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giovedì 23 marzo 2023

SARO' BREVE N. 56/2023. - Rino Ingarozza


Dite a Salvini, che ha detto di aver messo 3 miliardi di euro per la S.S. 106 Jonica (ovviamente senza indicare le coperture), che la sua Lega nel 2000 (Governo Berlusconi) sottrasse 10 miliardi di lire, stanziati l'anno prima dal Governo Prodi, per iniziare l'ammodernamento di questa strada, per pagare le multe delle quote latte dei padani. E che quindi senza quello scippo, magari il progetto sarebbe andato avanti e adesso quella strada sarebbe modernissima.

Quindi ditegli che le favolette le vada a raccontare agli altri.
E ditegli, altresì, che anche per il ponte bisogna indicare le coperture. Non basta dire che costa quanto un anno di Reddito di cittadinanza (e questo già dimostra quel che pensa dei poveri) perché hanno messo la MIA, che costerà un po' di meno, ma sempre miliardi sono. Quindi si decida:
O abroga anche la MIA oppure ci dica dove prende i 7 milardi per il ponte, i 3 per la S.S. 106 e i 12 miliardi per l'alta velocità in Sicilia (gia stanziati?) Ma che dici? È stata finanziata l'alta velocità da Palermo a Catania ed è un finanziamento della BEI (Banca Europea degli investimenti) e di Ferrovie dello Stato, di 3,4 miliardi di euro. Ha detto che "i soldi li mette lo Stato"... si, ma dove li prende, sull'albero della cuccagna? Se hanno tolto gli sconti sulle accise e ridotto l'importo per i disoccupati, perché, hanno detto, che la coperta è corta?
E infine chiedetegli cosa significa che i lavori per la Salerno Reggio Calabria sono in progettazione. Non è che niente niente ci vorrà qualche altro miliardino anche per questa autostrada? E direi proprio di si. Le coperture? Mica sono tutti come Bruno Vespa che si accontenta di sentirgli dire "li mette lo Stato".
Gli è mancato solo di dire "Se il ponte non si farà, lascio la politica" e magari firmare la promessa su di una scrivania in radica di noce. Da Bruno Vespa, ovviamente.
Rino Ingarozza Fb (23/03/2023)

venerdì 18 marzo 2022

Sì, ma come? - Massimo Erbetti


 

Arriviamo mai a farci questa domanda?
Pensioni minime a 1000 euro.
Togliamo le accise.
Abbassiamo le tasse.
Creeremo un milione di posti di lavoro.
Ma anche…e questo sta succedendo nella mia città in vista delle prossime elezioni amministrative…
Più sicurezza
Più lavoro
Più turismo
Più pulizia
Più decoro urbano
Più cultura…  Più…più…più…

E tutti a battere le mani…e mentre tutti guardano adoranti il pifferaio magico di turno…a me viene in mente sempre la solita domanda…come un tarlo…sempre e solo:
Sì, ma come?

Ci avete fatto caso? La storia si ripete all'infinito, dalla notte dei tempi…promesse, promesse, promesse…e poi alla fine nulla cambia…e riparte il giro di giostra…arriva un altro illusionista che ripete sempre la stessa identica storia…più più più…
E noi come pesci abbocchiamo all'amo.
Se solo cominciassimo a farci quella banale domanda: "Sì, ma come?"

Se ce la fossimo fatta in passato, quanti Berlusconi ci saremmo risparmiati? Quanti incantatori di serpenti avremmo evitato?
Campagne elettorali faraoniche, spese folli…cene…regali…ma con quali soldi? E soprattutto di chi? E perché?
Più che idee si "vendono" sogni…sogni irrealizzabili…ma a noi piace sognare…e evitiamo sempre quella banalissima domanda: "sì, ma come?"
Non svegliatemi…lasciatemi sognare…lasciatemi credere che arrivi il principe azzurro sul suo cavallo bianco e mi salvi da questo schifo in cui sono costretto a vivere…
Ma le favole sono favole…il lieto fine (quello vero) non arriva mai su un cavallo bianco…il vero principe azzurro siamo noi, solo noi possiamo salvarci…e possiamo farlo solo facendoci quella stupida domanda: "sì, ma come?

Ma ve lo ricordate" il contratto con gli italiani"?
Il contratto con gli italiani è un documento presentato e firmato da Silvio Berlusconi l'8 maggio 2001, cinque giorni prima delle elezioni politiche, nel corso della trasmissione televisiva Porta a Porta condotta da Bruno Vespa…
E io ve lo ripropongo sto benedetto Contratto con gli italiani, perché tutto nacque li…Berlusconi sdoganó un modo di far politica che è sopravvissuto a lui e ha generato una miriade di piccoli berlusconi…che ancora oggi a distanza di venti anni continuano a promettere…ogni giorno uno nuovo…ogni giorno uno diverso…cambiano i suonatori, ma la musica è sempre la stessa…

Eccolo:
"Contratto Tra Silvio Berlusconi nato a Milano il 29 settembre 1936 leader di Forza Italia e della Casa delle Libertà, che agisce in accordo con tutti gli alleati della coalizione, e i cittadini italiani si conviene e si stipula quanto segue.
Silvio Berlusconi, nel caso di una vittoria elettorale della Casa delle Libertà, si impegna, in qualità di Presidente del Consiglio, a realizzare nei cinque anni i seguenti obiettivi:
1. Abbattimento della pressione fiscale:
o con l'esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui;
o con la riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui;
o con la riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui;
o con l'abolizione della tassa di successione e della tassa sulle donazioni.
2. Attuazione del "Piano per la difesa dei cittadini e la prevenzione dei crimini" che prevede, tra l'altro, l'introduzione dell'istituto del "poliziotto o carabiniere o vigile di
quartiere" nelle città, con un risultato di una forte riduzione del numero dei reati rispetto agli attuali 3 milioni.
3. Innalzamento delle pensioni minime ad almeno 1 milione di lire al mese.
4. Dimezzamento dell'attuale tasso di disoccupazione con la creazione di almeno 1 milione e mezzo di posti di lavoro.
5. Apertura dei cantieri per almeno il 40% degli investimenti previsti dal "Piano decennale per le Grandi Opere" considerate di emergenza e comprendente strade, autostrade, metropolitane, ferrovie, reti idriche, e opere idro-geologiche per la difesa dalle alluvioni.
Nel caso che al termine di questi 5 anni di governo almeno 4 su 5 di questi traguardi non fossero stati raggiunti, Silvio Berlusconi si impegna formalmente a non ripresentare la propria candidatura alle successive elezioni politiche.
In fede,
Silvio Berlusconi
Il contratto sarà reso valido e operativo il 13 maggio 2001 con il voto degli elettori italiani."

Ha rispettato niente di quello che aveva promesso? No vero? Eppure sta ancora lì…vogliamo parlare di Renzi? Se perdo il referendum mi ritiro…ma sta ancora lì…e le accise di quell'altro? E potrei continuare a fare mille esempi di persone conosciute, o meno conosciute…a livello nazionale, ma anche a quello locale…

Ve lo chiedo per favore…fatevi quella stupida domanda: "sì, ma come?" e se riceverete una risposta, verificatela, controllate, andate a vedere se è vero quello che vi si dice…"toglierò gli sprechi"...ok, ma a quanto ammontano? Bastano per pagare quello che mi prometti? Fatevi due conti, perché i soldi non nascono nell'orto dei miracoli, non si moltiplicano come i pani e i pesci.

Volete un futuro migliore? Non aspettate il messia…fatevi domande…

domenica 15 agosto 2021

Cartabia sul Ponte: piovono balle, promesse e omissioni. - Marco Grasso

 

Genova - L’azzardo: “Nessuna prescrizione per il maxi-processo”.

“Lo voglio dire qui, davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai stato rischio per il processo sul Ponte Morandi”. Lo ha detto ieri il ministro Marta Cartabia: nessuna prescrizione per il maxi-processo di Genova. Il palco è quello dove si commemora il terzo anniversario della strage del viadotto Polcevera. A questo passaggio il pubblico applaude. In platea ci sono molti familiari delle vittime del crollo. È a loro che si rivolge la Guardasigilli, con un argomento quantomeno singolare: la sua riforma, sembra quasi volerli rassicurare, non si applicherà al loro processo. E accusa chi dice il contrario di “disonestà intellettuale” e di “allarmismo infondato” che “aggiungono ulteriore dolore”.

Ma ecco le parole esatte usate nel suo intervento: “Nelle ultime settimane so che è stata per voi e per tutta la città fonte di preoccupazione l’opinione, del tutto destituita di fondamento, per cui la riforma del processo penale potrebbe frustrare la vostra bruciante domanda di verità e giustizia. Lo voglio ripetere qui davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai, mai stato alcun rischio per il processo sul Ponte Morandi. Anzi, avendo ascoltato le vostre parole questa mattina, c’è un pensiero che non posso tacere. Bisognerebbe riflettere più di una volta prima di diffondere opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un così grande dolore. Basterebbe leggere il testo della riforma, e non serve un giurista per verificare che si applica a reati successivi al 1 gennaio 2020. Ma questo sarebbe poco. Non solo il processo per il Morandi, ma tutti i processi che riguardano altri gravi disastri, o qualunque altra vicenda umana, debbono essere portati a termine. Il governo ha lavorato a questa riforma per assicurare un accertamento tempestivo di tutte le responsabilità, non per stroncare il lavoro dei giudici”.

Il discorso ufficiale è stato affiancato da un incontro con i familiari delle vittime. Un colloquio in cui la ministra ha esposto sostanzialmente quattro concetti. Il primo è lo stesso ribadito davanti ai microfoni: l’irretroattività della norma. Il secondo: i processi particolarmente complessi avranno strade preferenziali. Terzo: la giustizia viaggerà più rapida grazie alle 8 mila figure che verranno inserite (a tempo determinato) nell’ufficio del processo. Quarto: Cartabia ha spiegato di avere in mente la creazione di una “task force” di 200 magistrati “mobili”, che andranno a coprire le emergenze di volta in volta. In altre parole: “Nessuna tagliola, vogliamo che tutti i processi arrivino in fondo”. Ma è davvero così?

Partiamo dalla questione principale: la riforma non riguarderà il processo sul Ponte Morandi. Sul Fatto è stato scritto più volte il motivo per cui questa affermazione potrebbe essere smentita: una norma che interviene su una questione “sostanziale” come la pena, può essere impugnata davanti alla Corte Costituzionale, per chiedere che abbia efficacia retroattiva (secondo il principio del favor rei: un imputato ha diritto a essere giudicato secondo la legge a lui più favorevole). In altri termini, se l’appello durasse più di due anni o il processo in Cassazione più di uno, qualunque avvocato potrebbe presentare a nome di un cliente condannato un’eccezione di costituzionalità. E sarebbe tutt’altro che infondata. Un’opinione condivisa da molti giuristi, magistrati e avvocati. È a questa platea che si rivolge la ministra quando parla di “opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un cosi grande dolore” o solo a quei giornalisti che mettono una cosa in connessione con l’altra? Secondo argomento: le corsie preferenziali per processi di “particolare complessità”. Qui sono i costituzionalisti che hanno già lanciato avvertimenti: ogni volta che si creano binari speciali, l’incostituzionalità è dietro l’angolo. Perché reati puniti con la stessa pena, rischiano di essere giudicati con regole diverse (un esito illogico). E sui reati comunitari potrebbe essere l’Ue a censurare l’Italia per bloccarne l’improcedibilità.

Quanto alle risorse aggiuntive (i cui meriti invero andrebbero riconosciuti a Bonafede), qui la questione discutibile è accostare le 8 mila assunzioni di assistenti giudiziari alla promessa di concludere tutti i processi d’appello entro due anni, e in Cassazione entro uno: si può davvero fare senza assumere nuovi magistrati? Quanto all’idea della “task-force”, assomiglia a un rafforzamento di figure già esistenti, i magistrati in applicazione extra-distrettuale: spesso usati come “jolly”, e per questo poco specializzati, sono figure raramente risolutive, se i problemi sono strutturali (uffici che accumulano costantemente più fascicoli di quanti ne possono smaltire). La rassicurazione finale: un cuscinetto di 4 anni, dice la ministra, permetterà di valutare l’efficacia della norma e valutare eventuali modifiche. Peccato che non sia farina del suo sacco, ma il compromesso uscito dalla trattativa con Giuseppe Conte.

ILFQ


mercoledì 11 novembre 2020

“Senza protettori non entri”: odissee da ricercatori precari. - Roberto Rotunno


 

Il rapporto - Interviste a centinaia di studiosi in università ed enti: minacce, baronato e maltrattamenti. Solo promesse non mantenute.

“In uno dei colloqui che ho provato a fare per vincere un dottorato, il presidente della commissione mi ha detto che, se non c’è un professore che mi vuole, non ha senso nemmeno presentarmi”. Chi parla è un ricercatore dell’Università di Padova, uno tra i tanti studiosi che alcune settimane fa hanno risposto all’indagine sul baronato del mondo accademico italiano promossa dal Comitato precari ricercatori universitari (Cpru). La sua è solo una delle centinaia di storie.

Quello venuto fuori è un mondo caratterizzato spesso da ricatti, discriminazioni, promesse non mantenute e professionalità non valorizzate. Più della metà degli intervistati lavora in università, gli altri in enti pubblici (epr), aziende e istituti di cura. Mentre tutti aspettano che la ricerca compia l’ultimo passo alla conquista del vaccino contro il Covid, nel nostro Paese il settore resta castrato dalle scarse risorse che ha a disposizione e finisce per demotivare chi ne fa parte. Tanto che l’83,3% degli intervistati ha detto di guardare con preoccupazione al futuro e il 49,5% si sente semplicemente sfruttato.

L’impressione che emerge dal report è che molti docenti tendano a premiare obbedienza e fedeltà piuttosto che la bravura. “Ho lavorato nella ricerca per dieci anni dopo il dottorato – racconta una ricercatrice – mi è sempre stato detto che in futuro si sarebbero aperte opportunità in Università, ma non si è mai presentata la possibilità di partecipare a concorsi”. Quasi il 36% ha detto di essere stato ingannato da false promesse che riguardano presunti avanzamenti di carriera. C’è poi la quotidianità. Il 38% dichiara di aver subito minacce, di essere stato demansionato, denigrato o isolato da parte dei superiori (quindi dal docente o da un dirigente nel caso degli enti di ricerca). Quasi il 15% delle donne, inoltre, sostiene di aver subito discriminazioni di genere. “In Università venivo chiamata con appellativi come cucciola, piccola, occhi belli, a fronte di colleghi uomini chiamati per cognome”, ricorda una ricercatrice. È andata peggio a chi ha affrontato una gravidanza: “Quando ho comunicato al mio capo che aspettavo un bambino – si legge su uno dei questionari – mi ha creato problemi e ha minacciato di sostituirmi se le cose non fossero tornate come prima. E ora, infatti, faccio i salti mortali per garantire più di otto ore al giorno, lavorando anche da casa”.

Praticamente tutti sostengono di essere in servizio per un tempo superiore a quello previsto dai contratti, e il 44,4% lo fa perché si sente obbligato e teme ripercussioni.

Le carriere sono frammentate, in genere si parte con un dottorato dopo la laurea, poi si passa a un assegno di ricerca e si spera di accedere in un nuovo concorso. Tra un passaggio e l’altro, tanti buchi che spesso si traducono in lavoro gratuito per non perdersi per strada. “Dopo il dottorato – racconta una ricercatrice – non ho percepito la retribuzione per dieci mesi in attesa di un assegno all’Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn)”. “Il problema – fa notare un collega dell’Università di Bologna – sono quelli che definisco i ‘progetti trappola’. Enormi, complessi, affidati da istituzioni prestigiose a una sola persona abbandonata a se stessa. Mi è successo la prima volta dieci anni fa, quando, terminata la borsa di studio annuale, non c’è stato il rinnovo. Pertanto nel secondo anno non sono stato pagato”. Secondo il rapporto a demotivare i ricercatori precari si sono soprattutto i mancati riconoscimenti, a partire dalle citazioni scomparse dalle pubblicazioni a cui però contribuiscono per la gran parte. “Non ho potuto nemmeno inserire il mio nome su un progetto di ricerca basato su una mia idea”, ha risposto una studiosa della Sapienza. Il 61,5% degli assegnisti dice che ha lavorato durante il lockdown senza che questo sia stato riconosciuto.

Il precariato, dunque, resta una condizione non solo contrattuale. Del resto il proliferare di contratti a termine non è stato sconfitto nemmeno dalla legge Madia, che a partire dal 2017 ha avviato le stabilizzazioni negli enti pubblici di ricerca. A oltre tre anni, oggi solo nel Cnr, il più grosso, sono ancora circa 400 i precari storici che aspettano l’assunzione. “Servono nuovi fondi per completare le stabilizzazioni – spiegano dalla UilRua – e bisogna anche creare un nuovo piano di reclutamento che non ripeta il circolo vizioso”. Infatti, nel frattempo si sono già create nuove sacche di precari storici che rivendicheranno un posto fisso.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/11/senza-protettori-non-entri-odissee-da-ricercatori-precari/5999352/

lunedì 8 gennaio 2018

Legge Fornero, canone Rai e tasse universitarie: fact-checking alle promesse dei partiti. - Marzio Bartoloni, Andrea Biondi, Davide Colombo.



Cancellare la riforma Fornero sulle pensioni, abolire il canone Rai, azzerare le tasse universitarie. Queste, rispettivamente da centro-destra, Pd e Liberi e uguali, le ultime proposte lanciate nei giorni scorsi in vista delle elezioni del 4 marzo. Tre promesse che tuttavia devono fare i conti con l’impatto sul bilancio pubblico. Il Sole 24 Ore è andato a vedere quanto costerebbero queste promesse elettorali, cominciando con quella più onerosa, cioè l’abolizione della riforma Fornero.

1) La riforma Fornero vale ancora 20 miliardi di risparmi l’anno.Nei primi anni di piena applicazione, tra il 2013 e il 2016, la Riforma Fornero avrebbe garantito una minore spesa pensionistica per circa un punto di Pil l'anno (15-16 miliardi). Sono numeri della vecchia relazione tecnica al decreto Salva Italia (201/2011) che andrebbero alleggeriti dal costo delle salvaguardie esodati che si sono succedute in quegli anni e nei successivi fino all'ottava e ultima (11 miliardi circa di maggiore spese cumulata) varata con l'ultima legge di Bilancio 2017, quella che ha introdotto anche le nuove forme di flessibilità, le nuove 14esime, l'Ape e il cui costo è stato stimato in 7 miliardi nei primi tre anni di applicazione e 26 nei primi dieci, sempre stando ai dati della relazione tecnica della penultima legge di bilancio confermate dalle stime della Ragioneria generale dello Stato.

Al netto di queste misure di maggiore spesa previdenziale, le regole della riforma 2011 dovrebbero garantire comunque risparmi attorno ai 20 miliardi annui tra il 2019 e il 2020, con una proiezione di 200 miliardi nei prossimi dieci anni. Questo numero comprende anche la piena applicazione degli stabilizzatori automatici che modificano i requisiti di pensionamento all'aspettativa di vita (altro strumento che molti vorrebbero depotenziare) e che fa scattare a 67 anni la vecchiaia dal 2019.   

Superare la Fornero significa confrontarsi con questi numeri che, naturalmente, possono essere anche solo in parte aggrediti se quello che in campagna elettorale viene venduto come “dopo-Fornero” si limitasse a misure più ridotte. Un altro set di numeri di partenza che bisogna tenere in mente è invece legato alla spesa per pensioni a legislazione vigente.

Se non si cambia nessuna regole si passa dai 264,6 miliardi dell'anno scorso ai 286,7 del 2020 (22 miliardi in più; +8% secondo la Nota di aggiornamento al Def dello scorso settembre). Siamo attorno al 15% del Pil, un livello stabilizzato dalle ultime riforme, non solo dalla Fornero, secondo tutti i principali organicismi internazionali di valutazione (dall'ocre al Fmi).

Ma quel dato è esposto a un elevato rischio di rialzo: con l'attuale tasso di natalità nei prossimi 20 anni è altamente probabile che l'Italia perderà 3 milioni e mezzo di individui in età lavorativa (15-69 anni), proprio negli stessi anni in cui le assai popolose coorti dei baby boomers andrà in pensione. Tra il 2040 e il '45 salirebbe al 95-100% il numero di pensioni in rapporto al numero di occupati, oltre dieci punti al di sopra il livello di questi anni. La spesa per pensioni in rapporto al Pil salirebbe di oltre due punti, verso il 18%. 

Si dirà che la campagna elettorale si gioca nelle prossime 7 settimane, ma quando si toccano le pensioni è bene guardare agli impatti sui conti nei prossimi 30, 50, 70 anni.

2) L’abolizione del canone costerebbe 1,7 miliardi.
Un miliardo e 700 milioni. Stando a documenti ufficiali e bilanci intervenire sul canone vuol dire prevedere in sostanza compensazioni di questo tipo per la Rai. Del resto, nel momento stesso in cui l'indiscrezione è diventata di dominio pubblico è stato evidenziato come ci fosse la consapevolezza di richiedere allo Stato un miliardo e mezzo-due miliardi nella fase transitoria. Utile per capire le dimensioni economiche della questione rifarsi all'audizione in Commissione di Vigilanza Rai, lo scorso 6 settembre, del viceministro per l'Economia Enrico Morando secondo cui “per il 2018 le risorse da stanziare per la Rai, nel bilancio dello Stato, vengono calcolate in riferimento alle entrate derivate dal canone, stimate dal dipartimento delle Finanze in 1,881 miliardi.

La stima “si basa su un canone unitario di 90 euro (cosa ancora non certa allora, ma poi diventata certa con la legge di bilancio, ndr.) e l'importo, rapportato alla stima definitiva di entrata del 2016, pari a 1,681 miliardi, genera un plus di circa 200 milioni di euro da destinare per il 50 per cento alla Rai”. Per l'azienda, ha aggiunto Morando, è previsto uno stanziamento “di 1,7 miliardi di euro, una somma già al netto della quota del 5 per cento trattenuta dallo stato ai sensi delle manovre di finanza pubblica in vigore”. Va comunque tenuto in considerazione che l'inserimento del canone in bolletta ha prodotto un recupero dell'evasione fra 400 e 500 milioni. Dal 2019 questo introito, ora qualificato come extragettito andrà totalmente alla Rai. Una parte importante dell'idea di abolire il canone è legata all'eliminazione dei tetti pubblicitari per la Rai più stringenti rispetto a quelli della tv commerciale (12% orario e 4% settimanale contro un “tetto” orario del 18% di spot e del 15% giornaliero. Certo, con il varo del nuovo contratto di servizio quinquennale, con cui si declinano i vari impegni della Rai, il quadro diventa sicuramente più complesso.

3) Togliere le tasse a 1 milione e mezzo di studenti costa 1,6 miliardi. 
L'università a zero tasse per gli studenti, proposta dal presidente del Senato Pietro Grasso e leader di Liberi e Uguali, costa oltre un miliardo e mezzo e potrebbe garantire l’esenzione dalla tasse universitarie - in media 1200 euro l’anno con costi più alti al Nord rispetto al Centro Sud - a oltre un milione di studenti . Visto che sono circa 500-600mila gli studenti che dovrebbero già rientrare nell’esenzione (la no tax area) che scatta in questo anno accademico. Stime queste che potrebbe, però, essere riviste al rialzo visto che la gratuità potrebbe avere un effetto rimbalzo provocando una corsa alle immatricolazioni.

La proposta del leader di Leu quella cioè di «avere un’università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei» tocca in effetti un punto molto sensibile. Oggi l’Italia detiene il record negativo assoluto - superata solo dal Messico - per il numero di laureati tra i Paesi più sviluppati: solo il 18%, contro il 37% della media Ocse. Una vera emergenza a cui il Governo attuale ha cercato di dare una prima risposta introducendo da questo anno accademico una no tax area (zero tasse appunto) per chi ha un Isee sotto i 13mila euro e tasse calmierate per chi non supera la soglia dei 30mila euro. Una novità di cui dovrebbero beneficiare circa 350mila famiglie, ma che secondo un’indagine del Sole 24 Ore sale a 500-600 mila nuclei visto che molti atenei hanno stabilito limiti di esenzione a 15mila, se non addirittura a 23mila euro. A questa prima platea con la proposta di Grasso - se mai fosse attuata - si aggiungerebbe oltre un milione di studenti che oggi invece pagano le tasse. In tutto gli iscritti alle università statali sono infatti oltre un milione e mezzo.

Ma quanto si paga oggi per frequentare l’università? Secondo gli ultimi dati raccolti dagli studenti dell’Udu (l’Unione degli universitari) nell’ultimo decennio sulla base dei numeri ufficiali dell’anagrafe del Miur la media in Italia nel 2015/2016 del contributo pagato dagli studenti si è attestata a 1248 euro. Per una raccolta di gettito da parte delle università che in quell’anno è stata di 1,612 miliardi e l’anno successivo - avverte il Miur - è salita a 1,8 miliardi. Le tasse tra l’altro sono aumentate sensibilmente negli ultimi anni (+473 euro, il 61% in 10 anni sempre secondo l’Udu). E con differenze importanti tra le aree del Paese. In particolare nel 2015/2016 le tasse medie al Nord ammontavano a 1501 euro, mentre al Centro valgono 1196 euro, fino al Sud dove il contributo medio pagato dagli studenti non supera i mille euro (963 euro per l’esattezza).

Dal 2018 il Governo ha messo sul piatto 105 milioni all’anno per finanziare la nuova no tax area, cifra che gli atenei considerano però troppa bassa per coprire il mancato gettito del contributo degli studenti. E così molte università con i regolamenti sulle tasse universitarie per coprire i costi in più hanno aumentato le tasse per i redditi più alti e per gli studenti fuori corso. Nei prossimi mesi comunque - quando si avrà il conto esatto delle nuove iscrizioni - si conoscerà meglio l’impatto economico di questa nuova riforma. 
Ma cosa accade nel resto d’Europa? In Germania l’università è pressoché gratuita a eccezione di alcuni Lander. Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia non applicano tasse agli studenti Ue. In Austria, niente tasse per gli europei, circa 700 euro a semestre per gli altri. In Francia la laurea triennale costa 189 euro l'anno, la magistrale 260, ma ci vogliono altri 213 euro per le coperture previdenziali. Più robusta la tassazione in Spagna: da 700 fino a 2.000 euro l'anno per la triennale (più o meno come in Portogallo), fino a quasi 4.000 per la magistrale. Quasi 2.000 euro anche nei Paesi Bassi.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-01-08/la-riforma-fornero-vale-ancora-20-miliardi-risparmi-l-anno-124229.shtml?uuid=AEFFmldD

lunedì 5 maggio 2014

Renzi: c’è una batost@ per te, “mandatemi una mail”. - Anna Lombroso

Senigallia

Sarò prevenuta e disfattista, ma io non noto una gran differenza tra le risate degli ilari imprenditori che si telefonano nella notte del terremoto dell’Aquila e il saluto benedicente del presidente del consiglio planato in elicottero su Senigallia ferita a morte e che si accomiata dai cittadini prostrati dell’emergenza, incoraggiandoli alla Petrolini “ la città risorgerà più belle a splendente che pria “ e poi con una frase che suona oltraggiosa più che inopportuna “mandatemi delle mail”.

Mi auguro che la sua casella di posta e il suo hashtag Renzi # sprezzantebastardo siano inondati di messaggi, che alle prossima scadenza elettorale non la passi liscia, che quelli che pensano che sia ineluttabile, inevitabile, inesorabile, fatale firmare l’ennesima cambiale in bianco a favore di lui, del partito unico, frutto di una alleanza di ferro con il promoter di quegli imprenditori ridanciani, della larga intesa che mette d’accordo chi sbeffeggia esodati, giovani disoccupati, cinquantenni licenziati, condannandoli alla precarietà come gli alluvionati sui tetti, ebbene se ne ricordi di quel “mandatemi una mail”, provocazione di un bullo senza scrupoli, di un ragazzino che falsifica la firma dei genitori, di un teenager che lascia la morosa con l’emoticon triste sul cellulare.

Anche il mio pc è stanco di scrivere che ogni pioggia diventa un’alluvione, che ogni temporale si converte in catastrofe. E che alla fonte c’è una irresponsabilità globale, quella dei governi che negano il cambiamento climatico che produce eventi estremi, con la stessa proterva e dissennata determinazione con la quale continuano a chiamare fenomeni naturali le conseguenze dell’incuria combinata con la corruzione, il malgoverno, l’inadeguatezza e l’incompetenza. Le scelte del governo Renzi sono chiare, dietro e davanti le promesse, dietro e davanti la rivendicazione “non ci sono quattrini”. E non prevedono investimenti per la tutela e il risanamento del territorio, anzi in nome della guerra alla burocrazia e per favorire al “semplificazione” e lo snellimento delle burocrazie per lasciare maggiore libertà alle imprese e ai privati, lo smantellamento del sistema di controlli e autorizzazioni. Mentre per le grandi opere, che quel territorio lo devastano senza ripercussioni positive, economiche o sociali sui cittadini, i soldi si trovano, dietro il simulacro illusorio della “partecipazione”, del project financing , cui nessuna azienda, regolare o criminale, pensa davvero di partecipare preferendo le formule largamente parassitarie favorite dai governi che si sono succeduti anche andando molto in là negli anni e che si fanno sempre più sofisticate.
Perché, ridendo o no, non usufruire di quel sistema che scarica, attraverso una trama a cascata di appalti e subappalti, la competizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, una competizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico. Perché la classe dirigente politica e imprenditoriale non dovrebbe, visto che a questo scopo sono state create tutte le condizioni favorevoli, scaricare sul debito pubblico le risorse necessarie alla realizzazione o in alcuni casi anche solo alla profittevole progettazione, di interventi largamente inutili, quando non dannosi? Il progetto Tav ha costituito un modello, un laboratorio finanziario e contrattuale di questo sistema, così come la cordata del Mose, così come saranno i canali, per ora solo virtuali, che produrranno esiti catastrofici sull’equilibrio della Laguna di Venezia, con il ricorso all’istituto del contratto di concessione, nel quale la funzione del committente si trasferisce al privato e l’elemento finanziario diventa fondamentale. Così che il regime “personale”, come in politica, ed il fattore finanziario sono dominanti e si rendono inutilizzabili o di impossibile applicazione le norme di contrasto della mafia, della corruzione o di tutela del lavoro, che sono state concepite e codificate per procedure di affidamento tradizionali, in particolare per l’appalto tipico.
È l’economia informale, questa, che facilmente sconfina nell’illegittimità e nell’illegalità, e che nel caso delle “catastrofi naturali”, che senza nessuna naturalezza si abbattono con tragica e ricorrente puntualità sul Paese, sono aiutate dall’abitudine ormai secolare di lasciare decantare crisi in modo che diventino emergenze da affrontare con misure eccezionali, commissari ad hoc, poteri speciali, repressioni di chi rivendica la potestà di intervenire sulle scelte che riguardano le vite di tutti noi. Mandiamogli una mail, si ricordi che le nostre vite, i nostri beni, le nostre decisioni ce le riprendiamo.