giovedì 24 ottobre 2019

Matteo Salvini descritto da Emilio Mola

L'immagine può contenere: 1 persona, barba

"Ho provato a licenziare Matteo Salvini per due volte" ha raccontato l'ex direttore de "La Padania" Gigi Moncalvo, nell'intervista di lunedì a Report.
"La prima volta - racconta - fu a cavallo delle feste di fine anno. Durante quei giorni, chi veniva a lavoro, riceveva il triplo della paga. Salvini in quei giorni non c'era a lavoro. Non era nemmeno reperibile dove avrebbe dovuto. Ma quando a fine mese arrivò il foglio delle presenze lui lo firmò lo stesso".
"La seconda volta fu quando scoprì che aveva falsificato quattro note per i rimborsi spesa. Quando glielo feci presente, a muso duro, lui mi rispose: tu passi, io resto. E credimi: diventerò sempre più potente".
E aveva ragione.
Quello che Report rivela nell'ora successiva a questa intervista, con tanto di documenti e dichiarazioni dei diretti interessati (russi e americani), avrebbe dovuto portare alla fuga di Salvini dall'Italia nascosto nel vano di una macchina, per evitare la ferocia della folla (la sua folla, quella patriota e col tricolore).
Ma per fortuna del Capitano, ai suoi italiani, a quelli che sventolano il tricolore e parlano di "Patria", dell'Italia e della Patria non è mai fregato un cazzo. E se gliene frega davvero, non hanno capito nulla di ciò che sta accadendo.
Proviamo a riassumerlo allora, per quanto sia vano.
Ciò che in breve viene a galla dalla puntata di Report (e dalle inchieste de L'Espresso), è che in Russia e negli USA operano uomini e gruppi estremamente potenti e ricchi, che hanno (per procura?) un unico grande obiettivo: dissolvere l'Unione Europea, perché d'ostacolo agli interessi globali delle due Super Potenze Straniere.
Come?
La soluzione è semplice. Sostenere in Europa gruppi e forze politiche che - spacciandosi per "nazionaliste" e "patriottiche" - facciano in realtà gli interessi delle due potenze straniere: denigrare e indebolire l'Europa dall'interno.
Il tutto facendo presa su ben determinate fasce della popolazione da manovrare con frasi semplici, foto, slogan, fake news, e alimentando sentimenti quali la paura, il vittimismo, la paranoia della minaccia esterna, il complottismo, la nostalgia, il tradizionalismo religioso, il nazionalismo.
E' il 2013.
Fino a quell'anno Matteo Salvini tiene ancora comizi contro l'Italia, per l'indipendenza della Padania, scrive sui social "Italia Paese di merda", insulta ancora i meridionali.
Poi, all'improvviso, in quell'anno, nel 2013, inizia la sua "strana" conversione.
Da storico anti-italiano diventa il più grande patriota italiano. Così, all'improvviso. E, guarda caso, l'anno successivo candida il suo partito alle Europee col nome di "Basta Euro".
Il 2013 è l'anno della sua elezione a segretario della Lega. E quel giorno, sul palco, sale a parlare un tizio che nessuno aveva mai visto prima: un russo, un certo Alexei Komov.
Che ci fa quel russo lì? Perché è lì?
A spiegarlo alle telecamere di Report è un altro russo, l'uomo che fu invitato (al posto di Komov) al congresso della Lega: il potentissimo Konstantin Malofeev, meglio noto come "l'Oligarca di Dio", miliardario e ultraconservarvore cristiano: "Avrei dovuto esserci io quel giorno - dice - Ma ebbi degli impegni e mandai in mia sostituzione Alexei Komov".
E perché, in Italia, avrebbe dovuto esserci al congresso della Lega lui, Malofeev, l'"Oligarca di Dio", il finanziatore di partiti di estrema destra anti-europei come il Fronte Nazionale di Le Pen in Francia (a cui, prima delle sanzioni, ammette di aver dato 2 milioni di euro)?
Il giornalista di Report lo chiede a Salvini. Che prima finge di non ricordare chi sia Kostantin Malofeev (meravigliosa l'espressione che fa), poi ammette di conoscerlo, ma rinvia l'intervista: alla quale, ovviamente, non si presenterà più.
Malofeev invece risponde, e racconta di aver incontrato l'ultima volta Salvini poco prima della sua nomina a vicepremier, lo scorso anno.
Durante l'intervista Malofeev esplicita il suo pensiero. Degli omosessuali dice: "E' la Lobby dei Sodomiti e dei Pederasta. E' colpa dei gay pride se sempre a più maschi piacciono altri maschi".
E delle donne cosa ne pensa? "Il loro ruolo è essere amate dai mariti. Non dovrebbero lavorare e restare a casa. Il loro ruolo deve essere di casalinghe e madri. Solo donne non amate e infelici diventano femministe".
Ma Salvini condivide i suoi valori? "Certo - risponde Malofeev - il suo discorso a Verona è stato magnifico".
E cosa disse Salvini a Verona un anno fa, durante il congresso mondiale sulle famiglie? "Mi incuriosiscono queste cosiddette femministe che se io fossi donna mi metterebbero in difficoltà".
Che strana questa improvvisa avversione per le femministe.
Ma c'è un'altra coincidenza.
Malofeev è un ultra-conservatore cristiano, principale finanziatore (per decine di milioni di euro ogni anno) della "Fondazione San Basilio il Grande".
Quell'anno, il 2013, Malofeev vola negli USA, dove crea con altri ricchi gruppi fanatici-cristiani americani una "Santa Alleanza" cristiana. E dagli USA ecco che arrivano finanziamenti alle fondazioni "cristiane" europee, per centinaia di milioni di euro. Le quali, politicamente, si schierano in Europa con i partiti anti-europei.
In Italia, all'improvviso, sui palchi e sui social del Capitano Matteo Salvini, iniziano a comparire sempre più spesso Vangeli, Madonne, appelli ai Santi, al Cuore di Maria, crocefissi, rosari.
Sarà un caso, ma dal 2013 in poi, tutto ciò che Malofeev vuole, lo vuole anche Matteo Salvini.
Tutto ciò che a Malofeev interessa (distruggere la comunità gay, ridimensionare il ruolo della donna, distruggere l'Europa, eliminare le sanzioni contro la Russia, il ritorno dei nazionalismi in Europa, la promozione di una propaganda cristiana e fanatica basata sul culto degli oggetti e non del messaggio cristiano, la critica a Papa Francesco, la mitizzazione di Putin, l'avvicinamento dell'Italia alla Russia), trova in Salvini e/o nella Lega una propaggine completamente in sintonia.
Salvini potrebbe chiarire, smentire, correggere. Magari rispondere sul perché il suo braccio destro in Russia Savoini trattasse con i russi affari da milioni di euro. Perché avesse detto di non sapere che Savoini fosse con lui, quando poi foto e video lo hanno smentito.
Non lo ha mai fatto: né in Parlamento né coi giornalisti.
Liquida le domande con battute, ma non risponde mai.
Consapevole di aver ormai plasmato e anestetizzato il suo elettorato, tanto da poter fare e non fare quel che gli pare, senza doverne più rispondere.

Sanno quello che fanno - Marco Travaglio - IFQ - 24 OTTOBRE 2019


Siccome non c’è limite al peggio, la Corte costituzionale ha seguito quelle europee e ha deciso che in Italia l’unico ergastolo possibile è quello finto. In tutto il mondo, da che mondo è mondo, l’ergastolo significa “fine pena mai”. Da noi invece “fine pena forse”. Tant’è che nel 1992, dopo Capaci e di via D’Amelio, si dovette escogitare la ridicolaggine dell’“ergastolo ostativo” per affermare un principio che dovrebbe essere ovvio: l’ergastolo è incompatibile con permessi, sconti di pena e altre scappatoie, per tener dentro a vita almeno qualcuno, cioè i criminali più pericolosi, irriducibili e irredimibili (mafiosi e terroristi). L’8 ottobre i giudici di Strasburgo avevano bocciato questa norma di puro buonsenso e tutti avevano spiegato che, essendo provenienti perlopiù da Paesi immuni dalla mafia, non sanno che un mafioso è per sempre, salvo che parli o muoia. E ritenere l’ergastolo vero come una negazione del principio di rieducazione della pena è una doppia fesseria: intanto perché uno può rieducarsi restando in carcere (ci sono svariati casi di ergastolani che lavorano, studiano, si laureano senza mettere piede fuori); e soprattutto perché per redimersi davvero il mafioso deve innanzitutto recidere i legami col suo clan, e può farlo solo se collabora.
Ma questi elementari principi sembrano sfuggire anche ai giudici costituzionali italiani, che un’idea della cultura e della prassi mafiosa dovrebbero averla. Quindi sanno quello che fanno. Perciò la loro sentenza è ancor peggio di quella europea: perché non può essere giustificata neppure con l’ignoranza. Affidare alla discrezionalità dei giudici la decisione pro o contro un permesso premio a un mafioso irriducibile li espone a lusinghe, minacce e vendette mafiose: se oggi nessun ergastolano “ostativo” ottiene permessi premio è perché la legge li vieta; domani gli ergastolani “ostativi” (tipo i fratelli Graviano, condannati per tutte le stragi del 1992-’94) chiederanno permessi e, se non li otterranno, sarà “colpa” del giudice che li ha negati pur potendoli concedere. Dunque proveranno a comprarlo e a intimidirlo e, in caso di diniego, a punirlo. L’accesso ai permessi premio è la prima breccia nel muro finora impenetrabile del decreto Scotti-Martelli (41-bis, ergastolo vero e benefici ai pentiti) battezzato 27 anni fa col sangue di Falcone, di Borsellino e delle altre vittime delle stragi. Un muro che i boss provano da allora a scalfire con le buone (la trattativa) e con le cattive (le bombe, le minacce e i ricatti). Dopo Capaci e via D’Amelio, il Ros domandò a Riina, tramite Ciancimino, cosa volesse per una tregua.
E il boss rispose con un papello di richieste: via l’ergastolo, il 41-bis, i pentiti, le supercarceri di Pianosa e Asinara. Nel ’93 il 41-bis fu ammorbidito, con la cacciata del capo del Dap Niccolò Amato e la revoca del carcere duro a 334 mafiosi. Nel ’94 B. tentò col decreto Biondi di abolire l’arresto obbligatorio per i reati di mafia, poi la norma fu bloccata da Bossi e Fini (perché liberava anche i mazzettari di Tangentopoli); ma nel ’95 fu approvata da destra e sinistra insieme. Nel ’97 il centrosinistra chiuse Pianosa e Asinara, nel ’99 abolì l’ergastolo per due anni, poi nel 2001 ci ripensò, ma in compenso introdusse i benefici e aumentò i limiti ai pentiti. Poi tornò B. e i suoi uomini al Dap aprirono alla “dissociazione” dei boss irriducibili (benefici senza confessare nulla né denunciare nessuno), ma furono bloccati. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella, cognato di Riina, prese la parola in un processo, collegato dal carcere dell’Aquila, e lesse un comunicato a nome degli altri detenuti in sciopero della fame contro i politici che non mantenevano “le promesse” sul 41-bis: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Con chi ce l’aveva? Lo svelò il Sisde: Cosa Nostra minacciava di tornare a sparare, stavolta senza “fare eroi”: “L’obiettivo potrebbe essere una personalità della politica percepita come compromessa con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica”. Chi? Il Sisde mise subito sotto scorta Dell’Utri e Previti.
Il 19 dicembre 2003 il governo B. riformò il 41-bis, rendendone più facili le revoche. Ma i mafiosi lo volevano proprio abolito. Il 22 dicembre allo stadio di Palermo, durante la partita fra la squadra di casa e l’Ascoli (il club della città dov’era detenuto Riina), comparve un mega-striscione: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. La risposta arrivò nel 2006, in campagna elettorale, quando B. esaltò Mangano come “eroe”. Ma evidentemente le promesse erano ben altre. Ancora nel 2016-2017 Giuseppe Graviano si sfogava col compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi: nel 1992 “Berlusca” gli aveva chiesto “una cortesia” (le stragi?) perché aveva “urgenza di scendere” in campo e “lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. E accusava B. di ingratitudine: “Pigliò le distanze e ha fatto il traditore… 25 anni fa mi sono seduto con te, giusto è?… Traditore… pezzo di crasto… ma vagli a dire com’è che sei al governo… Ti ho portato benessere. Poi… mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi… Dice: non lo faccio uscire più e sa che io non parlo perché sa il mio carattere e sa le mie capacità… Mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta… Alle buttane glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso… e tu mi stai facendo morire in galera…”. Graviano affidava poi ad Adinolfi – in procinto di uscire – un messaggio ricattatorio per un misterioso intermediario col mondo berlusconiano a Milano2. E discuteva col compare dell’opportunità o meno di dire ai magistrati tutto ciò che sa. Ma sbagliava destinatario. Bastava aspettare le due Corti. Quod non fecerunt berluscones, fecerunt ermellini.

mercoledì 23 ottobre 2019

“Il Vaticano è a rischio fallimento finanziario”: tra malumori e tradimenti, come è fallita la rivoluzione promessa da Papa Francesco. - Francesco Antonio Grana

“Il Vaticano è a rischio fallimento finanziario”: tra malumori e tradimenti, come è fallita la rivoluzione promessa da Papa Francesco

In 'Giudizio Universale' (edito da Chiarelettere) il giornalista Gianluigi Nuzzi svela i documenti riservati che testimoniano la difficile situazione economica in cui versano le casse della Santa Sede. Sullo sfondo, il clima torbido che si vive nei sacri palazzi e che emerge nelle carte segrete pubblicate dall'autore del libro.
Il Vaticano è a rischio default. Se entro il 2023 i conti non saranno risanati la Santa Sede potrebbe essere travolta da un crac finanziario. È quanto emerge dai documenti pubblicati nel nuovo libro di Gianluigi NuzziGiudizio universale, edito da Chiarelettere. Un volume che, proprio come i precedenti scritti dal giornalista sul Vaticano, svela retroscena inediti e a dir poco inquietanti della vita dei sacri palazzi. Un testo che arriva mentre il Papa è alle prese con il Sinodo speciale dei vescovi sull’Amazzonia che il 26 ottobre 2019 sarà chiamato a decidere se dare il via libera ai cosiddetti “viri probati. Ovvero uomini sposati che vengono ordinati preti senza lasciare la loro famigliaMa anche dall’indagine immobiliare che ha travolto la Segreteria di Stato e ha già costretto alle dimissioni l’ormai ex comandante della Gendarmeria Vaticana, Domenico Giani.
“La situazione – spiega Nuzzi – è sicuramente peggiorata rispetto a quando il predecessore di Francesco, Benedetto XVI, ha deciso di fare un passo indietro. Tutti i parametri sono precipitati, per esempio all’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, ndr) i parametri dei risultati operativi presentano crolli anche oltre il 60 per cento. Però io credo che il Santo Padre sia determinato a invertire la china rispetto a quella che non è una ferita ma una emorragia. Come? Gli strumenti che ha sono insufficienti. Secondo me siamo di fronte a un collasso del management della Curia, gli strumenti sono vetusti, lo dicono i documenti, ancora si utilizzano trascrizioni manuali dei numeri in epoca di intelligenza artificiale, c’è una parcellizzazione delle competenze e c’è inadeguatezza della classe dirigente, questo lo dicono loro stessi”.
Secondo il giornalista “c’è anche una situazione economica negativa perché le offerte sono precipitate ed è evidente dalle carte l’inefficienza della gestione del patrimonio immobiliare. All’Apsa, ad esempio, il 40 per cento non dà reddito, un dato che sarebbe insopportabile per qualunque tipo di finanza. Quella annunciata rivoluzione della gestione delle case non si è realizzata”. Per Nuzzi “la situazione è tale per cui di recente, nel 2018, si era deciso di vendere gioielli di famiglia, vendere ad esempio alle porte di Roma, la proprietà di Santa Maria di Galeria, 424 ettari, e il Papa ha detto che c’era un problema reputazionale, ha detto, sono contrario a un utilizzo speculativo del territorio finalizzato alla mera massimizzazione dei profitti. Qui rientra la dottrina della Chiesa, il rischio, la paura di un danno reputazionale ha portato a congelare quella operazione”.
Nel volume non c’è solo economia. Nuzzi riesce a dare al lettore una fotografia del clima torbido che si respira in Vaticano. L’insoddisfazione per le politiche di Bergoglio, non solo in campo finanziario, hanno creato negli ultimi anni del pontificato numerosi malumori e tradimenti da parte dei più stretti collaboratori del Papa. In questo senso è abbastanza significativa la ricostruzione che il giornalista fa, sempre documenti alla mano, della vicenda della lettera taroccata di Benedetto XVI. Vicenda che ha portato alle dimissioni del primo prefetto del Dicastero per la comunicazione, monsignor Dario Edoardo Viganò, sostituito da Paolo Ruffini, primo laico al vertice di un organismo della Curia romana.
“Caro Dario hai fatto purtroppo un pasticcio molto grande. Mi dispiace. GG”, scrive a Viganò monsignor Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare di Benedetto XVI. Puntuale la replica: “Ma come? Ho letto il pezzo su cui avevamo preso accordi agli esercizi. Questo dimostra anzi come questa gente non voglia bene a Benedetto e lo usino come bandiera. Mi dispiace che tu pensi così. Abbiamo fatto bene i passi insieme e condiviso cosa fare. Perché mi dici questo? Comunque ora sono verso aeroporto ma domani torno e se credi ci sentiamo. D”. Al che Gänswein risponde: “Ne parleremo. La ‘manipolazione’ della foto della lettera ha creato guai. Questo non abbiamo concordato. Buon viaggio, a domani. GG”. Al Papa e alla Segreteria di Stato monsignor Viganò scrive di aver letto la lettera di Benedetto XVI “nella modalità concordata” con monsignor Gänswein e aggiunge: “È evidente che se Sua Eccellenza fosse intervenuto per spiegare che non era stata compiuta nessuna mistificazione avrebbe chiuso il caso”.
Nuzzi, attraverso il suo legale, ha voluto depositare al promotore di giustizia della Santa Sede la prima copia di Giudizio universale affinché valuti se i fatti raccontati nel libro hanno rilievi penali. Nel 2015 il giornalista fu processato in Vaticano, insieme al collega Emiliano Fittipaldi, proprio perché entrambi avevano pubblicato due volumi con alcuni documenti riservati della Santa Sede. Dopo nove mesi di processo, entrambi furono prosciolti per difetto di giurisdizione. Alla vigilia della prima presentazione di Giudizio universale c’è stato anche chi Oltretevere ha sollevato un vero e proprio “caso diplomatico”. Tra i relatori, infatti, era previsto il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio. Una presenza non gradita nei sacri palazzi che, secondo alcune persone vicine a Casa Santa Marta, la residenza di Bergoglio, avrebbe addirittura potuto minare le relazioni tra l’Italia e la Santa Sede. Lo staff di Di Maio ha fatto sapere che il capo della Farnesina sarà assente perché impegnato nel Consiglio dei ministri. Con buona pace del Vaticano.

Senato: la rivolta di intoccabili e indagati contro i tagli ai vitalizi. - Ilaria Proietti



IL 4 NOVEMBRE L’ORGANISMO DI GIUSTIZIA DI PALAZZO MADAMA DOVRÀ ESPRIMERSI SU 772 RICORSI CHE SI OPPONGONO ALLE DECURTAZIONI IN VIGORE DAL 1° GENNAIO 2019.

“Giaaacomo! Giacomino”. “Senatore bello, amico mio”. Giacomo (Giacomino) Caliendo è più omaggiato che mai a Palazzo Madama, manco le lancette dell’orologio fossero tornate indietro di un decennio quando era potentissimo sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi. Lui gongola per i salamelecchi, per niente sorpreso: da quando la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati lo ha voluto come presidente dell’organismo di giustizia interna di Palazzo Madama, frotte di ex senatori che da gennaio si sono visti decurtare il vitalizio lo hanno elevato a nume tutelare. In vista della sua decisione sulla legittimità del ricalcolo con metodo contributivo degli assegni in vigore da gennaio cui gli ex onorevoli senatori si oppongono strenuamente.

La loro attesa, snervante, sta per finire: la camera di consiglio della Commissione contenziosa presieduta da Caliendo che deciderà sulla decurtazione degli assegni è stata fissata per il 4 novembre. Ne fanno parte oltre al forzista, anche Simone Pillon della Lega ed Elvira Evangelista dei Movimento 5 Stelle. Ma anche due membri “laici”, sempre indicati dalla presidente Casellati: l’avvocato Alessandro Mattoni e soprattutto una vecchia conoscenza dell’attuale capo di gabinetto della presidente Casellati Nitto Palma, ossia l’ex magistrato Cesare Martellino che è relatore dei 772 ricorsi sui vitalizi presentati a Palazzo Madama.

Ma cosa prevede questa delibera? Che dal 1° gennaio 2019 i vitalizi sono rideterminati moltiplicando il montante contributivo individuale di ciascun ex senatore per un coefficiente di trasformazione correlato all’età anagrafica. Ma ci sono meccanismi sia per scongiurare tagli troppo drastici sia per evitare che aumentino ancora assegni già assai alti. Proprio per questo sono sugli scudi anche i 78 ex senatori che dovranno accontentarsi di ricevere come prima. Non malaccio, comunque. Franco Bassanini, Alfredo Biondi, Emanuele Macaluso, Nicola Mancino, Beppe Pisanu, Clemente Mastella manterranno un vitalizio mensile lordo pari a 10.631,34 euro.

A quota 10 mila Anna Finocchiaro e Achille Occhetto seguiti da Franco Marini e Roberto Castelli (9.512,25). Mantengono lo stesso trattamento anche alcuni ex senatori che hanno ancora un conto aperto con la giustizia: a Luigi Grillo che in passato ha patteggiato una condanna per episodi corruttivi legati all’Expo di Milano tocca un vitalizio mensile di 10.382,6; Antonio D’Alì, a processo per concorso in associazione mafiosa continua a prendere 9.201,40 euro. Carlo Giovanardi su cui pende una richiesta di autorizzazione all’uso delle intercettazioni per l’inchiesta Aemilia continuerà a intascarne 9.387,91. Sempre meglio di Ottaviano Del Turco condannato in via definitiva a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita nel processo sulla Sanitopoli abruzzese: il suo vitalizio scende a 5.507,72 euro contro i 6.590,19 precedenti. Antonio Azzollini, a processo per la presunta maxitruffa del porto di Molfetta, passa da poco più di 8 mila euro a 5.505.

L’elenco degli 830 vitalizi ricalcolati comprende anche l’ex sindaco di Catania Enzo Bianco (il suo assegno scende da circa 8 mila euro a 6.171 proprio come l’esponente storico dell’ultradestra Domenico Gramazio). Goffredo Bettini è dimagrito da 6.590 a 3.960 euro. Salasso pure per Mariapia Garavaglia da 9.200 a 4.150, mentre Luigi Compagna scende da 6.200 euro a 4.600. Stringe la cinghia il grande vecchio della finanza italiana Giuseppe Guzzetti: la sforbiciata ha toccato il suo assegno da 4.700 euro, ora ridotto a 2.395. Sacrifici per Pietro Ichino che per il ricalcolo contributivo passa da 4.352 a 2.668. A dieta anche Linda Lanzillotta (la moglie di Bassanini scende da 3.200 a 1.787), Nicola Latorre (6.200 oggi ricalcolati a 4.065), Luigi Manconi (4.725 oggi a 2.532). Alessandra Mussolini ha buoni motivi per essere nera: il suo assegno scende da 9mila euro a 5.200. Un altro arrabbiato è Francesco Rutelli che si è visto tagliare l’assegno da 9.500 euro e oggi ne percepisce solo 7.780. Nitto Palma, infine, è il più infuriato di tutti: nonostante il prestigioso incarico ottenuto al fianco di Casellati il suo vitalizio è sceso da 6.200 euro al mese a 5.400. Anche lui guarda con grande speranza alla decisione di Caliendo.

https://infosannio.wordpress.com/2019/10/23/senato-la-rivolta-di-intoccabili-e-indagati-contro-i-tagli-ai-vitalizi/

Il cazzaro nero. - Tommaso Merlo



Più si scava attorno al Metropol, più emerge un sottobosco davvero inquietante. Oligarchi, ideologi, affaristi. Un sottobosco nero come le idee neofasciste che lo impregnano. Un Putin in cima e sotto via di manganello e rosario per ripulire il frociame, il negrume e tutta sta dannata libertà che ci sta portando alla deriva. Già, patria, chiesa e famiglia. 
Credere, obbedire e combattere. Eia, eia, alalà! Salvini ammicca da tempo alle organizzazioni neofasciste italiane, ma non ne ha mai risposto perché nelle urne tutto si riduce a qualche zero virgola. Cosa diversa all’estero, più si scava attorno al Metropol, più emerge una sorta di lobby internazionale neofascista e ultraconservatrice che da Steve Bannon arriva fino a Mosca. Oligarchi, ideologi, affaristi. Un vero e proprio sottobosco nero che mira a sabotare il progetto europeo e più in generale le democrazie liberali per tornare ad un nazionalismo da secolo scorso. Liberticida e autoritario. Come madre Russia insegna. Un nazionalismo che mira ad accentrare il potere nelle mani di qualche Superuomo in nome del popolo ovviamente. Che mira a rilegare le donne ai fornelli e a sfornare nuove reclute di razza. Che mira a rimandare i selvaggi a raccoglier banane e a frustare chiunque osi profanare la famiglia di Betlemme. Che mira a ergere muri per difendersi dal cambiamento, dal diverso e da tutte le trasformazioni sociali e culturali di un mondo che si ostina a girare. Manganello e rosario. Contro le opposizioni, contro i giudici, contro l’informazione, contro le minoranze. Una lobby che se si presentasse alle elezioni per quello che è davvero, si beccherebbe pernacchie e insulti in qualunque paese occidentale. E per questo agisce nelle retrovie infiltrando i partiti esistenti e puntando su uomini politici dalle idee affini che emergono sulla scena dei vari paesi. Ed è qui che entra in gioco Salvini che tra i cavalli su cui ha puntato il sottobosco nero è quello che è partito al galoppo in maniera più dirompente. Da Washington fino a Mosca. Oligarchi, ideologi, affaristi. Tutti sanno benissimo che Salvini è un cazzaro. Se puntano su di lui non è certo perché stimano la sua profondità intellettuale e il suo spessore da statista. Ma Salvini appartiene al loro mondo ideologico ed è riuscito a trovare un format vincente sul mercato elettorale del suo paese, è riuscito a conquistare milioni di italiani impauriti dall’immigrazione, incattiviti dalla crisi ed esasperati dal fallimento della vecchia partitocrazia. Cittadini comuni, in milioni. Non gruppi di esaltati, non sette di fanatici. Tutto grazie ad una accattivante vetrina social di un negozio che vende l’immagine salviniana e nasconde le idee ultraconservatrici nel retrobottega con l’inconfessabile obiettivo di tirarle fuori al momento opportuno e rifilarle in piccole dosi affinché si sdoganino e fioriscano. Tutte le lobby funzionano così. Anche quella del sottobosco nero. Investono soldi, inquinano l’informazione, puntano sui cavalli vincenti. Nell’ombra. Scoppiato il vento sovranista, Salvini si è trovato al momento giusto al posto giusto. A trasformarlo in un fenomeno sono stati quei geni dei cittadini italiani che non appena spunta un ducetto hanno il vizio di correre a prostrarsi ai suoi piedi. La solita cotta politica che negli ultimi anni è però passata molto in fretta. Cosa che Salvini e il sottobosco nero sanno e temono. Fallito il colpo di mano estivo, ci devono riprovare prima che si scavi troppo a fondo intorno al Metropol. Prima che gli italiani capiscano cosa vi sia davvero dietro al cazzaro nero.

https://infosannio.wordpress.com/2019/10/22/il-cazzaro-nero/

Ma davvero ri-ri-rivolete voi Matteo Renzi? - Luisella Costamagna

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Avete presente i film dell’orrore? Quelli in cui il protagonista riesce faticosamente a sopravvivere e, dopo mille peripezie e colpi di scena, finalmente torna a casa, scioccato, sporco, ferito, per calmarsi fa una doccia, si asciuga, indossa abiti puliti, prova a scacciare i cattivi pensieri, abbozza anche un sorriso, ma quando fa per buttarsi esausto sul letto… annidata nell’ombra c’è la sagoma dell’assassino!
Ecco, un po’ come un film dell’orrore – ovviamente si fa per dire, è una metafora, un’iperbole, mica orrore vero con morti e feriti, non scherziamo, ché qui le querele piovono a catinelle… vero che ormai quasi non puoi dirti giornalista se non hai una querela da Rignano, manco fosse un test d’ammissione all’Ordine, ma con tutto quello che già dobbiamo tirar fuori per bollette, mutuo, tasse e poi il caldo, il freddo, le cavallette, ci manca pure il bonifico a Pontassieve – insomma pensavamo che i gloriosi, entusiasmanti, elettrizzanti tempi renziani fossero andati e invece è ri-ri-ritornato Lui: Matteo. Dall’ombra ha riconquistato la luce accecante della Leopolda 10 (già 10 anni sul groppone? Come passa il tempo quando ci si diverte…). Con una copertura mediatica – dirette, talk, tg, social, paginate e paginate su quotidiani, settimanali, mensili, annuali – che mai si era vista per un partito sondato al 4 per cento (eh ma crescerà, forse, dicono), ha inondato la scena pubblica. Qualunque cosa dicesse o facesse, esaltasse i risultati del “suo” Palazzo Chigi o ammettesse di aver sbagliato qualcosa (inezie beninteso, e sempre per colpa di altri), o ancora menasse a destra o a manca (soprattutto a manca, all’indirizzo del governo, Conte, Pd e 5S) erano ovazioni. A prescindere. Lui è ri-ri-ritornato per la gioia dei fan e di quella capillare rete mediatica che, costretta a rimanere dormiente per qualche tempo, ora può risaltare in piedi solerte: comandi!
Resta da capire quanto questo ri-ri-ritorno sia apprezzato dagli italiani: davvero non vedevano l’ora di rivederlo all’opera? Davvero possono cessare le loro notti insonni, perché hanno di nuovo il loro leader di riferimento e un simbolo con le ali su cui apporre la preziosa X? O confidavano di averci messo una croce sopra? Qui tocca cambiare genere, abbandonare l’horror e passare alla commedia romantica, con la più classica delle formule: quella del matrimonio.
Cari italiani, volete voi di nuovo… chi vi ha tolto l’art. 18 e dato contratti di lavoro a tutele crescenti (ovvero calanti)? Chi ha trattato con l’Ue l’accoglienza dei migranti in cambio di flessibilità nei conti pubblici con cui elargire (anche) bonus elettorali? Chi ha escogitato la riforma costituzionale che avete bocciato nel referendum e la legge elettorale bocciata dalla Consulta? Chi ha stretto il Patto del Nazareno con Berlusconi e ora cerca di conquistare gli elettori di Forza Italia e invita alla Leopolda il “mussoliniano” Lele Mora (il quale offre una succosa definizione dell’affinità tra i due: “Silvio diceva che era il suo nuovo galoppino. È il suo erede”)? Ri-volete voi chi ha licenziato il Salva Banche? La Boschi, il giglio magico, la bellanova star Bellanova e “Ciaone” Carbone, redivivo alla kermesse renziana dopo la tranvata alle elezioni? E un altro quotidiano diretto da Andrea Romano? Comprereste un’auto usata (o un aereo) da chi aveva promesso di lasciare la politica?
Nel buio della vostra stanza stasera chiedetevelo: volete voi (ancora) Matteo Renzi?

martedì 22 ottobre 2019

LA BESTIA DI SALVINI - Milena Gabanelli.

Ricostruiamo il funzionamento della potente macchina social che dal 2014 sta dietro l’ ascesa dI Salvini, oggi il politico con più consenso in Italia.A far funzionare la Bestia ci sono 35 esperti digitali che coprono la vita pubblica e privata di Salvini 24 ore al giorno, festività incluse. Il vincolo è quello della riservatezza assoluta.
Durante i 5 mesi di campagna elettorale per le Europee del 26 maggio, su Facebook, definito l’ ammiraglia del Capitano: 17 post al giorno, 60,8 milioni di interazioni (che vuol dire like, commenti, condivisioni), 40 milioni di «mi piace» e oltre 5 milioni di ore di video visualizzati. Risultato delle elezioni: Lega primo partito con il 34%. Da giugno i ritmi sono un po’ più lenti ma continua a crescere: i like sui post hanno raggiunto i 52 milioni, 11,5 milioni le condivisioni.
Oggi i fan su Facebook sono oltre 3,8 milioni, su Instagram 1,8 e su Twitter 1,2. È una corazzata senza pari in Italia che dal buongiorno con pane e Nutella, alle castagne in padella per la figlia, fino alla domenica sera da Barbara d’ Urso, macina ininterrottamente. In rapporto alla popolazione, la Bestia performa meglio delle macchine social del presidente del Brasile Jair Bolsonaro, dell’ americano Donald Trump e del primo ministro indiano Narendra Modi.
I meccanismi per aumentare i fan sui social sono sfruttati in tutto il loro potenziale, a partire dal T-R-T: una sigla che sta per televisione, Rete, territorio. Si tratta di un gioco di specchi per mettere continuamente in comunicazione i tre ambiti: l’ attesa dell’ intervista tv viene trainata da ripetuti annunci su Facebook, durante la trasmissione si estrapolano e commentano in tempo reale fermi immagine e tweet live con i messaggi chiave da diffondere. Subito dopo vengono postati gli interventi tv (nel caso di Renzi rimontato ad hoc) con l’ invito ai fan a esprimere il loro parere.
Questo meccanismo trascina gli utenti social sulle reti tv (e viceversa) e contribuisce ad aumentarne l’ audience. Salvini è il politico più invitato, e la parola d’ ordine è: spolpare ogni evento fino all’ osso. Lo stesso sistema vale per i comizi. Poi, siccome è proprio la velocità dei like che contribuisce a fare impennare l’ algoritmo di Facebook e dunque ad ampliare la platea di chi vede il post, ecco sotto elezioni il gioco «Vinci Salvini»: chi per primo mette «Mi piace» entra in una graduatoria che alla fine farà guadagnare ai primi classificati una telefonata o un caffè con il leader.
Per raccogliere fan è cruciale la scelta dei messaggi: più toccano temi divisivi e più generano partecipazione (come le campagne contro gli immigrati #finitalapacchia#prima gli italiani e #portichiusi); funzionano gli slogan motivazionali («la Lega continua a volare»), gli attacchi ai rivali politici («Sono ministri o comici?»), le immagini di vita privata («Mano nella mano» come commento a un post con la figlia), il coinvolgimento degli utenti («Siete pronti?»). Lo staff utilizza anche il software che individua l’ argomento del giorno più discusso in Rete, e consente di adeguare i messaggi da lanciare.
Dal tortellino al pollo, fino a Mahmood. A caldo si era schierato contro la vittoria del cantante, salvo poi fare marcia indietro e lodarlo. Un ruolo strategico è affidato ai sondaggi. Il 17 dicembre 2017 la Lega commissiona a Swg di testare la percezione degli elettori su una possibile minaccia dei Naziskin: il 67% degli elettori del Carroccio non li ritengono pericolosi (al contrario di chi vota per altri partiti). Da allora Salvini può tranquillamente spendersi a favore di CasaPound. Il documento, mai reso pubblico, lo ha scovato Report , che approfondirà questa sera su Rai 3.
La diffusione del messaggio del Capitano è capillare grazie ai ripetitori digitali: almeno 800-1000 fedelissimi ricevono il link dei post su una chat su WhatsApp e immediatamente lo condividono sulla propria pagina Facebook e lo rilanciano in altre chat.
Contemporaneamente i canali fiancheggiatori inseriscono lo stesso contenuto su più pagine pubbliche. Vietati invece i commenti con #49milioni#siri o qualunque parola evochi uno scaldalo in cui è coinvolta la Lega.
«L’ esercito va nutrito e motivato», è il Morisi-pensiero: affinché tutti si sentano protagonisti, per la manifestazione di Roma del 19 ottobre sono stati creati cartelloni automatizzati con la propria foto di fianco a Salvini.
I fan vengono profilati, al fine di inviare messaggi mirati. L’ ultimo es. è proprio legato al raduno di piazza San Giovanni dove Salvini lancia l’ invito: «Mandate i vostri dati personali a legaonline.it e riceverete le informazioni richieste per i pullman e i treni diretti alla manifestazione di Roma». I 137 mila euro spesi da marzo a oggi in pubblicità su Facebook, vengono utilizzati soprattutto per geolocalizzare il messaggio e scegliere il target: inviare per esempio perfino ai tredicenni il post contro il governo che pensa di tassare le merendine, oppure raggiungere il più alto numero di elettori dell’ Umbria in vista delle elezioni del 27 ottobre.
Un’ onda d’ urto che sfruttando l’ abilità del leader leghista ha fatto leva su tutte le debolezze del Paese. Alla fine probabilmente un buon 90% di quei 3,8 milioni di fan vota Salvini, ma da tutta questa attività social intrisa di slogan e provocazioni è difficile capire quale sia il progetto politico.
«La Bestia» ha anche un costo e qualcuno lo pagherà. Luca Morisi e il socio Andrea Paganella, fatturano tramite la Sistema Intranet, una società in nome collettivo (snc) che non ha l’ obbligo di depositare i bilanci. Durante i 14 mesi di Salvini ministro dell’ Interno entrambi hanno avuto un contratto con il Viminale: 65 mila euro per Morisi, 86 mila per Paganella. Pagati anche altri quattro contratti del team social: 41.600 euro ciascuno. A gestire i soldi del partito è invece la Lega per Salvini premier.
Due milioni di euro sono arrivati da 187 mila contribuenti che nel 2018 hanno donato il loro 2×1000. Per il 2019 è previsto «un robusto incremento» delle entrate, poiché in cassa sta confluendo un terzo dello stipendio di ogni eletto del Carroccio. Nel bilancio la principale voce di costo, è genericamente indicata come «servizi»: 623 mila euro.