martedì 10 settembre 2019

Salario minimo: cos’è, come funziona e perché fa paura alle imprese. - Barbara Massaro (Panorama)



Sostenere le fasce più basse di reddito introducendo l’obbligo del cosiddetto salario minimo, ovvero quella retribuzione oraria base che i datori di lavoro dovrebbero garantire per legge in busta paga.

La proposta targata M5S pende come una spada di Damocle sulla testa delle imprese già dalla passata legislatura e il premier-bis Conte ne ha parlato anche nel suo discorso programmatico alla Camera dei Deputati quando ha annunciato l’ipotesi di una legge sulle relazioni sindacali e una “applicazione erga omnes dei contratti collettivi”.

Cos’è il salario minimo.
Con il concetto di salario minimo si fa riferimento alla più bassa retribuzione o paga oraria, giornaliera o mensile, che un datore di lavoro deve corrispondere ai propri dipendenti.

L’ex Ministro del Lavoro Di Maio qualche mese fa aveva proposto di fissare la quota parte minima in busta paga a 9 euro, e nel testo si parlava di “una definizione certa, uguale per tutti i rapporti di lavoro subordinato, e cogente del trattamento economico che integra la previsione costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente, attraverso l’obbligo che non sia inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative”.

I paradossi del salario minimo.
Quindi in sostanza sarebbe un provvedimento che andrebbe a riguardare coloro che sono vincolati da contratto nazionale di lavoro, solo che già oggi – come ricordava qualche tempo fa la Cgia di Mestre – “Nei principali contratti nazionali di lavoro dell’artigianato, che presentano i livelli retributivi tra i più bassi fra tutti i settori economici presenti nel Paese, le soglie minime orarie lorde complessive sono comunque superiori alla proposta di legge del Movimento 5 Stelle”.

Inoltre alla paga base ogni impresa aggiunge le indennità – il cosiddetto salario differito – e cioè le festività, gli straordinari, la maternità e tutto il resto. Introdurre per legge il cosiddetto salario minimo costerebbe alle pmi imprese almeno 1,5 miliardi l’anno e a subire maggiormente l’aggravio sarebbero proprio le imprese piccole e piccolissime, il settore dell’artigianato e le partite Iva, ovvero quelle aree del mercato del lavoro dove oggi come oggi è ancora possibile trovare impiego.

Un disastro per le imprese.
Se quindi imprese che ora fanno i salti mortali per mantenere i dipendenti dovessero vedersi imposta per legge la paga base oraria questo potrebbe determinare un aumento del numero di licenziamenti e una proporzionale crescita del lavoro in nero.

Questo perché se i 9 euro sono la paga più bassa nei settori più umili in maniera proporzionale dovrebbe crescere il salario minimo anche ai livelli più alti e se così non fosse si assisterebbe al paradosso di lavoratori di livello inferiore pagati di più di colleghi più anziani o con mansioni di maggiore responsabilità.

A livello internazionale, inoltre, la filosofia stessa alla base del salario minimo è stata bocciata da autorevoli organi quali l’Ocse, Confartigianato e Confindustria che ne sottolineano limiti e paradossi.

Coloro cui la paga oraria minima non arriva a 9 euro sono circa 4 milioni di lavoratori ovvero il 21,1% del totale e in tutto per le imprese l’aggravio sui conti si aggirerebbe intorno ai 6,7 miliardi di euro, una bella zappa sui piedi per quelle aziende che vorrebbero creare lavoro.

https://infosannio.wordpress.com/2019/09/10/salario-minimo-cose-come-funziona-e-perche-fa-paura-alle-imprese/
Mi piacerebbe chiedere a chi ha scritto l'articolo se gradirebbe che i suoi articoli le venissero pagati senza un riferimento a documenti che indichino quale dovrebbe essere la giusta remunerazione del suo lavoro. Questa eterna differenziazione di trattamento tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è inaccettabile.c.

La maschera di pietra. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 10 Settembre.

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Il volto pietrificato di Luigi Di Maio, accanto a Giuseppe Conte, la dice lunga su quello che Padellaro chiama il Governo dei Malavoglia. Non ce la fa proprio a sorridere, il capo 5Stelle, nemmeno dopo gli inviti di Grillo. Parliamo di un giovane di 33 anni che ha bruciato tutte le tappe: deputato e vicepresidente della Camera a 27 anni, leader del primo partito a 31, vicepremier e bi-ministro del Lavoro e Sviluppo a 32, ora ministro degli Esteri. Costretto a imparare in fretta mestieri diversi e delicati, deriso come “bibitaro” mai laureato dagli stessi che ora s’indignano (giustamente) per gli attacchi alla Bellanova, ex bracciante con la terza media. Al suo posto, molti sorriderebbero a 32 denti: nessun ragazzo del Sud con quei trascorsi ha mai fatto tanta strada. Perché non sorride? Un anno fa poteva essere premier con una stretta di mano o una telefonata a B.. Invece rifiutò. E Salvini, per conto terzi, gli impose un premier terzo. Così Giggino e Grillo scelsero Conte: un bel jolly, col senno di poi. Un mese fa, dopo l’harakiri salviniano, Di Maio s’è visto offrire Palazzo Chigi sia dal Pd sia da Salvini: il Pd preferiva un leader azzoppato dalle Europee e dal naufragio giallo-verde al più popolare e ingombrante Conte; e il Cazzaro, sfumato il voto, era pronto a tutto pur di liberarsi di Conte e restare al potere.

Di Maio ha respinto entrambe le sirene e si è giocato l’ultima occasione del salto più alto: per non perdere Conte; per ricompattare il M5S, passato dal lutto del 26 maggio al nuovo entusiasmo del Grillo ritrovato; e per non diventare il parafulmine delle tensioni fra e nei partiti della nuova maggioranza. Ma l’anno scorso aveva costruito il Contratto con la Lega sul rapporto personale con Salvini, dopo 7 anni di comune opposizione ai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni (tutti col Pd dentro e la Lega fuori). Perciò è rimasto bruciato dal tradimento dell’8 agosto. Ora un’analoga sintonia con qualcuno del Pd è impossibile: capi e capetti parlano lingue giurassiche; non si sa bene chi comandi; e il programma giallo-rosa è nato troppo vago e frettoloso, tant’è che andrebbe precisato meglio dopo il giro di boa della legge di Bilancio. Non è detto che la partenza fredda e guardinga sia di malaugurio per il Conte-2, visto l’esito degli entusiasmi che accompagnarono il Conte-1. Ma la maschera di Di Maio riassume il vero enigma del nuovo governo: riusciranno i nostri eroi a mescolare e contaminare le proprie diversità, assorbendo le poche virtù dei rispettivi alleati per migliorarsi? Ci accontenteremmo che non si facessero contagiare dai vizi altrui. Fra due litiganti, c’è sempre un terzo che gode. E sappiamo chi è.

Ok del Senato alla fiducia.

Ok del Senato alla fiducia
Foto Adnkronos



Il governo Conte bis ha ottenuto la fiducia. I voti favorevoli sono stati 169, contrari 133 e astenuti 5. Presenti 308, votanti 307.

Tesoro nascosto sulla Luna: scienziati ipotizzano vasti depositi di metalli preziosi in profondità. - Andrea Centini

Credit: Andrea Centini
in foto: Credit: Andrea Centini

Un team di ricerca internazionale composto da scienziati canadesi e americani ha ipotizzato la presenza di vasti depositi di metalli preziosi nel cuore della Luna. Secondo gli studiosi non ci sarebbero evidenze di questo “tesoro” nelle rocce lunari poiché i metalli sarebbero rimasti legati al solfuro di ferro nelle profondità del satellite.

Sotto la superficie della Luna potrebbe celarsi un ricchissimo deposito di metalli preziosi, un vero e proprio tesoro dal quale potremmo attingere nelle future missioni sul suolo lunare. A ipotizzare la presenza dei metalli preziosi è stato un team di ricerca internazionale guidato da uno scienziato dell'Università di Dalhousie, Canada, che ha collaborato con i colleghi del Laboratorio geofisico presso la Carnegie Institution for Science di Washington (Stati Uniti) e del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università Carleton.

Gli scienziati, coordinati dal professor James M. Brenan, docente presso il Dipartimento di Scienze della Terra e dell'Ambiente presso l'ateneo di Halifax, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto alcuni esperimenti che hanno messo a confronto i depositi minerali lunari con quelli terrestri. La ricerca è risultata utile anche per suffragare la teoria più accreditata sulla formazione della Luna, ovvero il cosiddetto “impatto gigante” tra la Terra primordiale e un corpo celeste estraneo, grande circa come Marte e chiamato Theia. Dallo scontro tra i due oggetti, avvenuto 4,5 miliardi di anni fa, sarebbe originata la Luna, motivo per cui la composizione geologica del satellite della Terra risulta molto simile a quella del pianeta. Nonostante ciò, studi del 2006 condotti sulle rocce vulcaniche lunari hanno evidenziato concentrazioni bassissime di metalli preziosi, un dato in contrasto con quello delle rocce terrestri. Che cosa potrebbe essere successo?

Per spiegare questa anomalia, Brenan e colleghi hanno condotto esperimenti per confrontare depositi minerali terrestri e lunari, facendo emergere una elevata concentrazione di solfuro di ferro nel “cuore” della Luna. Secondo gli studiosi i metalli preziosi come il palladio e il platino sarebbero sì presenti sulla Luna, ma legati proprio al solfuro di ferro nelle profondità del satellite. È a causa di questo presunto legame che i metalli preziosi non sarebbero stati portati in superficie dal magma, motivo per cui le rocce vulcaniche lunari presenterebbero solo tracce di tali elementi. Brenan spiega che per avere una conferma sarà necessario analizzare rocce lunari provenienti dagli strati profondi. Poiché gli astronauti presto rimetteranno piede sulla Luna, Brenan ha indicato un luogo dove tali rocce potrebbero essere trovate, ovvero nel bacino del Polo Sud-Aitken, dove si trovano i grandi crateri Schrödinger e Zeeman. Gli impatti degli asteroidi che li hanno creati, infatti, avrebbero portato in superficie rocce provenienti dal cuore della Luna, quelle contententi le prove dei vasti depositi di metalli preziosi ipotizzati dagli scienziati. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica specializzata Nature Geoscience.

https://scienze.fanpage.it/tesoro-nascosto-sulla-luna-scienziati-ipotizzano-vasti-depositi-di-metalli-preziosi-in-profondita/

Spread in picchiata, già risparmiati interessi per 40 miliardi sul debito pubblico italiano. - Giuseppe Timpone

I rendimenti dei titoli di stato italiani in agosto frutterebbero a regime risparmi per circa 40 miliardi di euro all'anno sugli interessi relativi al debito pubblico. E con lo spread in picchiata di questi giorni, il conto per i contribuenti sarebbe ancora più leggero.

I rendimenti dei titoli di stato italiani in agosto frutterebbero a regime risparmi per circa 40 miliardi di euro all'anno sugli interessi relativi al debito pubblico. E con lo spread in picchiata di questi giorni, il conto per i contribuenti sarebbe ancora più leggero.


Il Rendistato di agosto si è chiuso ai livelli più bassi da tre anni a questa parte, vale a dire esitando un rendimento medio ponderato dei titoli di stato sul mercato secondario all’1,003%. Sembrano lontani i dati dell’ottobre scorso, quando il livello medio dei rendimenti italiani viaggiava al 2,84%. Erano le settimane di massima tensione tra governo giallo-verde e Commissione europea sul deficit.
Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata e, soprattutto, proprio sul finire del mese di agosto si è materializzato il bis di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi con l’apertura della crisi di governo da parte della Lega, ma stavolta con il Movimento 5 Stelle ad allearsi con il PD, uno scenario assai gradito dai mercati finanziari.
Ebbene, rendimenti medi all’1% implicherebbero a regime grossi risparmi per gli interessi sul debito pubblico. Lo scorso anno, l’Italia ha speso 63,9 miliardi di euro per servire il debito, pari al 3,6% del pil e al 2,75% dello stock. In altre parole, ai livelli di agosto il costo risulterebbe di 2,75 volte inferiore a quello del 2018. Poiché la vita residua media del nostro debito risulta di poco meno dei 7 anni, servirebbe attendere fino al tardo 2026 per rinnovare l’intero stock e ottenere il massimo dei risparmi.

Risparmi fino a 50 miliardi di euro

Supponiamo che i rendimenti si mantenessero fino ad allora sempre mediamente all’1% e, per facilità di calcolo, che il debito pubblico rimanga costante in valore assoluto a poco meno di 2.400 miliardi, cioè che l’Italia da qui in avanti chiuda i bilanci in pareggio. Man mano che i BTp in scadenza vengono rimborsati con emissioni di nuovi titoli ai più bassi costi, gli interessi medi tenderanno proprio all’1%. In definitiva, spenderemmo all’anno qualcosa come 24 miliardi, anziché i 64 del 2018, circa 40 miliardi in meno, pari al 2,2% del pil attuale. In altre parole, se solo i rendimenti dei bond si mantenessero ai livelli di agosto per un numero di anni sufficienti per rinnovare tutto il debito, l’Italia raggiungerebbe il pareggio di bilancio senza dover compiere altri sacrifici, ovvero senza dovere alzare le imposte e/o tagliare la spesa pubblica.
Appare abbastanza improbabile che i rendimenti restino così bassi. Si consideri che il minimo storico lo toccarono nell’agosto del 2016, quando si attestarono mediamente allo 0,66%. Da lì, iniziarono a risalire, man mano che il mercato percepì l’avvio di una fase monetaria meno accomodante da parte della BCE. Sappiamo come le cose stiano andando nella direzione opposta proprio in questi mesi, ragione per cui i rendimenti obbligazionari sono precipitati in tutta l’Eurozona, a parziale eccezione dell’Italia e della Grecia, le due economie più temute nell’area sul piano dei conti pubblici.
Per contro, la curva dei tassi italiana oggi risulta molto più bassa di quella di agosto, se pensate che il BTp a 10 anni rende meno dello 0,90% e che mediamente i nostri bond non offrono oltre il mezzo punto percentuale, di fatto battendo un nuovo record minimo. Cristallizzando i dati, i risparmi arriverebbero a regime a una cinquantina di miliardi, uno scenario che per il Tesoro sarebbe da sogno. E dire che i nostri competitor europei registrano già costi medi negativi, per cui di questo passo con gli anni avrebbero solo da guadagnare dalle emissioni di debito. La Germania vanta una curva delle scadenze interamente negativa da inizio agosto e la Spagna offre qualcosa agli investitori solo a partire dal nono anno. Chissà che, normalizzandosi ulteriormente, anche l’Italia non continui a vedere sgonfiata la propria curva, incrementando i risparmi potenziali dei contribuenti e riducendo in prospettiva i sacrifici a cui sarebbero chiamati per risanare i conti pubblici.

lunedì 9 settembre 2019

Quanto ci è costato lo spread “gialloverde”? - Edoardo Frattola

Risultati immagini per spread

Con l’insediamento del nuovo governo, lo spread Btp-Bund è tornato a livelli vicini a quelli di maggio 2018, attorno ai 150 punti base. Nei quattordici mesi di governo “gialloverde”, però, sono stati emessi titoli di stato con spread più elevati. Il costo di questo maggiore spread per la spesa per interessi, cumulato per i prossimi vent’anni, è circa 18-20 miliardi di euro.
* * *
Nei giorni scorsi lo spread (ossia il differenziale di tassi) tra i Btp italiani e i Bund tedeschi a dieci anni è sceso sotto i 150 punti base per la prima volta dal 15 maggio 2018. Con l’insediamento del nuovo governo “giallorosso” sembra quindi che il clima sui mercati finanziari sia tornato quello della scorsa primavera, quando il precedente governo “gialloverde” non era ancora stato formato. In attesa di capire se lo spread si attesterà su questi livelli anche nei prossimi mesi, quando saranno resi noti i dettagli della legge di bilancio per il 2020, è possibile stimare quanto ci costerà in termini di maggiori interessi il rialzo dello spread che ha caratterizzato i quattordici mesi di vita del governo M5S-Lega.
Per farlo, consideriamo il periodo giugno 2018 – luglio 2019 e ipotizziamo uno scenario alternativo in cui per tutto il periodo lo spread rimanga pari a 131 punti base, ovvero il livello di chiusura registrato il 15 maggio dello scorso anno. Se confrontiamo questo scenario alternativo con l’andamento effettivo dello spread, che in media si è mantenuto su un valore doppio rispetto a quello di partenza misurato sulle scadenze a 10 anni che qui vengono utilizzate per il calcolo, possiamo ottenere una stima del maggiore costo sostenuto dall’Italia per l’emissione di quasi 400 miliardi di titoli di stato nei quattordici mesi considerati.[1] Le stime suddivise per anno sono riportate nella Tavola 1.
Tav. 1: Stima della maggiore spesa per interessi con spread effettivo vs. spread di riferimento
(Periodo giugno 2018 - luglio 2019, valori in miliardi di euro)
2018
2019
2020
2021
2022
2023
2024
2025
2026
2027
2028-2038
Totale
0,6
3,5
2,6
2,2
1,9
1,7
1,2
1,0
0,9
0,8
3,1
19,5
Fonte: stima Osservatorio CPI

Il costo più alto è imputato al 2019, poiché molti titoli rinnovati nel periodo considerato avevano scadenza a 6 o 12 mesi (e ovviamente il maggiore costo si trascina solo fino alla scadenza). Negli anni successivi il costo è decrescente, ma resta comunque superiore a 1 miliardo annuo fino al 2025. Complessivamente, la maggior spesa per interessi dovuta a uno spread più elevato ammonta a 19,5 miliardi di euro. In altre parole, se per tutta la durata del governo precedente lo spread si fosse mantenuto sui livelli di maggio 2018, lo Stato avrebbe risparmiato quasi 20 miliardi di spesa per interessi sul debito in un orizzonte complessivo di venti anni (e anche di più su orizzonti più lunghi, tenendo conto che alcuni titoli emessi durante i quattordici mesi in questione avevano una scadenza superiore ai vent’anni).
La stima riportata nella Tavola 1 si basa sull’ipotesi che l’andamento dello spread sui titoli decennali si ripercuota anche su tutti i titoli con scadenza diversa. Si potrebbe però obiettare che i rendimenti dei titoli di breve durata (i BOT a 6 o 12 mesi) non si siano mossi in linea con il differenziale misurato sui titoli decennali. Per tenere conto di questa obiezione nel modo più semplice, abbiamo replicato la stima della maggiore spesa per interessi escludendo dal calcolo i BOT emessi nel periodo giugno 2018 – luglio 2019. In questo caso, il costo complessivo dovuto al rialzo dello spread ammonterebbe a 17,8 miliardi. Anche al netto dei titoli a breve, quindi, la stima della maggiore spesa per interessi non si discosta in modo significativo dai 20 miliardi in un orizzonte ventennale.
[1] Nel nostro calcolo abbiamo assunto che tutti i titoli giunti a scadenza siano stati rinnovati con titoli dello stesso tipo. È la stessa ipotesi fatta nelle precedenti analisi dell’Osservatorio CPI su questo tema (si vedano 

BTp, la frenata dei tassi regala al governo M5S-Pd un bonus da 15 miliardi. - Maximilian Cellino



La brusca retromarcia effettuata dal mercato venerdì pomeriggio e legata alle nuove tensioni fra Pd e M5S sulla formazione del Governo, che in Europa ha fatto chiudere in ribasso la sola Piazza Affari (-0,35%) e riportato lo spread fra Btp e Bund a 170 punti base, non riesce almeno per il momento a cancellare i passi avanti messi a segno dalla Borsa milanese e dai titoli di Stato italiani dal momento in cui è iniziata la trattativa per creare un nuovo esecutivo e scongiurare l’ipotesi di elezioni in autunno. E con un debito pubblico che a giugno sfiorava ormai i 2.400 miliardi di euro è logico e immediato guardare a questi progressi, che si possono trasformare in preziosi risparmi per le casse dello Stato e quindi in denaro da destinare altrove.

Con le ultime aste in cassa già oltre 600 milioni.

L’esempio lo si è avuto proprio questa settimana, durante la quale il Tesoro ha potuto emettere titoli a medio-lungo termine per 9,25 miliardi di euro (4 miliardi dei quali per il nuovo BTp a 10 anni) spendendo meno di quanto fosse ipotizzabile qualche settimana fa o di quanto si è fatto da inizio anno. Se per esempio si fossero effettuate il 9 agosto, giorno del picco dei rendimenti dei titoli italiani (e dello spread) all’indomani dello stop al primo governo Conte decretato dall’ex vice premier, Matteo Salvini, le stesse operazioni sarebbero costate nel complesso (considerando cioè l’intera vita residua del debito collocato) ben 600 milioni in più.
Dai risparmi potenziali per fine anno...
La vicenda si fa decisamente più interessante quando viene proiettata sul futuro, ma qui si entra inevitabilmente nel mondo delle ipotesi e delle congetture. Da qui a fine anno, per esempio, secondo le stime di UniCredit Research, al Tesoro italiano resterebbero ancora da collocare titoli a medio-lungo termine per poco meno di 69 miliardi: una fetta residua dell’ammontare lordo che sarà offerto agli investitori quest’anno, pari a circa 250 miliardi e che finora è stato coperto per quasi il 73 per cento. Qualora il livello dei tassi si mantenesse ai livelli di ieri (ma qui, ovviamente, entriamo nel mondo dei «se») attraverso le operazioni che restano da compiere nel 2019 il Tesoro potrebbe risparmiare ben 4 miliardi rispetto a quanto sarebbe stato costretto a pagare ai debitori conducendo quelle stesse aste ai tassi della seconda settimana di agosto.
... alla «mezza finanziaria» che spunterebbe nel 2020.
Proiettando ancora in avanti prossimo la medesima analisi è anche possibile ipotizzare che nel 2020 - nel caso le emissioni lorde si confermassero sui livelli complessivi di quest’anno, in base ai valori attuali dei tassi e quando si tiene conto che la scadenza residua del nostro debito si avvicina ai 7 anni - il «bonus» potrebbe addirittura sfiorare i 15 miliardi: oltre la metà di quanto, per fare un esempio che in questi giorni viene sempre più spesso tirato in ballo, sarebbe necessario raccogliere per non far scattare le clausole di salvaguardia e il nefasto aumento dell’Iva. Oppure, se si preferisce, più o meno l’ammontare minimo che, come ricordato su Il Sole 24 Ore di venerdì, potrebbe alla fine essere necessario per condurre in porto la Manovra nel caso di un ipotetico «sconto» da parte della Commissione Ue.
I paragoni con le fasi più tese per lo spread.
Certo, spostando i termini di paragone i potenziali risparmi del Tesoro sono destinati a lievitare: salirebbero per esempio a oltre 40 miliardi se si fa il confronto con i rendimenti massimi toccati dai BTp durante le fasi concitate della formazione del precedente governo nel maggio 2018 e sfiorerebbero addirittura i 50 miliardi se ci si riferisce ai tempi del duello con la Commissione Ue sulla Legge di Bilancio dello scorso autunno. La sostanza però non cambia: tassi più bassi equivalgono a un vantaggio per i nostri conti pubblici e possono liberare preziose risorse da impiegare altrove.
Attenzione al riemergere del rischio politico
Resta tuttavia da vedere se queste proiezioni si trasformeranno in realtà o meno, e qui l’andamento futuro dei tassi resta un’incognita. Parlando in generale si può immaginare che l’atteggiamento ultra-espansivo sul quale tenderà a riportarsi la Bce da settembre continuerà a esercitare l’effetto di una calamita in grado di attrarre verso il basso i rendimenti. Nel caso specifico dei titoli italiani è inoltre possibile appiattire ulteriormente quella sorta di «cuscinetto» rappresentato dallo spread, per andare magari a riavvicinare i tassi di Spagna e Portogallo ormai prossimi a zero anche sul decennale. Esiste però anche il pericolo opposto, quello cioè di veder gonfiare di nuovo il differenziale per un ritorno di fiamma del rischio politico. Se avessimo effettuato lo stesso calcolo ai tassi registrati nelle ultime ore della seduta di venerdì, il bonus sul 2020 si sarebbe già ridotto di circa un miliardo: più che un avvertimento da parte dei mercati.