Dal 2018 l’Europa discuterà di come spendere i soldi del periodo 2020-2026. Noi ogni anno mettiamo sul tavolo più o meno 20 miliardi di euro e ne riprendiamo 12. Il saldo netto è dunque negativo. Bene, giusto così. Nessuna piccola polemica provinciale: siamo un grande paese, è giusto aiutare chi è in difficoltà. Si chiama solidarietà. La solidarietà però non si ferma alle questioni economiche.
Se, davanti alla crisi migratoria, i paesi dell'Est – che beneficiano dei contributi nostri e degli altri paesi – non collaborano, non devono poi stupirsi se i criteri di bilancio cambiano. La solidarietà non sta solo nel prendere, ma anche nel dare. In mancanza di un diverso atteggiamento da parte loro sull’immigrazione, dovrà cambiare il nostro atteggiamento sui denari. Qualcuno lo chiama ricatto politico, io lo chiamo principio etico. E, quando tratterà questo punto, il prossimo governo dovrà farsi valere con determinazione e senza incertezze. Su questo punto forse sono un inguaribile romantico ma mi piacerebbe che tutte le forze politiche italiane, nessuna esclusa, per una volta remassero nella stessa direzione.
L’Italia chiede all’Europa di assumere la regola “un euro in cultura, un euro in sicurezza”.
L’Italia chiede all’Europa di rispettare le disposizioni sul surplus commerciale che sono oggi totalmente disattese dalla Germania, creando un danno all’intero continente.
Io ho combattuto contro una visione anti-italiana in Europa. Una visione fatta di pregiudizi più che di giudizi. La visione per la quale un semisconosciuto ministro olandese, per caso presidente dell’Eurogruppo, può dire che i paesi del Sud spendono i soldi per donne e alcol. Una considerazione che, prima ancora di essere sessista e razzista, è stupida. Il presidente della Commissione Barroso ha detto di aver salvato l’Italia in più di una circostanza. Non ho mai apprezzato molto lo stile di Barroso. Quando è stato assunto con superstipendio da Goldman Sachs, mi ha colpito l’attacco durissimo che gli ha rivolto François Hollande. Io ne sono rimasto fuori: più che di Barroso – che ha fatto benissimo ad accettare, dal suo punto di vista – l’errore è stato di Goldman Sachs. È proprio vero che non ci sono più le banche d’affari di una volta.
Non accetto che l’Italia sia trattata come una studentessa indisciplinata da rimettere in riga. È un atteggiamento che fa male all’Europa, che, da speranza politica, diventa guardiana antipatica. E il mio paese non lo merita.
Non sopporto nemmeno il provincialismo italiano, per cui una cosa diviene importante solo se rilanciata da un oscuro terzo portavoce del vicecommissario a Bruxelles. Su questo la nostra stampa si muove in modo provinciale. In Francia nessuno dedica così tanto spazio agli euroburocrati. Un po’ è colpa anche del centrosinistra – diciamo la verità –, che per cacciare Berlusconi ha fatto leva anche sull’Europa, permettendole di entrare in casa nostra. Negli altri paesi non accade così. Ma non è solo un problema legato a Berlusconi. Per anni una parte delle élite di questo paese ha considerato l’Europa come lo strumento per attuare in Italia riforme altrimenti irrealizzabili. Ci sono stati premier che sono andati in Europa come noi andavamo a scuola: con la giustificazione in mano. E poi tornavano a casa dicendo: «Ce lo chiede l’Europa».
Perché erano convinti che facendo così avrebbero “fatto capire” al popolo italiano le cose da fare. Quella stagione ha forse migliorato i conti pubblici ma ha disintegrato l’idea di Europa che i padri fondatori ci avevano consegnato.
Bene, quella stagione l'abbiamo messa in soffitta, spero per sempre. Adesso non è l’Europa che chiede all’Italia di cambiare, ma l’Italia che chiede all’Europa di tornare se stessa. Di riabbracciare quei valori che l’hanno fatta grande. Di recuperare la dimensione della sfida.
Chi ci sta, ci sta. Politica fiscale comune, sicurezza e politica estera unitaria, elezione diretta del governo europeo. Questo serve per fare ripartire di slancio l’Europa. È un orizzonte impegnativo. Ma è il nostro orizzonte. L’Europa deve tornare a scaldare i cuori. Ma per farlo non ci saranno nuove regole, nuovi trattati.
È inutile negarlo: per come stanno le cose nei ventisette paesi, è quasi impossibile scrivere nuove regole che siano universalmente accettate. A questo si somma il fatto che in molti paesi occorrerebbe un referendum di ratifica difficilissimo da vincere: gli ultimi esempi di referendum non sono stati incoraggianti, e noi ne sappiamo qualcosa, ma – pure su quesiti diversificati – dall’Olanda alla Francia fino a Regno Unito e Italia la classe dirigente ha sempre perso le sfide referendarie. L’unica eccezione, peraltro di misura, è la Turchia di Erdogan del 2017, ma è un esempio che fa storia a sé per decine di motivi e che sinceramente è fuori, in tutti i sensi, dalla cultura politica europea.
La nostra proposta, allora, è che per tornare credibile l’Europa torni simbolicamente in tre luoghi fisici: a Ventotene per quel che riguarda gli ideali; a Lisbona per la strategia; a Maastricht per la direzione economica.
A Ventotene perché quell’utopia, lanciata da personaggi che sembravano sconfitti e mandati al confino, ha superato ogni frontiera spaziale e temporale. Ed è viva, più che mai. Non siamo ancora agli Stati Uniti d’Europa, lo sappiamo. E probabilmente non ci arriveremo mai. Ma tornare all’Europa di Ventotene significa non limitarsi a fare delle istituzioni europee un condominio di buone pratiche in cui discutere di aspetti marginali. Significa riportare al centro della discussione la politica e non soltanto la tecnocrazia. E, simbolicamente, noi abbiamo offerto il progetto italiano per la creazione di una scuola europea che ospiti giovani del nostro continente e del Mediterraneo. Un progetto che coinvolga il vecchio carcere dell'Isola di Santo Stefano, diroccato e abbandonato, su cui il governo dei mille giorni ha investito 80 milioni di euro insieme alla Regione Lazio. E che faccia di quest’isola il centro della riflessione ideale e culturale dell’intero Mediterraneo.
L’Europa deve ritornare a Lisbona per ciò che attiene alla strategia e puntare a recuperare quel disegno proposto all’inizio del millennio e mai attuato: volevamo allora fare del nostro continente il luogo più avanzato nei settori della conoscenza e dell’innovazione. Le vicende di questi anni dimostrano che così non è stato. Dalla Silicon Valley al Sudest asiatico, molte altre regioni del mondo sono più competitive di noi in questo settore. Ma qui si gioca il futuro, e non possiamo lasciarlo solo agli altri. E sicuramente vale la pena prendere in considerazione la necessità di uno sforzo maggiore sull’alfabetizzazione digitale. L’Europa dovrebbe a mio giudizio farsi portatrice di una iniziativa coraggiosa che dia a tutti la capacità di essere protagonisti e non solo consumatori passivi del mondo nel quale stiamo entrando. Si tratta di effettuare una gigantesca campagna di alfabetizzazione digitale che, partendo dalle scuole dell’infanzia, introduca il coding tra le materie insegnate in tutte le scuole europee e permetta al nostro continente di cogliere fino in fondo le opportunità offerte dalla quarta rivoluzione industriale.
La società della conoscenza, della ricerca, dell’innovazione segna oggi in modo profondo il futuro anche economico delle nazioni. Le classifiche americane sulla ricchezza vedono sempre di più nelle prime posizioni realtà che hanno scommesso sull’innovazione, e lo stesso Prodotto interno lordo americano è costituito quasi per il 50% da attività nate, sviluppate e cresciute nell’ultimo quarto di secolo. Se a questo si aggiunge – come vedremo nel prossimo capitolo – che una sfida chiave per l’Italia e per l’Europa è quella culturale nel rapporto tra identità e sicurezza, ci rendiamo conto che tornare a Lisbona 2000 significa tornare a fare dell’Europa il luogo dove la globalizzazione può diventare gentile e civile.
Infine, tornare a Maastricht. Per la mia generazione questa cittadina olandese dal nome difficilmente pronunciabile era sinonimo di austerità. Stare dentro i parametri di Maastricht sembrava un’impresa quasi impossibile, al punto che quando l’Italia raggiunse quel traguardo per molti fu festa grande. Oggi Maastricht – paradossalmente – ha cambiato significato. L’avvento scriteriato del Fiscal compact nel 2012 fa del ritorno agli obiettivi di Maastricht (deficit al 3% per avere una crescita intorno al 2%) una sorta di manifesto progressista.
Noi pensiamo che l’Italia debba porre il veto all’introduzione del Fiscal compact nei trattati e stabilire un percorso a lungo termine. Un accordo forte con le istituzioni europee, rinegoziato ogni cinque anni e non ogni cinque mesi. Un accordo in cui l’Italia si impegna a ridurre il rapporto debito/Pil tramite sia una crescita più forte, sia un’operazione sul patrimonio che la Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze hanno già studiato, sebbene debba essere perfezionata; essa potrà essere proposta all’Unione europea solo con un accordo di legislatura e in cambio del via libera al ritorno per almeno cinque anni ai criteri di Maastricht con il deficit al 2,9%.
Ciò permetterà al nostro paese di avere a disposizione una cifra di almeno 30 miliardi di euro per i prossimi cinque anni per ridurre la pressione fiscale e rimodellare le strategie di crescita. La mia proposta è semplice: questo spazio fiscale va utilizzato tutto, e soltanto per la riduzione delle tasse, per continuare l’operazione strutturale iniziata nei mille giorni. A chi legittimamente domanda: «E perché, se ne sei così convinto, non lo hai fatto prima?» rispondo semplicemente: «Perché non ce lo potevamo permettere». Quando siamo arrivati, la parola d’ordine per l’Italia era reputazione.
Mostrarci capaci di fare le riforme. Il Jobs Act, il decreto sulle popolari, l’abbassamento delle tasse, la spending review, l’Expo, il rinnovamento anche generazionale hanno mostrato che l’Italia è in grado di farcela. Ma non basta, adesso. La prossima legislatura, qualunque sia il giorno in cui comincerà, dovrà mettere sul tavolo uno scambio chiaro in Europa: noi abbassiamo il debito, ma la strada maestra per farlo è la crescita. Quindi abbiamo bisogno di abbassare le tasse. Punto.
Questo obiettivo – che porterà il deficit italiano a essere comunque più basso di quello di Francia e Spagna e vedrà un'inversione strutturale della curva debito/Pil – sarà la base della proposta politica del Pd per le prossime elezioni. Ma è soprattutto un obiettivo ampiamente condiviso dai principali soggetti privati che operano sui mercati internazionali e intorno al quale c’è un consenso diffuso: senza una grande scommessa sulla crescita, l’Italia non ripartirà mai.
Per farlo occorre una visione di medio periodo, non limitata al giorno dopo giorno. Quando la prossima legislatura entrerà nel vivo dovremo uscire dallo stillicidio della trattativa mensile con Bruxelles e proporre al mondo finanziario ed economico un piano industriale degno di un paese solido e credibile. Noi siamopronti, anche nei dettagli.
Aspettiamo solo le elezioni, adesso. Perché una sfida così grande ha bisogno di un governo di legislatura per negoziare un accordo duraturo a Bruxelles. Ma aspettiamo soprattutto che l’Europa torni a fare l'Europa. Torni a Ventotene, negli ideali; a Lisbona, nella strategia; a Maastricht, nella crescita. Non è un tour, non è un viaggio: è, più semplicemente, l’ultima possibilità che abbiamo.