciuta da tutti gli attori in gioco e in alcuni casi perfino rivendicata da chi se ne avvantaggia.
Dopo le rivelazioni e gli scandali fiscali emersi negli ultimi anni, dai Lux leaks ai Panama paper, dai Football leaks ai Paradise papers, il Parlamento europeo decise di istituire una commissione speciale sui crimini finanziari, sull’evasione e sull’elusione fiscale – cosiddetta TAX3 – insediatasi il 1 marzo 2018. Dopo un anno di lavoro fatto di audizioni, interpelli e investigazioni, TAX3 ha inviato agli eurodeputati una lunga serie di conclusioni e raccomandazioni. Segnalando in particolare che 7 Paesi dell’Unione “mostrano tratti di paradisi fiscali e facilitano una gestione fiscale aggressiva”. Si tratta di Belgio, Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Olanda e Ungheria.
La vecchia Commissione glissò sui paradisi fiscali nell’Ue – Le stime di Bruxelles indicano che le pianificazioni fiscali aggressive all’interno dell’Unione provocano una perdita annuale di gettito compresa tra i 50-70 miliardi (cifre riconducibili alla sola traslazione dei profitti, e che rappresentano il 17% delle entrate fiscali) e i 160-190 miliardi di euro se si comprendono anche gli accordi ad hoc delle maggiori multinazionali con gli Stati e le inefficienze nella raccolta del gettito. Poco meno di 50 miliardi sono invece elusi dalle persone fisiche che portano la propria ricchezza all’estero, mentre circa 65 miliardi di euro riguardano le frodi sull’iva transfrontaliera. Un quadro comunque chiaro anche alla Commissione, che già negli scorsi anni aveva avanzato critiche ai sette Paesi, per i problemi emergenti dai loro sistemi tributari. Nel rispondere alla risoluzione del Parlamento, circa un anno fa e prima dell’insediamento della nuova Commissione, Palazzo Berlaymont ebbe a eccepire solo sul Belgio, che dallo scorso anno non offrirebbe più la possibilità di una pianificazione aggressiva. Sulla richiesta del Parlamento di dichiarare ufficialmente paradisi fiscali gli altri Paesi, la Commissione ha invece praticamente glissato. Non così l’ex commissario Pierre Moscovici, che li definì, più che paradisi, veri e propri “buchi neri fiscali”.
Ecco quanto ci perde l’Italia e quanto guadagnano Lussemburgo, Irlanda e Olanda – Secondo quanto evidenziato dai più recenti studi macroeconomici portati avanti da Thomas Tørsløv (Università di Copenaghen), Gabriel Zucman e Ludvig Wier (entrambi dell’Università di Berkeley), questi Paesi sottraggono direttamente agli altri Stati membri, solo in elusione fiscale, oltre 42 miliardi all’anno. L’Olanda raccoglie in questo modo il 30% del proprio gettito, attraendo in maniera artificiosa da altri Paesi circa 90 miliardi di euro, a cui offrire un’aliquota speciale. Il Lussemburgo attrae 50 miliardi, da cui va a formare il 54% delle proprie entrate fiscali. L’Irlanda costruisce in questo modo il 65% del proprio gettito, attraendo ogni anno 117 miliardi di euro dai Paesi (non solo europei) con tassazione maggiore. A Malta questo frutta l’88% delle proprie entrate fiscali complessive.
L’Italia, invece, subisce un profit shifting di 24 miliardi di euro e a causa dei paradisi perde il 19% delle proprie entrate tributarie dalle imprese, ovvero 7,5 miliardi di euro, di cui 6,5 all’interno dell’Unione Europea. Sono 3 i miliardi sottratti dal Lussemburgo, 1,6 dall’Irlanda e 1 dall’Olanda. Per quanto riguarda le destinazioni extra Ue quasi 700 milioni sono persi a favore della Svizzera, mentre poco più di 270 milioni spariscono a favore di Caraibi, Hong Kong e SingaporeGermania e Francia sono anche più colpite dell’Italia, perdendo rispettivamente il 28% e il 24% del proprio gettito da parte delle imprese. Sono 19 miliardi di euro per la Germania, di cui quasi 16 restano nei paradisi europei, mentre per la Francia si tratta di 12 miliardi, di cui 10 rimangono nelle immediate vicinanze.
Ma i paradisi impoveriscono tutta l’Unione – Va sottolineato che i paradisi non impoveriscono solo i Paesi da cui fuggono le imprese, ma tutta l’Unione, perché garantendo una tassazione di favore permettono di sborsare molto meno di quanto dovuto, alimentando l’inefficienza del sistema. Questo vale sia per le imprese europee che per quelle extra-Ue ma operanti nell’Unione. Per esemplificare, con una tassazione sugli utili che attraverso un’accurata pianificazione può arrivare fin sotto il 5%, una multinazionale americana con sede in un paradiso e operante nel resto dell’Unione riesce a risparmiare 4 euro ogni 5 teoricamente dovuti. Il paradiso ne incassa solo 1, l’Unione nel complesso ne perde 4. I Paesi dove opera realmente perdono tutto.
In Olanda e Lussemburgo metà degli investimenti fantasma del mondo – Grazie a queste possibilità i paradisi della Ue sono anche leader mondiali nell’attrazione di investimenti diretti esteri fantasma, presentando stock di investimenti in entrata e in uscita di molte volte maggiori del loro Prodotto interno lordo, spesso il risultato della creazione di strutture artificiali per abbattere gli oneri. Secondo un report dello scorso dicembre del Fondo monetario internazionale, a firma di Jannick DamgaardThomas Elkjaer e Niels Johannesen, il 40% di tutti gli investimenti diretti esteri globali sarebbe fantasma. Olanda e Lussemburgo, che insieme ricevono una quota di investimenti diretti esteri maggiore di quella degli Stati Uniti, ospiterebbero quasi metà di tutti gli investimenti fantasma del mondo. Il Fmi indica che su un totale di 40 trilioni di dollari di investimenti diretti esteri globali, 15 trilioni sarebbero da ricondurre a scatole vuote senza vere attività. Di questi 3,8 trilioni (3.800 miliardi) di dollari sarebbero in Lussemburgo e 3,3 trilioni (3.300 miliardi) in Olanda. Anche questa è una circostanza ben conosciuta dalle istituzioni europee, evidenziata nella relazione del Parlamento dopo i lavori di TAX3. Il documento approvato sottolinea che l’Irlanda riceve più investimenti diretti di Germania e Francia, e che Malta raccoglie investimenti per un ammontare pari al 1.474% della propria economia. Su queste evidenze la Commissione non avanzò commenti.
Le modifiche in materia fiscale richiedono l’unanimità – Perché allora è tutto fermo? Secondo l’ultimo rapporto del Tax Justice Network, pubblicato all’inizio di aprile e intitolato “Time for the EU to close its own tax havens”, le ragioni sono principalmente due. La prima è ideologica. Persino nei Paesi che perdono di più come la Germania, il mondo degli affari ha resistito alle richieste crescenti di trasparenza fiscale da parte dell’opinione pubblica, cercando di evitare ogni tipo di rendicontazione che rivelerebbe le discrepanze tra le nazioni in cui prende forma l’attività economica e le nazioni in cui gli utili vengono riportati per motivi fiscali. La seconda ragione è l’inerzia politica collegata all’impossibilità di un’azione concreta su questo fronte da parte dell’Unione Europea. Le modifiche in materia fiscale richiedono l’unanimità, e i paradisi si oppongono costantemente a ogni discussione di revisione delle norme, in nome della “sovranità fiscale”. Che finisce tuttavia per andare a scapito di tutti gli altri Paesi membri. “Nessuno dovrebbe sorprendersi che un paradiso fiscale agisca in maniera egoistica, indebolendo i propri vicini”, afferma in apertura del suo report il Tax Justice Network. E mutatis mutandis è proprio ciò che rivendicano anche gli stessi olandesi.
La posizione olandese: “Preservare la reputazione di porta d’ingresso in Europa” – Nell’incontro del 12 settembre 2018 presso la Direzione generale della Fiscalità e dell’Unione Doganale della Commissione Europea, indetta per costruire una “piattaforma di buona governance fiscale”, il professore dell’Università di Amsterdam Sjoerd Douma offriva ai presenti la prospettiva olandese del dibattito sulla fiscalità internazionale, stakeholder per stakeholder. Dal punto di vista dei commercialisti, una “scelta volontaria del governo olandese di adottare misure di contrasto all’elusione fiscale oltre le richieste minime del consensus internazionale indebolirebbe seriamente il clima degli investimenti nei Paesi Bassi. Specialmente nel contesto della Brexit e della riforma fiscale americana, l’Olanda deve preservare la propria reputazione di “porta d’ingresso in Europa” e proteggere i suoi tradizionali gioielli della corona”. Secondo le associazioni imprenditoriali olandesi, l’approccio della Commissione di puntare a una base imponibile comune in Europa sarebbe invece poco ambizioso e piuttosto ci sarebbe bisogno di una maggiore competitività tributaria, così come dell’eliminazione delle ritenute sui dividendi. Secondo Douma, in un dibattito pubblico finora dominato dalle posizioni delle Ong, il problema sarebbe culturale e mediatico, gravato dalla mancanza di fiducia tra gli attori del sistema. Ma forse questa diffidenza si può capire a fronte di obiettivi contrastanti da parte degli attori e ruoli ambigui, come sottolineato dalle stesse Ong. Tax Justice, Oxfam e Somo puntano infatti il dito sui doppi incarichi dei professori universitari, allo stesso tempo anche consulenti fiscali delle imprese. Ambiguità a cui non si possono sottrarre nemmeno le stesse autorità tributarie, strette nella morsa di dover bilanciare la volontà di adottare misure di contrasto alle frodi e il bisogno di mantenere alti gli investimenti nel Paese.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/20/paradisi-fiscali-in-ue-ecco-quanti-soldi-ci-sottraggono-olanda-irlanda-e-lussemburgo-offrendo-alle-multinazionali-una-tassazione-di-favore/5773468/
Ho sempre sostenuto che questa Unione Europea è nata malissimo ed è gestita anche peggio.
Non si possono accettare in un contesto stati membri che giocano sporco alle spalle degli altri stati facenti parte del contesto.
La lealtà, l'etica dovrebbero prevalere in un gruppo omogeneo, senza il reciproco rispetto non possono coesistere la collaborazione e la coesione di intenti.
Questa unione è una continua discrepanza su tutti gli argomenti, non è una unione è un'accozzaglia informe, senza alcun senso comune.
Cetta.

sabato 27 ottobre 2018

Jean-Claude Juncker killer d'Europa. - Paolo Biondani e Leo Sisti

Jean-Claude Juncker killer d'Europa

Favori giganteschi alle multinazionali. Mille miliardi all’anno di evasione ed elusione. Mentre i cittadini sono oberati di tasse. Inchiesta sul presidente della Commissione. E sulle politiche fiscali che hanno scatenato il populismo. In esclusiva con l’Espresso da domenica 28 ottobre.

Una voragine nei conti dei 28 Paesi dell’Unione europea: mille miliardi di euro all’anno, tra elusione ed evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente “tax free”. Stati membri dell’Unione che si fanno concorrenza sleale sulle tasse. È disastroso il bilancio che sta lasciando Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, nonché ex padre-padrone del Granducato, mentre imbocca l’ultimo anno del suo mandato, in scadenza dopo le elezioni del 2019: il suo viale del tramonto.

L'INCHIESTA INTEGRALE SULL'ESPRESSO IN EDICOLA DA DOMENICA 28 OTTOBRE

Ormai ogni giorno il numero uno della Ue deve incrociare i ferri con populisti e sovranisti, pronti a sfidare regole, limiti e vincoli europei. In Italia ad attaccarlo è soprattutto Matteo Salvini, con un avvertimento: «Pensi al suo paradiso fiscale in Lussemburgo». Dove Juncker è stato presidente del Consiglio dal 1995 al 2013 e, già prima, più volte ministro delle Finanze, esordendo con il primo incarico politico nel 1982, ad appena 28 anni. Ed è proprio il Lussemburgo il vero nodo del caso Juncker, di cui ora approfittano i nemici dell’Europa. Il nodo di un paese fondatore della Ue che spinge i ricchissimi a eludere le tasse.

L'Espresso, nel numero in edicola con La Repubblica da domenica 28 ottobre, pubblica un'inchiesta sul presidente della Commissione europea e sul problema strutturale dei sistemi fiscali nazionali che favoriscono le grandi aziende danneggiando i cittadini oberati di tasse. L'articolo documenta il ruolo centrale di Juncker nelle politiche che hanno reso il Lussemburgo il primo paradiso fiscale interno all'Unione europea. Uno scandalo svelato a partire dal novembre 2014, proprio mentre Juncker si insediava al vertice della Ue, dall'inchiesta “LuxLeaks”, firmata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), di cui fa parte l’Espresso in esclusiva per l'Italia . Analizzando oltre 28 mila documenti riservati, i giornalisti del consorzio hanno rivelato i contenuti degli accordi fiscali privilegiati (tax rulings) con cui il Lussemburgo di Juncker ha garantito a 340 multinazionali, da Amazon ad Abbott, da Deutsche Bank a Pepsi Cola, di pagare meno dell’uno per cento di tasse.

Ora l'Espresso in edicola pubblica i documenti interni dei lavori delle due commissioni speciali d'indagine istituite dall'Unione europea dopo lo scandalo LuxLeaks. Oltre al Lussemburgo, i commissari hanno esaminato i sistemi fiscali di altri paesi che garantiscono fortissime riduzioni delle tasse per le multinazionali, dall'Olanda al Belgio, dall'Irlanda a Malta. Una concorrenza sleale tra Stati che, secondo le stesse autorità europee, provoca un danno complessivo, tra elusione ed evasione fiscale, quantificato nell'astronomica cifra di «mille miliardi di euro all'anno».

L'inchiesta dell'Espresso documenta anche le manovre politiche e le pressioni di singoli governi, tra cui spicca il Lussemburgo, per bloccare tutti i progetti europei di riforma fiscale. E per tenere segreti ai cittadini gli accordi privilegiati che da anni garantiscono enormi vantaggi tributari ai colossi mondiali dell'economia. L'articolo svela anche gli interventi diretti di Juncker, come capo del governo lussemburghese, a favore di multinazionali, come Amazon, che ora sono al centro delle indagini europee sull'elusione fiscale.

Fonte: espresso.repubblica del 26/10/2018

martedì 5 aprile 2016

Panama Papers, 10 cose da sapere sulla più grande fuga di notizie di tutti i tempi. - Stefano Vergine



Chi è la fonte dei documenti? E' legale avere una società offshore? Davvero non ci sono cittadini americani nella lista? Perché sono stati publicati solo pochi nomi dei circa 800 italiani coinvolti? Ecco tutto quello che conta per capire il grande scandalo finanziario che fa tremare politici e vip. 


Cosa vuol dire Panama papers?
Panama Papers è il nome dato agli 11,5 milioni di documenti emersi grazie a un’inchiesta giornalistica, la più grande fuga di notizie finanziarie della storia. L'inchiesta è stata svolta a livello internazionale da 378 giornalisti, appartenenti a testate di diversi Paesi, associate nel "The International Consortium of Investigative Journalists" (ICIJ). Per l'Italia, il lavoro è stato svolto in esclusiva da "l'Espresso". L'inchiesta " Panama Papers " riguarda lo studio legale Mossack e Fonseca di Panama, una delle più grandi "fabbriche" al mondo di società offshore. Il nome Panama Papers è stato scelto in riferimento ai "Pentagon Papers", i documenti che hanno messo a nudo le menzogne del segretario alla difesa di Nixon sulla guerra in Vietnam, pubblicati nel 1971 dal New York Times.

Cosa vuol dire offshore?
Offshore, in gergo finanziario, significa "all'estero".
Più nello specifico il termine indica paesi in cui si pagano tasse molto basse, a volte pari quasi a zero, e la proprietà di società e conti correnti è segreta. Questi stati sono spesso utilizzati da chi cerca di rendere irrintracciabile una parte o tutta la propria ricchezza. Per avere un'idea di quali sono i più utilizzati, può essere utile scorrere la lista degli Stati inseriti dal governo italiano nella cosiddetta black list .


Panama Papers: così vip e potenti del mondo hanno nascosto miliardi nei paradisi fiscali
È la più grande fuga di notizie nella storia della finanza. Undici milioni e mezzo di file segreti su oltre 200mila società offshore. Create dallo studio Mossack Fonseca di Panama. Ecco gli affari riservati degli uomini di Putin, della famiglia Cameron, dei vertici comunisti cinesi. Insieme a star come Leo Messi e Jackie Chan


Da dove arrivano questi documenti?
Una fonte anonima, un "whistleblower", è entrato in possesso di migliaia di documenti dello studio Mossack Fonseca: 2,6 terabyte di materiale. La fonte lo ha passato al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung che, di fronte a una montagna di dati, si è rivolto ad ICIJ per condividere la ricerca e scoperchiarne il contenuto. In quanto unico partner italiano di ICIJ, "l'Espresso" ne è entrato in possesso.


Che cos'è Mossack Fonseca?
E' uno studio legale fondato a Panama nel 1977 e specializzato nella creazione di società registrate nei paradisi fiscali. Lo studio, considerato uno dei cinque migliori al mondo nel suo settore, è stato fondato da due avvocati. Uno è Jurgen Mossack, figlio di un nazista delle Waffen SS, che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si trasferì a Panama. L'altro è Ramon Fonseca, panamense, che ha studiato alla London Schools of Economics e ha lavorato nella sede dell'Onu di Ginevra prima di fare ritorno in America Centrale. Lo studio Mossack Fonseca ha 40 uffici nel mondo e circa 500 dipendenti. Fino a qualche tempo fa Ramon Fonseca è stato uno dei consiglieri del presidente panamense Juan Carlos Varela. A inizio marzo lo studio è stato coinvolto nell'inchiesta per corruzione che i magistrati brasiliani stanno conducendo sulla Petrobras, l'azienda petrolifera controllata dal governo di Brasilia. Quando la notizia è emersa,  Ramon Fonseca si è dimesso dalla carica di presidente. Sull'inchiesta Panama Papers, lo studio Mossach Fonseca si è difeso spiegando che non è responsabile di quello che i suoi clienti fanno con le società che lo studio crea per loro.


Panama Papers, una fonte anonima e un anno di lavoro per svelare i segreti offshore
Oltre 300 giornalisti di tutto il mondo per analizzare un'immensa banca dati finanziaria. La stessa su cui ora indagano le autorità fiscali negli Stati Uniti e in Germania, tra società fiduciarie e conti bancari


Che cos'è l’ICIJ?
E' un consorzio internazionale di giornalismo investigativo                                                                      Fondato a Washington nel 1997 dal giornalista americano Chuck Lewis, il network conta oggi 190 giornalisti di 65 Paesi. E' specializzato soprattutto in indagini su corruzione e crimini transnazionali. Il consorzio ha già pubblicato diversi lavori: l'ultimo dei quali, nel 2014, sul Lussemburgo. Intitolata Luxleaks, l'inchiesta svelò per la prima volta gli accordi riservati tra multinazionali e governo del Lussemburgo per ottenere risparmi fiscali. Un sistema che toglie denaro alle economie di diversi Paesi, regalandole invece a quella del Granducato. L’Icij è un'organizzazione non profit che basa il proprio finanziamento sulle donazioni. Alcuni dei finanziatori sono: Adessium Foundation, Open Society Foundations, The Sigrid Rausing Trust, the Fritt Ord Foundation, the Pulitzer Center on Crisis Reporting, The Ford Foundation, The David and Lucile Packard Foundation, Pew Charitable Trusts and Waterloo Foundation.

Chi è coinvolto?
L'inchiesta Panama Papers riguarda più di 214 mila società offshore collegate a persone residenti in oltre 200 Paesi. Il lavoro di indagine ha permesso di rivelare l'esistenza di società offshore riconducibili, direttamente o indirettamente, a 140 fra politici e uomini di Stato nel mondo. Fra questi, ci sono 12 attuali ed ex leader politici . Tra i più noti emersi finora: i primi ministri di Islanda e Pakistan, i presidenti di Ucraina e Azerbaigian, il re del Marocco e dell'Arabia Saudita, il presidente della Federazione russa, il premier del Regno Unito. Sono inoltre emersi i nomi di 550 banche che, attraverso lo studio legale panamense Mossack Fonseca, hanno creato più di 15 mila società offshore. Per l'Italia i nomi sono quelli di Ubi e Unicredit .



Perché ci sono solo quattro nomi italiani?
I Panama Papers contengono i nomi di circa 800 italiani. Quattro sono stati rivelati per la prima volta domenica sul sito de "l'Espresso" , in concomitanza con l'uscita dei primi risultati dell'inchiesta sulle altre testate partner di ICIJ. Gli altri nomi degli italiani verranno pubblicati nei prossimi giorni da "l'Espresso" che dedicherà al caso la sua copertina di venerdì 8 aprile nel numero in edicola. Per evitare casi di omonimia, il giornale ha deciso di pubblicare i nomi degli italiani presenti nei Panama Papers solo dopo averne verificato la loro identità.



Cosa c’entra Panama?
Panama è al centro della vicenda perché nel piccolo Paese dell'America centrale ha il suo quartier generale lo studio legale Mossack Fonseca, epicentro dell'inchiesta. Mossack Fonseca ha creato, per conto dei suoi clienti, società in moltissimi paradisi fiscali. A Panama, appunto, ma anche in altre nazioni dove il segreto bancario è massimo e il regime fiscale bassissimo: Bahamas, British Virgin Islands, Gibilterra, Lussemburgo, Svizzera, Samoa, Seychelles e tanti altri.

E’ legale avere un conto offshore?
Avere un conto corrente o una società offshore non è illegale di per sé. Nel caso dei cittadini italiani, diventa illegale se non lo si comunica alle autorità fiscali: in pratica se non lo si inserisce nella dichiarazione dei redditi. Di questo l'inchiesta giornalistica Panama Papers non si occupa, non avendo accesso ai dati fiscali delle persone in questione. "L'Espresso" si limita a segnalare, dopo opportune verifiche, gli italiani che risultano azionisti, amministratori o beneficiari di società create da Mossack Fonseca e registrate in paradisi fiscali.

E’ vero che non ci sono americani coinvolti e che è un complotto contro Putin finanziato da Soros?
Sui forum e sui social network in molti si sono chiesti perché, nei primi articoli usciti, non siano apparsi nomi di cittadini americani. Per qualcuno la mancanza non è casuale, ma dettata da una precisa regia di matrice statunitense. Tesi argomentata con il fatto che uno dei politici coinvolti dallo scandalo è il grande nemico degli Usa, Vladimir Putin. E che tra i finanziatori di ICIJ c'è la Open Society Foundations di George Soros, finanziere vicino agli Usa e arcinemico di Putin.
I Panama Papers contengono in realtà migliaia di nomi di cittadini americani, ma nessuno di eccellente è finora emerso dalle verifiche. Il lavoro delle varie testate del consorzio, fra cui "l'Espresso", sta continuando, ed è quindi possibile che nomi di cittadini americani appaiano in futuro. Va notato anche che molte società offshore sono registrate proprio negli Usa, negli Stati del Delaware e del Nevada, noti paradisi fiscali. E che l'ICIJ, in altre inchieste come quella intitolata Luxleaks , ha scoperto il coinvolgimento di diverse multinazionali americane.


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