giovedì 15 dicembre 2016

Le bugie su Aleppo. - Sebastiano Caputo

focus alepp grande daily times

Sapevo che la battaglia finale ad Aleppo si sarebbe scatenata nel giro di pochi giorni. Ero stato a Damasco poche settimane fa e già si parlava di questa offensiva conclusasi proprio ieri sera. Avevo i contatti per andare lì, del resto ci sono già stato, ma due motivi mi hanno spinto a restarmene a casa: i costi del viaggio troppo elevati, e la paura di rimanere prigioniero della città qualora le cose si sarebbero messe male. Ora mi tocca leggere da Roma, quello che sta accadendo in quel Paese ferito da una guerra per procura entrata nel suo sesto anno.
Quanto è difficile starsene in panchina, soprattutto quando è la cattiva informazione a farla da padrona. Insomma, è tutto il giorno che leggo articoli di giornale e vedo servizi televisivi (nazionali e stranieri) sulla conquista totale e definitiva di Aleppo da parte dell’esercito siriano. Non pensavo ci fossero in Italia così tanti sostenitori dei gruppi terroristici. O meglio, sapevo che c’era disinformazione tanto da aver raccontato la mia piccolissima esperienza di viaggio in un libro, ma non credevo si sarebbe arrivati a negare persino all’evidenza. Ma qui “negare l’evidenza” è diventata l’ultima frontiera dei commentatori di politica estera travestiti il “day after” da reporter di guerra. Non mi riferisco ai poveri stagisti sottopagati usciti dalle scuole di giornalismo e assunti per fare clickbaiting, ma a quei “professionisti” che in cattiva fede offrono un racconto personalistico e ideologico. Non farò nomi, non voglio creare polemiche, ma vi invito a fare qualche ricerca su internet per capire di cosa sto parlando.
Libera non libera, poco importa. Una città distrutta non è mai vincitrice. Dobbiamo interrogarci su altro: come dobbiamo raccontare la battaglia di Aleppo nel rispetto dei lettori? A quali fonti bisogna attingere? Come distinguere una notizia falsa da una vera in un contesto di guerra che vede la verità come prima degli sconfitti?
In primo luogo non è oggettivo riportare le informazioni pubblicate dai media arabi Al Arabiya Al Jazeera, rispettivamente controllati da Arabia Saudita e Qatar, due Paesi coinvolti fin dall’inizio nel conflitto siriano. Lo stesso discorso potremmo farlo per Press Tv e Russia Today, controllati rispettivamente da Iran e Russia, due Paesi militarmente attivi in Siria. Eppure a differenza dei primi, questi hanno dei veri e propri inviati sul campo che seguono l’avanzata dei militari, mentre gli altri citano fonti anonime e senza alcuna prova fotografica o video. Vi diranno che sono “embedded”, che alcune cose non potranno dirle o scriverle. Sicuramente è così, ma c’è molta differenza tra una fonte diretta e una che si aggrappa al “sentito dire” di certi attivisti.
Veniamo ai media italiani. Molti di noi giornalisti che andavano in Siria scortati dalle forze governative venivamo accusati di essere gli agenti occidentali di Bashar Al Assad mentre loro, i proprietari della Verità, hanno continuato per anni a raccontare all’opinione pubblica, comodi in redazione, la storiella dei ribelli moderati. Sapevano di mentire perché mentre noi parlavamo con la gente del posto portando a casa documenti autorevoli, interviste, fotografie e servizi, loro, dopo le notizie dei rapimenti dei colleghi, non ci pensavano minimamente ad andare in quelle zone “liberate” dai loro nuovi “eroi”. La verità è che se entri in Siria come giornalista ti conviene andare con il “cattivissimo” regime di Assad se no a casa non ci torni. E se riesci a tornare indietro torni con un altro punto di vista, vedi Domenico Quirico.
Per quanto mi riguarda mi ritengo un osservatore e non mi interessa se verrò tacciato come filo-governativo. E sebbene Assad e Putin non mi abbiano mai staccato un assegno, credo sia necessario dire le cose fino in fondo. Ricordo che ad aprile quando andai per la seconda volta in Siria, le facce dei soldati ai checkpoint di Damasco erano rilassate, tranquille, pulite, poi man mano che mi dirigevo verso Aleppo, in un viaggio infinito e traumatico in automobile, queste diventavano sempre più stanche, arrabbiate, sporche. Erano i segni della guerra stampati sul volto di chi dorme poco la notte sdraiato accanto al proprio kalashnikov. Mi trovavo nell’epicentro del conflitto, nella città più contesa del Paese dove le linee del fronte erano distanti qualche decina di metri. Ti trovavi in territorio governativo, e magari la strada parallela o quella dopo, perpendicolare, era controllata dai ribelli armati. Ad Aleppo ci sono i soldati più preparati ma anche quelli più burberi. Io non ho le prove ma non ho dubbi che si siano commessi atti di violenza durante la conquista della parte orientale, non ho dubbi che alcuni civili abbiano pagato con la vita per aver ospitato guerriglieri a casa, oppure che siano stati fucilati davanti ad altri per punirli e marcare di nuovo il territorio. Sono tecniche di coercizione: se ne ammazza uno per educarne cento. A noi ce lo hanno insegnato gli americani bombardando intere città quando la guerra era finita da un pezzo. “Abbiamo cacciato i tedeschi ma ora comandiamo noi”, questo era il messaggio, o meglio l’avvertimento. Ora come si può raccontare la battaglia di Aleppo con categorie pacifiste? Ma soprattutto come si può criminalizzare un intero esercito come fanno tutti i mezzi d’informazione in queste ore? Qualora fosse vero ci siano atti di ingiustizia come quelli citati sopra, è ancor più vero, date le prove, che girano immagini con i militari siriani che vengono accolti in festa nella parte orientale mentre altri distribuiscono coperte, cibo e acqua. Ma questo non ve lo diranno mai perché la narrazione ufficiale ha una funzione ben precisa: criminalizzare lo “zar” e il “dittatore”. Potrei scrivere ancora tanto ma non mi dilungherò. Mi limito ad invitare i lettori a non fidarsi mai di chi parla di un fatto senza viverlo direttamente. E ai giornalisti che hanno un minimo di coraggio dico: gli occhi sono l’ultima arma che abbiamo contro la mistificazione della realtà.

Alessandra Moretti (Pd): "Sono malata, non lavorerò". Invece è a una festa di matrimonio in India. - Ferruccio Sansa

Alessandra Moretti (Pd) con la febbre, niente Consiglio regionale. “E invece era in India”

Veneto - Miracolo della Moretti: s’era data indisposta al consiglio regionale, poi le foto su Instagram.

Malata di viaggio”. Quando i consiglieri regionali veneti del Pd hanno visto la dichiarazione della loro capogruppo, Alessandra Moretti, hanno fatto un salto sulla sedia: “Viaggio? Noi la immaginavamo a letto con il termometro. Invece era in India”. I compagni non l’hanno presa bene: “Noi in consiglio e la capogruppo in India…”.
Una manciata di giorni fa la chat dei consiglieri Pd veneti annuncia la convocazione per l’assemblea: “Moretti ha mandato un messaggio: sono malata. Stop. Mica sapevamo che era all’estero. Mentre c’era la sessione di bilancio”. Ma poi la notizia salta fuori. Galeotto un messaggio sul social network Instagram postato dalla stessa Moretti: “C’erano foto di Alessandra… in India, così l’abbiamo chiamata e il telefono suonava strano”, raccontano in Regione.
Una trasferta segreta? Macché: “Un viaggio che apre gli occhi sul mondo”, scrive Moretti sul social. E anche con il cronista la prende con un’ironia condita dall’accento vicentino più forte dopo il ritorno nel suo Veneto: “Sono contenta che vi preoccupiate tanto per la mia salute”, esordisce Moretti, che dopo aver abbandonato il Parlamento italiano per quello europeo, si era candidata alla presidenza del Veneto (sconfitta da Luca Zaia). “Potete stare tranquilli, sto meglio”, sorride Moretti. Si vede dalle foto, eccola in mezzo alla folla colorata davanti a un tempio: “Guardi che sono stata ammalata davvero… quelle cose che vengono in India, ce la siamo presa tutti”, si fa seria. Ma i suoi colleghi dicono che non sapevano del suo viaggio… “Macché, la mia segreteria sapeva. Sono venuta qui con mio padre per un matrimonio, una festa di quattro giorni”.
Una vera e propria spedizione istituzionale, riferisce il Giornale di Vicenza: oltre a Moretti era presente anche l’assessore alla Sicurezza del Comune di Vicenza, Dario Rotondi. Tutti a festeggiare il matrimonio di Jorge Sharma, imprenditore orafo con base a Vicenza. Ma quell’assenza dalla politica? “Questa in India è un’esperienza pazzesca. Dovrebbero farla tutti i politici. Dovreste vedere quanta povertà, quanta sofferenza. Non ce ne rendiamo conto”.
Moretti colpita dal mal d’India? I colleghi del gruppo Pd in Regione non ci credono molto: “Se è per questo, era già stata a Miami. E poi Moretti ha il record delle assenze (27,78%) in Consiglio, seconda solo a Zaia”. Non tira proprio una bella aria nel Pd regionale: “Preferisco fare l’indiano”, evita ogni commento un collega sui banchi dell’opposizione. E un altro ancora: “Che figura ci fa il Pd? Come facciamo a dire che il nostro capogruppo è in India? Era assente anche quando si parlava di Sanità”.
Moretti non si scompone: “Stiamo facendo un gran lavoro. È dura, ma diamo battaglia”. L’India? “Vale più una settimana qui che un anno a Palazzo”.

Referendum sul Jobs act: la Consulta decide sull'ammissibilità l'11 gennaio. - Silvio Buzzanca

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Nel Pd adesso si cerca di correre ai ripari per evitare un nuovo ko referendario: modificare la legge o congerlarlo con il voto anticipato.

ROMA - “Una rogna”. Matteo Renzi definisce così l’ipotesi che la Corte Costituzionale, la decisione è prevista l’11 gennaio, dichiari ammissibili i tre referendum presentati dalla Cgil che chiedono l’abolizione del Jobs Act e il ritorno all’articolo 18, la cancellazione dei voucher e il ritorno alle garanzie per i contributi dei lavoratori delle ditte che subappaltano lavori. Con il via libera della Consulta il governo dovrebbe fissare la data del voto fra il 15 aprile e il 15 giugno. E con l’aria che tira, è il ritornello che gira fra i democratici, quelli del No avrebbero un’altra bella occasione per dare una seconda mazzata a Renzi e ai suoi progetti di rivincita. Anche se questa volta il referendum prevede il quorum. E allora nel Palazzo già si pensa e si lavora su come disinnescare questa mina vagante. Fino all’idea estrema: sconfessare, la riforma voluta da Renzi, considerarla defunta e trovare altre soluzioni per evitare il voto popolare.
 
La prima ipotesi però è la più semplice e si incastra perfettamente nelle strategie renziane. Si sciolgono le Camere e si va a votare a giugno: Renzi ha in testa la data dell’11 giugno. In questo caso la legge parla chiaro: i quesiti referendari vanno congelati e spostati di un anno perché non si possono tenere insieme elezioni politiche e referendum. La via più semplice. Una soluzione che però deve fare i conti con la riluttanza del presidente della Repubblica a sciogliere le Camere e con i tempi del varo delle nuove leggi elettorali per Camera e Senato. C’è chi, infatti, vorrebbe correre, iniziare a discutere subito, prima del giudizio della Consulta sull’Italicum. Scegliendo la soluzione apparentemente più facile: tornare al Mattarellum.
 
Il deputato del Pd Michele Nicoletti ha appena presentato una proposta di legge per ripristinare la legge con cui abbiamo votato nel 1994, 1996 e 2001. C’è chi, invece, vuole aspettare la Consulta e la sua decisione e ripartire da cosa diranno i giudici costituzionali. E cosa di non poco conto fra i sostenitori di questa tesi c’è Anna Finocchiaro, presidente della Affari costituzionali del Senato e ora ministro per i Rapporti con il Parlamento che dovrà occuparsi d tessere la tela delle nuove leggi elettorali.
 
Così, di fronte all’incertezza sulla reale durata del governo Gentiloni si affaccia una nuova ipotesi: modificare il Jobs act, rivedere le norme sui voucher. Ne ha parlato all’ultima riunione dei gruppi del Pd Cesare Damiano, come conferma il capogruppo del Pd a Montecitorio Ettore Rosato: «Sì, in un intervento è stato citato il tema». Per i voucher ha spiegato Damiano tutto è più facile: basta recuperare la legge Biagi e farli tornare veramente strumenti per pagare collaborazioni occasionali. Il terzo quesito ha natura molto tecnica e, anche se si tenesse, non può certo assumere valore politico.
 
Il discorso è più complicato sulle possibili modifiche all’articolo 18. Che dall’abrogazione delle norme sul Jobs act verrebbe esteso alle aziende con più di 5 dipendenti. Damiano ha posto il problema e avrebbe anche detto al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini “il Jobs act mi sembra defunto”. Ma sconfessare la legge sarebbe un altro duro colpo alla narrazione renziana “dell’abbiamo fatto in tre anni più di quello che altri hanno fatto in dieci anni”. Una clamorosa marcia indietro che si aggiungerebbe al no popolare alle riforme, alle prese di distanza dello stesso Renzi dell’attuazione della Buona scuola e alla parziale bocciatura della Consulta della riforma della Pubblica amministrazione. Ma fare delle modifiche alla legge vigente e convincere la Cassazione che il nuovo testo eri il quesito del referendum è molto arduo. Ecco allora tornare in pista l’ipotesi principale: andare alle elezioni politiche e rinviare tutto di un anno. Una tesi che sostiene il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. " Se si vota prima del referendum sul Jobs Act, il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile. Sulla data dell'esame della Consulta è tutto come previsto". 

Naturalmente riaccendere il faro sull'articolo 18 e i voucher, riattizza la conflittualità fra sindacati e imprese. "I voucher  per la Cisl vanno sicuramente cambiati e aboliti nei settori dell'agricoltura e dell'edilizia, dove sono diventati uno strumento selvaggio di precarietà del lavoro", dice la segretaria Annamaria Furlan. Susanna Camusso risponde invece al ministro Poletti che esclude la tenuta del referendum causa elezioni politiche. "Mi pare dotato di una sfera di cristallo", dice la leader della Cgil. Per la Camusso "insistere sullo slittamento del referendum significa non avere il coraggio di affrontare i problemi". E comunque, conclude, per noi "vale il merito e non la data". Invece il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia dice: "Arriva il referendum? Io imprenditore attendo e non assumo. E questo  è il capolavoro italiano dell'ansietà, di far vivere il paese in un clima perenne di incertezza totale".


http://www.repubblica.it/politica/2016/12/14/news/referendum_sul_jobs_act_la_consulta_decide_sull_ammissibilita_l_11_gennaio-154079936/

Sole 24 Ore, aperto fascicolo per falso in bilancio. Acquisiti i documenti contabili.

Sole 24 Ore, aperto fascicolo per falso in bilancio. Acquisiti i documenti contabili

A tre settimane dalla notizia di un buco da 50 milioni di euro e a due giorni dall'ispezione Consob con il supporto della Guardia di finanza, che in passato aveva ricevuto più esposti sulle anomalie di alcune operazioni, l'ipotesi è stata iscritta nel registro delle notizie di reato della Procura di Milano.

Comincia a prendere forma il fascicolo della Procura di Milano sui conti del gruppo Sole 24 Ore. A tre settimane dalla notizia di un buco da 50 milioni di euro e a due giorni dall’ispezione Consob con il supporto della Guardia di finanza, che in passato aveva ricevuto più esposti sulle anomalie di alcune operazioni, c’è l’ipotesi iscritta nel registro delle notizie di reato. È, naturalmente, il falso in bilancio. Però ora non ci sono indagati, ma il pm di Milano Fabio De Pasquale, titolare dell’indagine, ha disposto l’acquisizione dei bilanci degli ultimi anni presso Kpmg, la società che ha certificato i conti del gruppo.
Nei giorni scorsi la procura di Milano aveva ricevuto un esposto dell’Adusbef sulla gestione della società con le ipotesi dei reati di falso in bilancio e false comunicazioni sociali, che in parte ricalcava un documento analogo presentato nel 2010 dai membri del sindacato interno dei giornalisti, tra i quali Nicola Borzi. Lo stesso che, sempre in qualità di azionista oltre che dipendente dell’editrice, il 5 e il 7 ottobre del 2016 ha presentato all’authority di vigilanza sui mercati due nuovi esposti incentrati sul caso delle vendite digitali del quotidiano. L’Adusbef chiedeva alla magistratura di indagare, oltre che su presunte ipotesi di reato degli amministratori del Sole 24 Ore, anche sulla presunta omessa vigilanza della Consob. Per l’associazione dei consumatori l’ispezione di mercoledì 19 ottobre arriva con un ritardo di oltre 5 anni.
bilanci raccontano una parabola calante, come ha raccontato il Fatto Quotidiano. Quando il gruppo si quotò – 6 dicembre 2007 – aveva un valore di Borsa di 750 milioni, oggi ne vale 51. Il patrimonio netto era di 347 milioni e oggi è di 28 milioni. La posizione finanziaria netta, cioè soldi in cassa, era positiva per 149 milioni mentre oggi è negativa per 30 milioni. Le perdite cumulate superano il miliardo di euro. Dove sono finiti questi soldi e come è stato possibile che nessuno, dai presidenti ai componenti dei collegi sindacali, se ne sia accorto? Che qualcosa non funzionasse è emerso ufficialmente solo qualche mese fa quando è arrivato il nuovo ad Gabriele Del Torchio.
Intanto dopo le dimissione del cda, presieduto da Giorgio Squinzie la nomina pro tempore di Carlo Robiglio e Luigi Abete, due giorni fa Confindustria ha depositato la propria lista per il rinnovo del consiglio di amministrazione: Giorgio Fossa è indicato come candidato presidente e Luigi Gubitosi, Patrizia Micucci e Livia Salvini come amministratori indipendenti. In lista anche Giuseppina Mengano Amarelli, Marcella Panucci, Massimo Tononi, Luigi Abete, Edoardo Garrone, Carlo Robiglio e Francesca Di Girolamo.

mercoledì 14 dicembre 2016

Vincenzo De Luca indagato per istigazione al voto di scambio. Pm sente il portavoce sul caso fax. - Vincenzo Iurillo



Poi saranno ascoltati anche altri responsabili della campagna elettorale. "Quando hai la coscienza tranquilla si va avanti oppure qui moriamo di avvisi di garanzia mentre i cittadini non hanno neanche i servizi essenziali" commenta il governatore.

L’accusa: istigazione al voto di scambio. Un solo iscritto nel registro degli indagati: Vincenzo De LucaPromettere fritture di pesce per far votare Sì al referendum sulle riforme potrebbe essere un reato. Chiuso il fascicolo inizialmente aperto a modello 45, che consente solo accertamenti generici su fatti non costituenti reato, la Procura di Napoli ne ha aperto un altro a modello 21, con una ipotesi di reato e un presunto responsabile, il governatore Pd della Campania. Il modello 21 consente agli inquirenti di ascoltare persone, fare ulteriori acquisizioni documentali, disporre atti di indagine altrimenti impossibili.
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La decisione di procedere con un passo più spedito è nata dall’ascolto e dall’analisi attenta dell’ormai famoso file audio di una riunione tra il governatore Pd della Campania e circa 300 sindaci e amministratori locali svoltosi al Ramada di Napoli il 15 novembre, pubblicato in esclusiva su ilfattoquotidiano.it. L’audio è stato acquisito dalla Finanza il 24 novembre. Si sente De Luca incitare i sindaci a darsi da fare per votare e far votare Sì al referendum costituzionale perché il premier Matteo Renzi “manda fiumi di soldi” in Campania. Si sente De Luca indicare come esempio il sindaco di Agropoli, Franco Alfieri, il campione “delle clientele scientifiche, che bella cosa”, spronandolo a raccogliere almeno 4000 voti offrendo agli elettori “una frittura di pesce” oppure “portali sulle barche” (“vedi tu come Madonna devi fare…”), e sollecitando agli altri primi cittadini a fare come lui. 
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Il pm Stefania Buda ha colto una sfumatura della riunione: De Luca che fa il nome di Paolo Russo, il suo portavoce, come destinatario e collettore dei “fax da inviare” con il numero delle persone incontrate in campagna elettorale e una indicazione più o meno precisa del numero dei voti che si prevedeva di raccogliere per la riforma Boschi. Russo è un giornalista molto stimato tra gli addetti ai lavori, tesse con cura, pazienza e grande professionalità i rapporti, quasi mai semplici, tra un vulcanico governatore e una stampa spesso molto critica verso le sue esternazioni e i suoi guai giudiziari di De Luca. Proviene dalla redazione di Salerno de Il Mattino’, dove ha avuto ruoli apicali. La redazione staccata della città dove De Luca è stato sindaco per più di venti anni.
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Il pm ieri ha sentito Russo come testimone, il primo di quella che si preannuncia una discreta sfilata: il giornalista ha negato che quei fax siano stati mai inviati ed ha ridimensionato – come era ovvio – la portata ‘clientelare’ delle affermazioni di De Luca, proseguendo sulla linea delle “battute goliardiche” tenuta dal presidente sin dal primo giorno. Il giornalista ha fatto i nomi di alcune persone presenti all’incontro, tra i quali quelli di un cronista di una testata locale, per confutare in qualche modo che si trattasse di una riunione a porte chiuse (anche se si sente De Luca dire “non ci sono giornalisti” e riderne). La Procura, dopo aver sentito Russo, intende sentire anche i responsabili del comitato referendario campano per il Sì: Piero De Luca, figlio del presidente, e Francesco Nicodemo, ex consigliere comunale di Napoli e fino a pochi giorni fa capo della comunicazione social del premier Renzi. Nicodemo e De Luca jr verranno ascoltati come testimoni nei prossimi giorni. La Procura vuole fare tutti gli accertamenti necessari a valutare come  fu raccolto il consenso e se ci furono altre riunioni di quel tipo. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbe anche un altro aspetto: il ruolo di commissario in pectore alla sanità campana con cui De Luca si presentò alla platea; il riferimento ai laboratori (“ci sono 400 laboratori, sono tanti voti”) come agli studi professionali sarebbe stato fatto non a caso. Peraltro nei giorni successivi De Luca ha incontrato le associazioni della sanità privata accreditata, i cosiddetti ‘signori delle cliniche’, in circostanze dove il ruolo istituzionale e la campagna elettorale si sono intersecate in un grumo. Il pm intende convocare anche qualche sindaco. E incomincerà da Franco Alfieri.
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Dopo la pubblicazione dell’audio la commissione Antimafia aveva chiesto informazioni alla Procura di Napoli per capire se ci fossero i presupposti perché si muovesse l’organismo parlamentare. “Abbiamo sempre agito così per avviare le nostre inchieste e useremo lo stesso metodo” aveva dichiarato la Bindi contro la quale De Luca si era scagliato dicendo in un’intervista che era “un’infame, da ammazzare“. De Luca ha preferito non commentare direttamente la notizia della nuova indagine. “Quando hai la coscienza tranquilla si va avanti oppure qui moriamo di avvisi di garanzia mentre i cittadini non hanno neanche i servizi essenziali” ha detto all’inaugurazione di tre servizi operativi nell’Ospedale del Mare. De Luca. Tuttavia riferendosi a Verdoliva, commissario per l’ultimazione della struttura, ha detto che è necessario “avere dirigenti che non hanno paura di mettere una firma, e che mettono in conto di ricevere un avviso di garanzia”.
“Credo che sia un atto dovuto che si accerti quanto accaduto in alcune giornate della campagna referendaria” commenta il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. “Mi sembra corretto che ci siano delle verifiche giudiziarie perché quello che abbiamo ascoltato e visto in questa campagna elettorale è andato molto oltre la dialettica politica”. De Magistris, nel sottolineare che non gli competono ”valutazioni su fatti giuridici”, ha rimarcato la sua posizione “distante dal punto di vista politico dal metodo, dal contenuto, dalla forma e dai toni con cui alcuni hanno cercato di orientare il voto verso il Sì in questa campagna referendaria”. Secondo l’ex pm il 4 dicembre “la gente ha guardato molto più lontano e non sono bastati gli appelli a fritture di pesce per condizionare un voto che è stato inequivocabile in favore del No e che ha dato una bella batosta all’accoppiata Renzi – De Luca”.

martedì 13 dicembre 2016

Onde gravitazionali, una strana eco fa traballare la Relatività.

I ricercatori hanno analizzato i dati di Ligo che hanno portato alla scoperta delle onde gravitazionali e che erano stati generati dalla collisione tra due buchi neri (fonte: Maxwell Hamilton)
I ricercatori hanno analizzato i dati di Ligo che hanno portato alla scoperta delle onde gravitazionali e che erano stati generati dalla collisione tra due buchi neri (fonte: Maxwell Hamilton)


Piccole anomalie captate dallo strumento Ligo


Una strana 'eco' nelle onde gravitazionali potrebbe mettere in crisi la teoria della relatività: l'osservazione delle 'vibrazioni' dello spazio tempo, una delle più attese conferme della teoria di Einstein, potrebbe trasformarsi in un boomerang. E' quanto sostiene lo studio pubblicato sul sito ArXiv da Jahed Abedi, del Politecnico Sharif di Teheran: i ricercatori avrebbero rilevato la traccia di alcune anomalie nel segnale captato dallo strumento americano Ligo, lo stesso che ha portato a scoprire le onde gravitazionali. 

Traballa la Relatività?
I ricercatori hanno analizzato gli stessi dati di Ligo che hanno portato alla scoperta delle onde gravitazionali e che erano stati generati dalla collisione tra due buchi neri. E' emerso così che i dati in arrivo da Ligo indicherebbero che l'interno dei due buchi neri sarebbe diverso da come lo aveva descritto Einstein. Quella regione sarebbe cioè governata dalle leggi proprie della meccanica quantistica e le misteriose eco percepite insieme ai segnali delle onde gravitazionali sarebbero appunto delle particolari firme dovute a effetti quantistici. "E' sicuramente uno studio interessante, ma i dati sono ancora troppo pochi per giungere a delle conclusioni: sarà necessario osservare ancora molti eventi di questo tipo per ridurre le tante incertezze", ha osservato Gianluca Gemme, coordinatore nazionale della collaborazione europea Virgo per l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). "I buchi neri sono un po' il territorio di confine tra il mondo della teoria della relatività e quello della meccanica quantistica, due teorie che non vanno d'accordo tra loro", ha aggiunto. "Non sappiamo - ha detto ancora - che cosa ci sia dentro i confini di un buco nero": al momento, ha detto ancora "questo è un territorio ignoto", che "forse può essere spiegato solo dalla meccanica quantistica".


http://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/spazioastro/2016/12/12/onde-gravitazionali-una-strana-eco-fa-traballare-la-teoria-della-relativita-_e8f35596-0a1f-4846-8eba-1f03f71a9d78.html

La cabala della politica. - Michele Ainis

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C'È UN folletto, c'è un diavolo burlone dietro questa crisi di governo. Le prove? Basta mettere in sequenza i fatti. O i numeri, che si ripetono come in una giostra. Dal 12.4 (voto finale della Camera sulla riforma costituzionale) al 4.12 (voto popolare al referendum) fino al 24.1 (voto della Consulta sull'Italicum). Insomma: 1, 2, 4. I primi tre numeri, ma senza il tre.
E SENZA l'ausilio di Minerva, dea della ragione. Anzi: con una serie di distorsioni logiche, se non di veri e propri paradossi. Sono almeno sette, come i peccati capitali.

Primo: le dimissioni. 

Renzi le avrebbe rassegnate su due piedi, subito dopo il ko del referendum; Mattarella gli ha chiesto d'aspettare l'approvazione della legge di bilancio. Sicché quest'ultima, a sua volta, è stata timbrata dal Senato su due piedi, o meglio nello spazio di due giorni. Dimostrando così che il bicameralismo paritario non è affatto un intralcio, che il Senato non è affatto un freno. Dipende dal pilota, non dal motore. E il pilota, in questo caso, è come se si fosse dimesso per due volte: da palazzo Chigi e dalla sua riforma.

Secondo: la fiducia. 

Quella posta dall'esecutivo sulla legge di bilancio, che il 9 dicembre ha ottenuto l'assenso di 173 senatori. Ora, la "questione di fiducia " è un po' un ricatto verso i parlamentari della maggioranza: o votate quel tal provvedimento - dice il governo - oppure mi dimetto. Invece stavolta la fiducia serviva per accelerare le dimissioni, non per scongiurarle. Più che una minaccia, recava una promessa. Sicché i senatori si sono trovati nella singolare condizione d'approvare una fiducia per esprimere sfiducia.

Terzo: le consultazioni al Quirinale. 

Dove hanno sfilato 23 delegazioni, un record. Eppure questo Parlamento è figlio del Porcellum, il supermaggioritario bocciato poi dalla Consulta. Morale della favola: nessun maggioritario frappone un argine alla disgregazione, quando gli eletti disfano gruppi e partiti in Parlamento (263 cambi di casacca nella legislatura in corso, altro record). Bisognerebbe correggere il divieto di mandato imperativo, come propongono all'unisono Grillo, Renzi, Berlusconi; ma guarda caso, questa è l'unica riforma che non ci hanno sottoposto.
Quarto: la legge elettorale. Cambierà, ma come? Difficile inventare l'ennesimo modello: il tempo è poco, gli ingegneri sono esausti. Non resta che rivolgersi al mercatino dell'usato, dove si trovano due sistemi bell'e pronti: il proporzionale della prima Repubblica; il Mattarellum con cui ha esordito la seconda. Il nostro prossimo passo sarà il passo del gambero.

Quinto: la Consulta. 

È un giocatore di riserva, ma può segnare il gol che decide la partita. Succederà se le forze politiche non riusciranno a licenziare la riforma dell'Italicum, come nel 2013 non riuscirono a mettersi d'accordo sul superamento del Porcellum. A quel punto intervennero i giudici costituzionali (sentenza n. 1 del 2014); e nacque il Consultellum, tutt'ora vigente nei soli riguardi del Senato. Dopotutto, si tratta semplicemente di replicare l'esperienza. Ma se le leggi elettorali le scrive la Consulta, significa che il Parlamento non ci serve, dunque non ci servono elezioni, dunque non ci servono leggi elettorali. Più che una sentenza, un rompicapo.

Sesto: la legislatura. 

Subito al voto, chiede l'opposizione di destra e di sinistra. Anche con l'Italicum, aggiungono i più spericolati. Ballottaggio alla Camera, proporzionale al Senato: che sarà mai? Sarà un sistema schizofrenico, con esiti opposti nelle due assemblee legislative. E sarà un Carnevale della democrazia, con quel ballottaggio alla Camera dove non si vince nulla, perché le poltrone di governo si vincono in Senato. Urge un corso di lezioni sulle elezioni.

Settimo: il nuovo esecutivo. 

Nuovo? Rimane inalterata la formula politica (il centro del Pd alleato coi centristi) nonché la maggioranza dei ministri. A occhio e croce, parrebbe casomai un rimpasto, per usare un'etichetta dei bei tempi andati. Ovvero la sostituzione di qualche giocatore nella squadra di governo, ma senza porre in discussione il rapporto fiduciario, senza aprire una crisi formale. E se la sostituzione tocca al presidente del Consiglio? Anche in questo caso, non mancano precedenti illustri. Febbraio 1849: Gioberti si trovò costretto a fare le valigie, mentre i suoi ministri rimasero tutti al proprio posto, sorretti da unanime consenso. In quell'occasione, insomma, fu rimpastato il solo presidente del Consiglio. Ecco perciò svelato il senso di tutti questi bizzarri avvenimenti: erano l'antipasto del rimpasto.

http://www.repubblica.it/politica/2016/12/13/news/la_cabala_della_politica-154024805/