venerdì 21 settembre 2018

"Al lavoro nel giardino del capo" Responsabile e operai indagati. - Riccardo Lo Verso

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Villa Trabia

Peculato e abuso di ufficio sono le ipotesi contestate ai dipendenti comunali. Indagine della Mobile.

PALERMO - Gli operai comunali avrebbero fatto la manutenzione e abbattuto un albero pericolante nel giardino di casa del loro "capo".

Sotto inchiesta sono finiti in quattro: Rosalia Collura, responsabile del servizio “Ville e giardini storici” del Comune di Palermo e i giardinieri Salvatore Paternostro, Francesco Notarbartolo e Massimiliano Ingrassia. Hanno ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini di cui si è occupata la sezione reati contro la pubblica amministrazione della Squadra mobile.

La dirigente è accusata di abuso di ufficio e di peculato in concorso con i giardinieri. Collura, "abusando della propria posizione", avrebbe sfruttato "indebitamente risorse pubbliche in assenza della preventiva e necessaria autorizzazione e del nullaosta dell'ufficio comunale".  Si sarebbe avvalsa "della prestazione lavorativa dei dipendenti comunali (sottoposti al suo coordinamento, ndr) procurandosi in tal modo un ingiusto vantaggio patrimoniale ed arrecando un danno alla pubblica amministrazione”.

Il fattaccio è avvenuto il 17 agosto 2017, quando i giardinieri addetti esclusivamente alla cura del verde di Villa Trabia, si sarebbero spostati nella residenza privata della dirigente a Mondello. L'ipotesi di peculato, secondo il procuratore aggiunto Sergio Demontis e il sostituto Claudia Ferrari, deriverebbe dal fatto che i tre giardinieri raggiunsero casa Collura con un camioncino, modello Fiat 35, del Comune portandosi dietro anche gli attrezzi con cui svolgono le loro mansioni di dipendenti pubblici.

Gli indagati ora possono presentare memorie difensive e chiedere di essere interrogati per contrastare le accuse.

https://livesicilia.it/2018/09/20/comune-inchiesta-palermo-dirigente_997180/

Pd, indagato Francesco Bonifazi con l'accusa di finanziamento illecito in concorso con Luca Parnasi.

Pd, indagato Francesco Bonifazi con l'accusa di finanziamento illecito in concorso con Luca Parnasi

Il Partito Democratico è sotto inchiesta. A finire nel mirino della magistratura è il tesoriere del partito, Francesco Bonifazi. L'accusa è grave: finanziamento illecito in concorso con l'imprenditore Luca Parnasi, arrestato lo scorso giugno per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. I due avrebbero usato anche la fondazione Eyu (che si occupa di organizzare iniziative ed eventi che possano favorire l'ascolto e la partecipazione attiva) come canale per far arrivare al Pd soldi di dubbia provenienza. Per ora la cifra contestata è di 150mila euro, ma le indagini stanno lavorando per capire se ci sono state altre donazioni. A confermare le ipotesi della pm Barbara Zuin, e del nucleo investigativo dei Carabinieri guidato da Lorenzo D'Aloia, è stato lo stesso Parnasi, che si è lasciato andare durante un interrogatorio. Ma non solo, perché tra l'imprenditore e il tesoriere ci sarebbero stati diversi contatti e un incontro nella sede del Pd a Sant'Andrea delle Fratte, poco prima delle elezioni elettorali.
Il tutto è stato registrato sul cellulare dello stesso Parnasi, a cui era stata affidata la realizzazione dello stadio di Tor di Valle. Peccato però che la riunione si sia tenuta nello studio del parlamentare e quindi non può essere utilizzata, anzi dovrà addirittura essere distrutta. L'esponente politico ha sempre negato che la fondazione Eyu sia stata un tramite per far arrivare pagamenti al Pd, anche solo per la sponsorizzazione del partito. Bonifazi, che non ha negato di conoscere Parnasi, ha però ridimensionato il valore del loro rapporto, ammettendo di averlo incontrato giusto qualche volta: "C'è chi vuole confondere le mele con le pere sostenendo, per esempio, che la fondazione Eyu sia stata utilizzata come scatola vuota per finanziare il partito. Mi amareggia veder coinvolta in una vicenda poco commendevole una fondazione che è invece una scatola piena, anzi pienissima".

Bonifazi, presidente della fondazione Eyu, avrebbe ricevuto un totale di 250milaeuro in due tranche. Gli ultimi 100mila ricevuti però sarebbero giustificati come fattura per uno studio sul rapporto tra la casa e i cittadini. A gestire i pagamenti, il tesoriere della fondazione, Domenico Petrolo, che a ridosso delle ultime elezioni, si è fatto particolarmente insistente con i dipendenti del gruppo Parsitalia, società di costruzioni, proprio della famiglia Parnasi.

"Il governo Renzi promise a Ibm i dati sanitari di tutti gli italiani": ecco i contenuti dell'accordo segreto con la multinazionale. - Antonella Loi

Renzi al Watson Health di Boston firma l'accordo
Renzi al Watson Health di Boston firma l'accordo con Ibm

16 febbraio 2017

La multinazionale Usa in cambio investirebbe 150 milioni di dollari e 400 posti di lavoro nelle aree ex Expo. Tutti i dubbi dell'operazione.


"Siamo orgogliosi del nostro grande passato ma l’unico modo per salvarlo è creare una visione del futuro", proclamava Matteo Renzi nel corso del suo viaggio statunitense del marzo scorso. Quello che secondo l'ex premier era un "grande messaggio" da parte di Ibm consisteva nella promessa di insediare un centro di elaborazione dati europeo in campo sanitario, nelle disgraziate aree di Rho (Milano) che nel 2015 ospitarono Expo. Proprio lì è in programma la realizzazione dello Human Technopole, affidato all’Istituto italiano di tecnologia e ad altri centri d’eccellenza italiani. A latere potrebbe sorgere un progetto ambizioso che comprende - almeno nelle intenzioni - un investimento di 150 milioni di dollari e "l'assunzione" di 400 giovani. Ma, come spesso accade, le cose sono un po' più complesse di come appaiono. 

L'accordo "confidenziale" con Ibm

Osservando un po' meglio i termini dell'accordo sottoscritto a Boston da Renzi e Watson Healt - un sistema di "cognitive computing" fondato da Ibm -, si scopre infatti che la verità è ben più complessa. Secondo quanto scrive Il fatto quotidiano dietro l'incrocio di autografi adeguatamente documentato dai media ci sarebbe un "accordo confidenziale" - o sarebbe meglio dire "segreto"? -, per il quale lo Stato italiano si impegna a cedere i dati sanitari dell'intera Lombardia, la regione più ricca d'Italia e, con i suoi quasi 10 milioni di abitanti, la più popolosa. Di cosa si tratta?
I dati sono contenuti nella cosiddetta Protected Health Information (Informazioni personali sanitarie protette) che abbraccia tutto quanto concerne le vicende sanitarie del cittadino: dall'assistenza sanitaria alle "cartelle cliniche personali" fino alle "informazioni fiscali nominative o anonimizzate". L'accordo segreto prevede la cessione alla multinazionale americana "i diritti all'uso per la memorizzazione ed elaborazoine di tali dati a fini progettuali, nonché per l'utilizzo dei dati anonimizzati anche per finalità ulteriori a quelle progettuali, nonché per l'utilizzo dei dati anonimizzati anche per finalità ulteriori rispetto a quelle progettuali". Tutti elementi saldamente nelle mani delle amministrazioni pubbliche che li hanno raccolti. 

Materia per il Garante.

La domanda che rimane ancora inevasa (il Garante della privacy contattato da tiscali.it per ora non risponde ndr) è se il governo sia titolato a cedere attraverso un'accordo con una società privata il database dei pazienti italiani. E se la stessa Regione Lombardia, competente per materia ma che ancora non si è espressa, possa privarsi senza ostacoli di questo patrimonio. Tanto più che passaggio regionale, nel disegno renziano di allora, immaginiamo, sarebbe potuto essere più semplice, vista la riforma costituzionale "accentratrice" voluta dall'ex premier ma bocciata al referendum. Il tutto per di più messo nero su bianco nella massima segretezza, a insaputa dei diretti interessati.

I dati di tutti gli italiani nel mirino di Ibm.

Nel mirino di Ibm, secondo quanto risulta, non ci sarebbero solo i lombardi ma anche gli altri abitanti della Penisola Isole comprese: i "segreti" di 61 milioni di individui. Nel documento in possesso del giornale di Travaglio è scritto che l'obiettivo sarebbe proprio questo. Ibm, infatti, "ritiene cruciale avere accesso a dati dei pazienti e farmacologici, ai dati del registro tumori, ai dati genomici, ai dati delle cure, dati regionali o Agenas, dati Aifa sui farmaci, sugli studi clinici, dati di iscrizione e demografici, diagnosi mediche storiche, rimborsi e costi di utilizzo, condizioni e procedure mediche, prescrizioni ambulatoriali, trattamenti farmacologici con relativi costi, visite di pronto soccorso schede di dimissioni ospedaliere (sdo), informazioni sugli appuntamenti, orari e presenze e altri dati sanitari". Tutto lo scibile sanitario insomma.
Una mole incredibile di informazioni che Ibm potrà elaborare e trattare "in forma anonima e identificata per specifici ambiti progettuali" ma anche per finalità che esulano dalle attività primarie. In altre parole tutto ciò che verrà prodotto potrà essere sottoposto a un "utilizzo secondario". Quindi anche venduto ad altre società e, niente lo vieta, a compagnie di assicurazione come noto piuttosto fameliche di ogni informazione personale legata alla salute. 

Il "bluff" dei posti di lavoro.

Ancora una volta insomma lo Stato cede parti del suo patrimonio più intimo e prezioso, com'è quello derivante dalla salute dei suoi cittadini, a una multinazionale privata in cambio della promessa di una manciata di posti di lavoro. Attività che, viene logico pensare, lo Stato potrebbe svolgere da sé attraverso i suoi centri di ricerca. Tanto più che già all'epoca della stipula dell'accordo fra Renzi e l'Ibm, all'esultanza dell'ex premier Renzi per l'accordo portato a casa, i sindacati saltarono sul piede di guerra perché il colosso statunitense stava mandando a casa i suoi dipendenti italiani, francesi e tedeschi. Proprio nei giorni della firma, la Fiom in una nota scriveva che "Ibm in Italia sta licenziando 300 lavoratori, rifiutando di confrontarsi – in sede ministeriale – con il sindacato sul piano industriale e occupazionale, nonostante le continue ristrutturazioni che in questi anni hanno colpito il nostro paese". Era solo un anno fa.
Ecco il “Memorandum of understanding” firmato il il 31 marzo 2017:
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Ok a maggioranza da cda Rai a Foa presidente.

Ora la scelta va confermata dalla commissione di vigilanza a maggioranza di due terzi.
Il cda della Rai ha dato l'ok a maggioranza alla nomina di Marcello Foa a presidente della tv pubblica. A quanto si apprende, Foa ha ottenuto quattro voti favorevoli, quelli dell'ad Fabrizio Salini e dei consiglieri Beatrice Coletti (eletta in quota M5S), Igor De Biasio (Lega), Gianpaolo Rossi (Fdi). Rita Borioni (eletta in quota Pd) avrebbe votato contro, mentre Riccardo Laganà, il consigliere eletto dai dipendenti della tv pubblica, si sarebbe astenuto. Lo stesso Foa non avrebbe partecipato alla votazione. Si è replicato così lo stesso schema della votazione avvenuta il 31 luglio scorso. Allora la nomina di Foa non venne però ratificata dalla commissione di Vigilanza, dove il 1 agosto non ottenne la necessaria maggioranza di due terzi (27 voti su 40 componenti).
A breve sul tavolo del consiglio arriveranno anche le prime nomine della nuova gestione. In pole position per il Tg1 c'è sempre Gennaro Sangiuliano, sostenuto dal centrodestra, a meno che la spunti Alberto Matano, gradito a M5S, che potrebbe essere dirottato al Tg2. Al Tg3 si attende la conferma di Luca Mazzà (oltre che del direttore di rete Stefano Coletta), mentre alla radiofonia si parla di Paolo Corsini. Per la TGR sono in pole, sponsorizzati dalla Lega, Alessandro Casarin o Luciano Ghelfi, in lizza anche per il Tg2 qualora Matano andasse al Tg1. Per lo sport resta favorito Jacopo Volpi.
La consigliera Rita Borioni, che ha votato contro la nomina di Foa nella riunione, rende noto di aver presentato "all'inizio della seduta odierna del cda, formale diffida a procedere all'elezione di Marcello Foa, visti i chiarissimi profili di illegittimità della stessa. Nonostante ciò il cda ha deciso di procedere ugualmente. A questo punto mi riservo qualsiasi azione a tutela dell'azienda stessa. La Rai non dovrebbe forzare regole e procedure consolidate per sottostare ai diktat di alcune fazioni politiche". 
"Io non temo niente, penso che sia una persona che insieme ad altre potrà fare tanto per il servizio pubblico". Così il vicepremier Matteo Salvini ha risposto a chi gli chiedeva se temesse un nuovo no della commissione di Vigilanza sulla nomina di Marcello Foa a presidente della Rai. "Sono contento" della scelta del cda, ha detto, "e non vedo l'ora che tutti lavorino al 100%. Presentiamo persone di spessore, non amici degli amici. La Rai deve tornare a correre".

giovedì 20 settembre 2018

Donatori in rivolta contro l’Unicef. “Chiarite sui Renzi o basta soldi”. - Giacomo Amadori

L'immagine può contenere: 3 persone, persone che sorridono
14/08/2018 – Dopo gli sviluppi delle indagini sul cognato dell’ex premier e sui suoi fratelli, i sostenitori inondano l’ente di messaggi inferociti: «Vogliamo subito spiegazioni». La denuncia spetta alla casa madre di New York . Il caso dei fondi delle organizzazioni umanitarie finiti, secondo la Procura di Firenze, in modo indebito sui conti di Alessandro Conticini e in parte riciclati anche dal fratello Andrea Conticini, cognato di Matteo Renzi, sta diventando un affaire internazionale sulla direttrice Firenze, Roma, Ginevra, New York. E i donatori si stanno rivoltando sui social.
Stiamo parlando dei 10milioni di dollari di donazioni per i bambini dell’Africa che dal 2008 al 2016 l’Unicef, la fondazione Pulitzer (attraverso Operation Usa) e altre organizzazioni misero a disposizione di tre società di Alessandro Conticini (in particolare della Play therapy Africa limited).
Nel luglio del 2016 alcuni giornali rivelarono l’iscrizione sul registro degli indagati per appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio dei fratelli Alessandro, Luca (delegato insieme con il padre a operare sui conti) e Andrea Conticini.
La notizia uscì in modo semi clandestino e i principali quotidiani nemmeno la ripresero. Il motivo è presto detto: Matteo Renzi era presidente del Consiglio. Nel decreto di perquisizione non era specificata l’entità del presunto maltolto e i media parlarono genericamente di «qualche centinaio di migliaia di euro», Le case dei Conticini vennero perquisite sia a Rignano sull’Arno, dove vive Andrea con Matilde Renzi, sia a Castenaso, dove risiedevano gli altri due fratelli.
L’inchiesta venne innescata dalla Cassa di risparmio di Rimini che aveva segnalato operazioni sospette alla Banca d’Italia (gli altri due istituti utilizzati per le presunte operazioni illecite erano alle Seychelles e a Capo Verde). I magistrati cercarono subito di mettersi in contatto con le organizzazioni umanitarie e, per esempio, i referenti italiani dell’Unicef informarono la Procura che, essendo il fondo per l’infanzia un’agenzia dell’Onu, occorreva inoltrare una richiesta ufficiale attraverso la rappresentanza italiana delle Nazioni unite.
C’è stato il contatto e l’Unicef ha collaborato con gli inquirenti?
La notizia è ancora coperta dal segreto, ma due anni dopo i pm Luca Turco e Giuseppina Mione hanno spedito un invito a presentarsi ai tre fratelli per interrogarli. indicando questa volta cifre molto precise: gli indagati si sarebbero appropriati illecitamente di 6,6milioni di dollari di offerte destinandoli, secondo l’accusa, a investimenti immobiliari e societari, compreso l’acquisto di quote della Eventi 6 della famiglia Renzi (per questo il cognato Andrea è sotto inchiesta per riciclaggio). Solo 2,8 milioni sarebbero stati devoluti per scopi umanitari.
Un altro indizio che lascia immaginare che un abboccamento ci sia stato è rappresentato dal fatto che nei giorni scorsi gli inquirenti hanno inviato una rogatoria ufficiale per chiedere all’Unicef e alla Fondazione Pulitzer di presentare denuncia: infatti dall’aprile 2018 l’appropriazione indebita può essere perseguita solo su querela di parte.
Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia, spiega: «Il nostro ufficio legale internazionale si sta relazionando con la magistratura italiana e ha comunque tre mesi di tempo per presentare denuncia e rispondere ai magistrati».
Ma perché dopo due anni il fondo per l’infanzia dell’Onu non ha ancora ritenuto di comunicare ai donatori la propria posizione ufficiale su questo caso?
«Io ho fatto delle richieste all’ufficio di Ginevra che le ha girate a quello di New York».
Facciamo notare a Rozera che la presa di posizione dell’Unicel è fondamentale, altrimenti potrebbe sembrare che l’agenzia sia complice o che sia tutto in regola. Il dg ha ben chiaro il problema: «Sui social tutti vogliono avere risposte entro la giornata, ma ci sono delle procedure da rispettare. La gente scrive: “Voi dell’Unicef dovete dare spiegazioni se no noi non vi faremo più le donazioni”. Ma noi non c’entriamo niente e per questo abbiamo interesse a mettere subito dei paletti. Spero che presto arriverà una posizione ufficiale dell’Unicef New York. Posso assicurarle che da noi i controlli sono serrati, abbiamo bisogno della fiducia dei donatori e non ci possiamo permettere danni d’immagine».
Quindi vi costituirete parte civile contro i Conticini?
«Se la magistratura ci invita a fare querela evidentemente è convinta di avere qualcosa in mano e, se le accuse saranno accertate, l’Unicef agirà per riavere indietro i propri soldi. Sa quanti vaccini si possono comprare con tutto quel denaro?».
L’avvocato dei tre fratelli, Federico Bagattini, annuncia: «Entro settembre-ottobre noi presenteremo una memoria e ci faremo interrogare per dare tutte le spiegazioni del caso. Ci eravamo offerti di farlo a novembre-dicembre ma ci siamo sentiti presi in giro. Addirittura uno dei miei assistiti comprò un costoso biglietto aereo e all’ultimo il pubblico ministero ha cambiato programma e ha fatto saltare tutto. Probabilmente non gli andava bene sentirli in quel momento. Però i tempi della difesa li detta la difesa».
Dunque, dopo due anni di indagini, gli inquirenti non hanno ancora una versione dei Conticini in mano?
«Sostanzialmente no», ammette Bagattini. Il quale, prima di chiudere la telefonata, lancia un avvertimento: «State attenti a non esagerare con i titoli, perché si rischia la querela. Oggi un quotidiano ha scritto: “Sei milioni di euro nei conti dei Renzi”. È ipotizzabile la diffamazione». E Matteo Renzi, su Facebook, ha rincarato la dose: «Un’indagine aperta da ben DUE (maiuscolo, ndr) anni su un fratello del marito di una mia sorella per presunte irregolarità (presunte), nel suo lavoro di dirigente della cooperazione. Prove? Dopo due anni di indagini non risultano, le vedremo al processo. Ma tanto basta solo evocare la vicenda per andare sui giornali oggi – esattamente come due anni fa – con un’altra condanna: quella dei titoli ad effetto. E con i social che sputano sentenze. Vedremo che cosa diranno le sentenze. Anche quelle per risarcimento danni perché essere buoni va bene, ma il mutuo di casa lo pagheremo con i risarcimenti». Il riferimento è al milione di euro che ha preso in prestito per il villone di via Tacca a Firenze. Pare di capire che l’ex premier sia alla ricerca di nuove entrate. 
LaVerità 11 agosto 2018

Giuseppe Conte: "La pace fiscale si farà: è imprescindibile. E non è un condono". -



"La pace fiscale si farà: è imprescindibile", "non è un condono", "così come, con gradualità, attueremo flat tax, reddito di cittadinanza e riforma della legge Fornero". Lo dice in una intervista a tutto campo in apertura di prima pagina a La Verità il premier Giuseppe Conte, che sul crollo di Genova fa sapere che si chiederà ad Autostrade di anticipare i soldi, "e poi la ricostruzione avverrà a prescindere dal loro intervento". E sulle tensioni nella maggioranza, in vista della manovra, evidenzia di "non aver mai visto vacillare" il ministro Tria.
Alla domanda se il reddito di cittadinanza comincerà dalle pensioni, il premier risponde: "Al momento non mi sento di fare anticipazioni. Mi limito a osservare che l'impatto di questa riforma sarà subito significativo", "perché il reddito di cittadinanza funzioni davvero - aggiunge - bisogna prima riformare i centri per l'impiego". Sulla pace fiscale spiega: "Noi proponiamo un meccanismo totalmente diverso dove l'azzeramento delle pendenze è funzionale per partire con un nuovo rapporto con il fisco".
Conte parla anche del ministro Tria: "Non ha minacciato le dimissioni. Se lo avesse fatto lo avrei saputo, e non mi risulta". Sul rapporto con i vicepremier dice: "Sono molto presenti perchè è una condizione che ho posto io". "Io penso - spiega - che Lega e Cinque Stelle offrano una rappresentazione e un percorso istituzionale alla rabbia e all'insoddisfazione popolare. Io stesso ho accettato l'incarico perchè sono convinto che serva una soluzione alla frattura fra elite e popolo. Perciò dico che sono orgogliosamente populista".
"Questo governo - sottolinea - ha condiviso in modo corale la strategia sull'immigrazione. E ci possiamo permettere di dire no all'accoglienza indiscriminata perchè nel nostro progetto c'è attenzione alla tutela dei diritti fondamentali". "Non siamo razzisti. Dobbiamo sottrarci a questo ricatto che nasce da una soggezione culturale". Sul tema, Conte sferza il presidente francese Macron: "Diciamo che la sua posizione non è in linea con le conclusioni da lui stesso approvate al Consiglio europeo".
Sul crollo del ponte di Genova Conte conferma che la procedura per la revoca delle concessioni autostradali è avviata, "non si interrompe con il prossimo decreto", "sarebbe stato gravemente irresponsabile, politicamente e giuridicamente, se non avessimo avviato la procedura di contestazione".

Andrea Scanzi: “Orfini la dice giusta, peccato sia Orfini”. - Andrea Scanzi




Sabato scorso è accaduto un prodigio inaudito: Matteo Orfini è parso dire qualcosa di sensato. Addirittura condivisibile. L’evento, di cui certo si occuperanno i libri di storia, ha stupito milioni di persone in Italia e ancor più nel mondo, perché Orfini è da sempre idolo delle folle e delle masse, che varca con agio i confini nazionali, europei e financo mondiali. A lui il Pianeta Terra sta stretto. Orfini è uomo dalle mille doti. Vive da sempre dentro il partito, ma non si è mai accorto di Mafia Capitale. Amava definirsi “giovane turco”, senza mai esser stato né turco né giovane. Più dalemiano di D’Alema, di cui tuttora scimmiotta la timbrica sabinaguzzantesca e quel gusto astratto per il politichese, ne è da anni uno dei più massimi detrattori, a conferma di un’altra sua cifra distintiva: la coerenza. Una coerenza che gli ha permesso di trasformarsi in turborenziano dopo esser stato fermamente (va be’) antirenziano, garantendosi con ciò lo scranno di presidente del Pd. Un ruolo che Orfini ha interpretato da par suo: fedelissimo a una linea che non c’era e non c’è, il virgulto romano 44enne ha saputo contribuire fattivamente alla distruzione del partito. Tale apocalisse, lenta e inesorabile, lo ha visto in prima linea come fiancheggiatore zelante e privo di guizzi: nelle direzioni rideva alle battute del Tondo di Rignano ridimensionando il dissenso allo stesso, nelle interviste dava la colpa ai 5 Stelle o a Minniti (l’unico nel Pd ad averci cavato qualcosa), nei talkshow induceva tutti alla catalessi. Nei rari ritagli di tempo, Orfini soleva rilassarsi dando consigli su Twitter agli allenatori del Milan (poi tutti esonerati), oppure interpretando lo spot di un noto marchio di patatine, o magari chiedendo a Carlo Verdone la parte di Fabris nel remake di Compagni di scuola.
Dopo un periodo di parziale inabissamento, Orfini è tornato sabato a palesarsi. E lì ha avuto luogo il Prodigio. Ascoltiamo il Verbo del Profeta, giacché egli ci ha parlato: “Cambiare nome non basta, il partito non funziona. Sciogliamolo”. Inaudito: Orfini ha detto il giusto. Certo che cambiare nome non basta. Certo che il partito non funziona. Certo che il Pd va sciolto. E’ vero, si potrebbe ricordare al nostro nuovo Mahatma che a tali considerazioni c’è arrivato un po’ tardi, ma non è il caso di essere puntigliosi: Orfini è nel giusto, que viva Orfini! Mentre stavo sostituendo il poster di Rosario Dawson sadomaso con quello di Orfini in pigiama cremisi, ho però voluto leggere di nuovo l’intervento-prodigio di Orfini. Ho così scoperto che l’intervento integrale era un po’ diverso: “Cambiare nome non basta, il partito non funziona. Sciogliamolo e rifondiamolo”. Tristezza, dolore, afflizione: Orfini non era più il Profeta, ma era già tornato Orfini. In quel finale “e rifondiamolo” c’è l’ennesima prova di non avere ancora capito nulla. Non è che il Pd non funzioni per un maleficio della storia: non funziona perché è composto – perlomeno nella sua dirigenza nazionale – da gente come Orfini. Una volta sciolto, va sì rifondato: Orfini è però l’ultimo a doversene occupare. Lui deve fare altro: il mimo, l’ufologo, il tronista dalla De Filippi. Quello che vuole. Ma il politico proprio no. Un “nuovo Pd” può avere senso solo se dentro non ci saranno più gli Orfini, gli Andrea Romano, le Boschi e compagnia cantante. Se devono essere gli Orfini a rifondare il Pd, evitatevi la fatica ed evitateci il maquillage: state così sulle palle al mondo reale che gli italiani, anche quelli di sinistra, pur di non votarvi sarebbero disposti ad appoggiare chiunque. Persino Salvini.
(Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2018)