sabato 26 ottobre 2019

SALVINI CONTRO LA RAGGI. Tommaso Merlo.


Salvini si è unito ai gabbiani che svolazzano su Roma. Come una pantegana del cielo qualunque. Vuole ficcare il becco nella carcassa del Campidoglio, chiede la testa della sindaca Raggi. Quella cocciuta cittadina che si è messa in testa di ripulire la sua città. Ma invece di farlo alla vecchia maniera, lo fa nel rispetto della legalità e della trasparenza. Intollerabili sacrilegi. Bestemmie. A Roma giravano cifre folli senza neanche una gara d’appalto. Tutto sulla fiducia. Criminale. Montagne di debiti. Saccheggi. Cricche di pantegane. Robaccia che qualche azzeccagarbugli non vuole chiamare mafia ma chissenefrega. Era una indegna cloaca e questo basta ed avanza. Con la politica in cima ad ingrassare alle spalle dei contribuenti e a dirigere il traffico dei sorci di terra e di cielo. La sindaca Raggi ha smesso di far debiti, si è messa a rispettare leggi e regolamenti ed ha avuto perfino il fegato di sfidare le mafie che per decenni la vecchia politica ha tollerato e perfino invitato a cena. Per paura, per convenienza, per interesse, per abitudine. Perché la cloaca faceva comodo a tutti. Per questo la sindaca Raggi sta pagando un prezzo carissimo. Perché ha avuto il coraggio di alzare la testa là dove nessuno aveva osato farlo. Perché si è schierata senza esitazioni dalla parte della legge, dei cittadini e dell’istituzione che rappresenta. E facendolo, ogni santo giorno denuncia coi suoi comportamenti lo schifo che l’ha preceduta e dimostra come sia possibile anche da noi governare onestamente. Possibile ma molto più difficile. Perché rispettare le leggi è più complesso, ci vogliono competenze, ci vuole più tempo. Nella vecchia cloaca romana bastava una telefonata tra pantegane per sistemare tutto e i soldi non finivano mai. Una pacchia sorcina. Non come oggi che una città sul lastrico e martoriata tenta di risollevarsi nell’unico modo serio e cioè a piccoli passi, col lavoro e la fatica quotidiana di tutti i cittadini di buona volontà. Perché il cambiamento vero è così. Lento e faticoso. Il resto sono sole balle che qualche politicante svende sotto elezioni. Solo solo dolorose illusioni. Garriti. Le vecchie pantegane scacciate nelle urne oggi tramando nell’oscurità rendendo il lavoro della sindaca ancora più arduo e sperano di tornare a sguazzare presto nei sotterranei del Campidoglio. Il cambiamento è una lotta che non finisce mai. In un paese sano, una sindaca come la Raggi sarebbe stata protetta e sostenuta e forse anche premiata per il suo coraggio e la sua determinazione nel servire lo stato e il bene comune esponendosi in prima persona. In Italia è stata invece massacrata fin dal suo insediamento solo perché appartenente ad una forza politica estranea al vecchio regime. Pantegane politiche, giornalistiche, affaristiche. Tutti contro quella donna cocciuta che ha deciso di rimboccarsi le maniche e non cedere ai suoi principi. Se la sindaca Raggi si fosse venduta, se la Raggi si fosse piegata avrebbe trovato molti meno ostacoli sul suo cammino, l’avrebbero lasciata in pace e oggi passerebbe per essere un ottimo sindaco come i suoi celeberrimi predecessori. Già, quelli che hanno massacrato Roma e oggi fanno i finti tonti e predicano senza dignità. Oggi Salvini si è unito a loro. Si è unito ai gabbiani che svolazzano su Roma. Come una pantegana del cielo qualunque.

https://infosannio.wordpress.com/2019/10/25/salvini-contro-la-raggi/

Il Riformatorio - Marco Travaglio

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Sopraffatti dalla cronaca, abbiamo trascurato l’evento destinato a terremotare l’editoria e la politica: il ritorno in edicola, minacciato per il 29 ottobre, del Riformista. L’ingloriosa testata, a suo tempo lanciata dal lobbista Claudio Velardi, passata agli Angelucci, diretta da Polito El Drito e ovviamente fallita nel 2012, risorge con un nuovo editore, Alfredo Romeo, e un nuovo direttore. Anzi, due: Piero Sansonetti e Deborah Bergamini. Romeo non è omonimo dell’imprenditore salvato dalla prescrizione ai tempi di Tangentopoli e di nuovo indagato per traffico d’influenze con babbo Renzi nell’inchiesta Consip: è proprio lui. Sansonetti non è omonimo dell’ex inviato dell’Unità (suo il leggendario titolone sulla morte di lady Diana: “Scusaci, principessa”), ex direttore di Liberazione (chiuso), de Gli Altri (mai trovati), di Calabria Ora (fallito), de Il Garantista (fallito) e de Il Dubbio (che l’ha cacciato): è sempre lui. E la Bergamini non è omonima dell’ex portavoce di B., dunque direttore del Marketing strategico Rai e poi deputata di FI da tre legislature: è sempre lei. Il nuovo giornale sarà improntato a un’anglosassone separazione tra giornalismo e politica. Infatti, oltre a un direttore (su due) deputato e un editore imputato, vanta come editorialisti la Maiolo, Cicchitto, Bertinotti, Paolo Guzzanti e la Boschi. Che scriverà “a titolo gratuito” (e ci mancherebbe pure che la pagassero).
I titoli dei numeri zero promettono bene: “Fisco, arriva il decreto Travaglio: manette” e “Ergastolo addio: l’Europa civilizza l’Italia”. La linea si annuncia frizzante e soprattutto sintonizzata coi tempi: “Noi – promette Samsonite – vogliamo l’abolizione del carcere”. Infatti il partito di riferimento è Forza Italia Viva (paghi due, prendi uno). Purtroppo i 60 mila detenuti non han potuto assistere alla presentazione, ma alcuni hanno inviato telegrammi di benvenuto e prenotato la prima copia da appendere in cella accanto al calendario del camionista. I lettori dunque non mancheranno. Non solo nei migliori penitenziari, ma anche nella società civile. Ieri, per dire, nei bar di Roma era tutta una protesta contro l’arresto dei due sospetti killer di Luca Sacchi: “Ha sentito, signora mia? Hanno arrestato due presunti innocenti, dove andremo a finire”. “Non me lo dica, guardi, sono indignata: ma quando si decidono ad abolire il carcere?”. “Non vorrei sbagliarmi, ma ho sentito che esce un giornale apposta”. “Ma volesse il cielo, era ora!”. Quando, 17 anni fa, nacque il primo Riformista, l’avevamo ribattezzato scherzosamente “Riformatorio”. Ma, in Italia, guai a fare battute: perché prima o poi si avverano.

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venerdì 25 ottobre 2019

Il club degli ex JP Morgan sale ai vertici delle società di Stato. - Alessandro Graziani



la nomina di Gorno Tempini alla presidenza di Cdp evidenzia anche la consacrazione definitiva della scuola degli ex banchieri di JP Morgan come principale serbatoio manageriale per le società pubbliche italiane. La lista dei banchieri ex JP passati alla guida di società pubbliche è ampia e destinata ad allungarsi.

Con il cambio alla presidenza della Cdp tra l'uscente Massimo Tononi e il «rientrante» Giovanni Gorno Tempini (ne era stato amministratore delegato dal 2010) si celebra anche il simbolico passaggio di consegne tra un ex banchiere di Goldman Sachs a favore di un ex di JP Morgan, che ormai sta diventando sempre più il main partner bancario internazionale dell'indebitato Stato italiano. Non solo agendo come collocatore dei titoli di Stato, ma anche come «serbatoio» manageriale - replicando il ruolo che McKinsey ebbe venti anni fa nelle aziende private - per ruoli apicali di società pubbliche. La lista degli ex JP Morgan è ampia. E potrebbe allungarsi con il possibile ritorno in Italia di Vittorio Grilli.

Tornando per un attimo a Cdp. La nomina del presidente della Cassa è statutariamente in capo alle Fondazioni (ex?) bancarie, azioniste di minoranza della Cassa con il 15,93% del capitale, che ancora gravitano in via maggioritaria intorno all’asse di potere tra Fondazione Cariplo-Intesa su cui ha ancora un “ascendente” l'inossidabile ticket tra l’ex presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti e l’ex presidente di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli. Entrambi politicamente vicini all'area dell’ex sinistra Dc guidata da Dario Franceschini, che ancora li rappresenta nel nuovo Pd di Governo.

Politica a parte, ma evitando di prescinderne poichè Cdp fa capo per l’82,7% al Ministero dell’Economia, la nomina di Gorno Tempini alla presidenza di Cdp evidenzia anche la consacrazione definitiva della scuola degli ex banchieri di JP Morgan come principale serbatoio manageriale per le società pubbliche italiane. La lista dei banchieri ex JP passati alla guida di società pubbliche è ampia e destinata ad allungarsi.

In Cdp il neo presidente Gorno Tempini ritroverà come amministratore delegato Fabrizio Palermo, che invece ha un passato in Morgan Stanley. Ma la lista dei banchieri “prestati” allo Stato che provengono dalla banca americana guidata da Jamie Dimon è lunga. A partire dall’amministratore delegato di Poste Italiane Matteo Del Fante, per 13 anni in JP Morgan e poi ai vertici di Terna prima di passare alla guida di Poste. Dove da un paio di anni è diventato “group cfo” Guido Maria Nola, ex country manager di JP Morgan per l'Italia. Tra i manager chiamati dallo Stato a guidare una società pubblica, c'è anche l'amministratore delegato di Mps Marco Morelli che è nato e cresciuto in JP Morgan (prima di passare a Intesa e poi a Bofa-Merrill Lynch). Dire che Jp Morgan stia diventando per le società pubbliche la “palestra” manageriale che è stata Mc Kinsey negli ultimi venti anni per banche e assicurazioni e' forse eccessivo.

È certo che con la temporanea uscita di scena di Tononi e prima di Claudio Costamagna, la generazione degli ex banchieri di Goldman Sachs nata con le privatizzazioni ha passato il testimone agli ex JP Morgan. Pattuglia che potrebbe rafforzarsi ulteriormente se anche l'ex direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, ora capo Europa e Middle East di JP Morgan, lasciasse Londra per tornare stabilmente in Italia (ha da poco comprato casa nel centro di Milano) entrando nella partita delle nomine ai vertici delle società pubbliche della primavera 2020.

Ma come si spiega l’ascesa degli ex JP Morgan ai vertici delle società statali italiani nell’ultimo decennio? JP Morgan è da sempre considerata un’istituzione finanziaria vicina ai Governi, in particolare di quelli che hanno un maxi debito pubblico da rifinanziare. Se fino all’inizio degli anni 2000 JP Morgan concorreva alla pari con le altre big americane sul mercato dei capitali, ormai da anni è diventata la big bank più grande del mondo occidentale (32,5 miliardi di utile nel 2018) con una capitalizzazione di Borsa che sfiora i 400 miliardi di dollari. Il suo contributo ai Governi iperindebitati può fare la differenza e di conseguenza i suoi suggerimenti, anche in politica economica, vengono tenuti nella giusta considerazione. Inutile dire che l’Italia è da anni un buon cliente per la banca Usa. Come dimostra la cosiddetta «operazione Cristal» finalizzata a favorire l’entrata dell’Italia nell’euro a fine ’99, rivelata per la prima volta nel febbraio del 2010 dal New York Times.

«Con l'aiuto di JP Morgan - scrisse il quotidiano americano - l'Italia riuscì nel suo intento. Nonostante alti deficit, un derivato attivato nel 1996 consentì di portare il budget italiano in linea con i parametri swappando valute con JP Morgan a un tasso di cambio favorevole e mettendo più soldi nelle mani del governo». L’aiuto non venne meno neanche durante la crisi del 2011, quando molte banche estere vendettero BTp e invece JP Morgan ne acquistò. Possibile che un Governo dipenda dai «desiderata» di una grande banca globale? Sicuramente no. Anche se qualche dubbio emerse nel maggio 2013 quando un corposo report di 4 analisti-economisti di JP Morgan scrisse che «i sistemi politici dei paesi del Sud Europa, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea». Probabilmente solo un «wishful thinking» di analisti. Anche se poi nel 2016 in Italia si svolse davvero un referendum per cambiare la Costituzione.

https://www.ilsole24ore.com/art/il-club-ex-jp-morgan-sale-vertici-societa-stato-AC9gWKu

Squadra che perde - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 25 Ottobre.

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Da quando il procuratore Giuseppe Pignatone ha raggiunto la meritata pensione, non si fa che invocare per la Procura di Roma la massima “continuità” con la sua mirabolante gestione, dipinta come una marcia trionfale da un successo all’altro. Tant’è che Marcello Viola, il successore più votato dal Csm, è stato impallinato da una campagna mediatico-giudiziaria sullo scandalo Palamara (capo di Unicost, che aveva votato un altro) per annullare la votazione, troppo “discontinua” per essere valida. Così ora è favorito Michele Prestipino, l’aggiunto prediletto di Pignatone. Noi ci siamo sempre domandati quali sarebbero gli strepitosi successi di Pignatone. Virginia Raggi, indagata dozzine di volte e sempre archiviata, finisce imputata per falso: purtroppo viene assolta. E vabbè, dài, capita. Paola Muraro viene indagata per 15 anni di consulenze all’Ama appena diventa assessore della Raggi. Il tempo di dimettersi e viene archiviata. E vabbè, dài, capita. Arrestato per corruzione Marcello De Vito, presidente 5S del Campidoglio: poi, dopo quattro mesi, la Cassazione dice che erano “solo congetture”.

De Benedetti chiama il broker Bolengo per ordinargli di investire nelle banche popolari, perché il premier Renzi gli ha confidato che sta per varare un decreto che ne farà volare le azioni: la Procura non indaga né Renzi né De Benedetti, ma solo il povero Bolengo, poi chiede di archiviare anche lui. Il gip lo manda a giudizio e ordina nuove indagini sull’ex premier e l’Ingegnere. E vabbè, dài, capita. La Procura di Napoli scopre che Alfredo Romeo, interessato ai mega-appalti Consip, incontra Tiziano Renzi e più spesso il fido Carlo Russo, a cui promette soldi per entrambi, poi tutto si blocca per fughe di notizie dal Giglio magico. Roma eredita il fascicolo e chiede di archiviare Tiziano e Romeo e processare Russo come millantatore e il capitano Scafarto come falsario. I gip invece prosciolgono Scafarto e rifiutano di archiviare Tiziano e Romeo. E vabbè, dài, capita. I giornaloni inventano un mega-complotto putinian-grillesco a colpi di tweet russi per far fuori Mattarella: la Procura mobilita l’Antiterrorismo, poi tutto finisce in fumo. E vabbè, dài, capita. Tanto c’è sempre Mafia Capitale, orgoglio e vanto di Pignatone&C: quelli che la lotta alla mafia sanno farla davvero. Purtroppo la Cassazione, come già la Corte d’assise, cancella la mafia. Ora Pignatone presiede il tribunale del Vaticano (auguri). Resta Prestipino, che giura: “La mafia a Roma esiste”. Certo, solo che non era quella lì. Noi restiamo curiosi: dov’è scritto che squadra che perde non si cambia? E continuità per continuare cosa?


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giovedì 24 ottobre 2019

Matteo Salvini descritto da Emilio Mola

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"Ho provato a licenziare Matteo Salvini per due volte" ha raccontato l'ex direttore de "La Padania" Gigi Moncalvo, nell'intervista di lunedì a Report.
"La prima volta - racconta - fu a cavallo delle feste di fine anno. Durante quei giorni, chi veniva a lavoro, riceveva il triplo della paga. Salvini in quei giorni non c'era a lavoro. Non era nemmeno reperibile dove avrebbe dovuto. Ma quando a fine mese arrivò il foglio delle presenze lui lo firmò lo stesso".
"La seconda volta fu quando scoprì che aveva falsificato quattro note per i rimborsi spesa. Quando glielo feci presente, a muso duro, lui mi rispose: tu passi, io resto. E credimi: diventerò sempre più potente".
E aveva ragione.
Quello che Report rivela nell'ora successiva a questa intervista, con tanto di documenti e dichiarazioni dei diretti interessati (russi e americani), avrebbe dovuto portare alla fuga di Salvini dall'Italia nascosto nel vano di una macchina, per evitare la ferocia della folla (la sua folla, quella patriota e col tricolore).
Ma per fortuna del Capitano, ai suoi italiani, a quelli che sventolano il tricolore e parlano di "Patria", dell'Italia e della Patria non è mai fregato un cazzo. E se gliene frega davvero, non hanno capito nulla di ciò che sta accadendo.
Proviamo a riassumerlo allora, per quanto sia vano.
Ciò che in breve viene a galla dalla puntata di Report (e dalle inchieste de L'Espresso), è che in Russia e negli USA operano uomini e gruppi estremamente potenti e ricchi, che hanno (per procura?) un unico grande obiettivo: dissolvere l'Unione Europea, perché d'ostacolo agli interessi globali delle due Super Potenze Straniere.
Come?
La soluzione è semplice. Sostenere in Europa gruppi e forze politiche che - spacciandosi per "nazionaliste" e "patriottiche" - facciano in realtà gli interessi delle due potenze straniere: denigrare e indebolire l'Europa dall'interno.
Il tutto facendo presa su ben determinate fasce della popolazione da manovrare con frasi semplici, foto, slogan, fake news, e alimentando sentimenti quali la paura, il vittimismo, la paranoia della minaccia esterna, il complottismo, la nostalgia, il tradizionalismo religioso, il nazionalismo.
E' il 2013.
Fino a quell'anno Matteo Salvini tiene ancora comizi contro l'Italia, per l'indipendenza della Padania, scrive sui social "Italia Paese di merda", insulta ancora i meridionali.
Poi, all'improvviso, in quell'anno, nel 2013, inizia la sua "strana" conversione.
Da storico anti-italiano diventa il più grande patriota italiano. Così, all'improvviso. E, guarda caso, l'anno successivo candida il suo partito alle Europee col nome di "Basta Euro".
Il 2013 è l'anno della sua elezione a segretario della Lega. E quel giorno, sul palco, sale a parlare un tizio che nessuno aveva mai visto prima: un russo, un certo Alexei Komov.
Che ci fa quel russo lì? Perché è lì?
A spiegarlo alle telecamere di Report è un altro russo, l'uomo che fu invitato (al posto di Komov) al congresso della Lega: il potentissimo Konstantin Malofeev, meglio noto come "l'Oligarca di Dio", miliardario e ultraconservarvore cristiano: "Avrei dovuto esserci io quel giorno - dice - Ma ebbi degli impegni e mandai in mia sostituzione Alexei Komov".
E perché, in Italia, avrebbe dovuto esserci al congresso della Lega lui, Malofeev, l'"Oligarca di Dio", il finanziatore di partiti di estrema destra anti-europei come il Fronte Nazionale di Le Pen in Francia (a cui, prima delle sanzioni, ammette di aver dato 2 milioni di euro)?
Il giornalista di Report lo chiede a Salvini. Che prima finge di non ricordare chi sia Kostantin Malofeev (meravigliosa l'espressione che fa), poi ammette di conoscerlo, ma rinvia l'intervista: alla quale, ovviamente, non si presenterà più.
Malofeev invece risponde, e racconta di aver incontrato l'ultima volta Salvini poco prima della sua nomina a vicepremier, lo scorso anno.
Durante l'intervista Malofeev esplicita il suo pensiero. Degli omosessuali dice: "E' la Lobby dei Sodomiti e dei Pederasta. E' colpa dei gay pride se sempre a più maschi piacciono altri maschi".
E delle donne cosa ne pensa? "Il loro ruolo è essere amate dai mariti. Non dovrebbero lavorare e restare a casa. Il loro ruolo deve essere di casalinghe e madri. Solo donne non amate e infelici diventano femministe".
Ma Salvini condivide i suoi valori? "Certo - risponde Malofeev - il suo discorso a Verona è stato magnifico".
E cosa disse Salvini a Verona un anno fa, durante il congresso mondiale sulle famiglie? "Mi incuriosiscono queste cosiddette femministe che se io fossi donna mi metterebbero in difficoltà".
Che strana questa improvvisa avversione per le femministe.
Ma c'è un'altra coincidenza.
Malofeev è un ultra-conservatore cristiano, principale finanziatore (per decine di milioni di euro ogni anno) della "Fondazione San Basilio il Grande".
Quell'anno, il 2013, Malofeev vola negli USA, dove crea con altri ricchi gruppi fanatici-cristiani americani una "Santa Alleanza" cristiana. E dagli USA ecco che arrivano finanziamenti alle fondazioni "cristiane" europee, per centinaia di milioni di euro. Le quali, politicamente, si schierano in Europa con i partiti anti-europei.
In Italia, all'improvviso, sui palchi e sui social del Capitano Matteo Salvini, iniziano a comparire sempre più spesso Vangeli, Madonne, appelli ai Santi, al Cuore di Maria, crocefissi, rosari.
Sarà un caso, ma dal 2013 in poi, tutto ciò che Malofeev vuole, lo vuole anche Matteo Salvini.
Tutto ciò che a Malofeev interessa (distruggere la comunità gay, ridimensionare il ruolo della donna, distruggere l'Europa, eliminare le sanzioni contro la Russia, il ritorno dei nazionalismi in Europa, la promozione di una propaganda cristiana e fanatica basata sul culto degli oggetti e non del messaggio cristiano, la critica a Papa Francesco, la mitizzazione di Putin, l'avvicinamento dell'Italia alla Russia), trova in Salvini e/o nella Lega una propaggine completamente in sintonia.
Salvini potrebbe chiarire, smentire, correggere. Magari rispondere sul perché il suo braccio destro in Russia Savoini trattasse con i russi affari da milioni di euro. Perché avesse detto di non sapere che Savoini fosse con lui, quando poi foto e video lo hanno smentito.
Non lo ha mai fatto: né in Parlamento né coi giornalisti.
Liquida le domande con battute, ma non risponde mai.
Consapevole di aver ormai plasmato e anestetizzato il suo elettorato, tanto da poter fare e non fare quel che gli pare, senza doverne più rispondere.

Sanno quello che fanno - Marco Travaglio - IFQ - 24 OTTOBRE 2019


Siccome non c’è limite al peggio, la Corte costituzionale ha seguito quelle europee e ha deciso che in Italia l’unico ergastolo possibile è quello finto. In tutto il mondo, da che mondo è mondo, l’ergastolo significa “fine pena mai”. Da noi invece “fine pena forse”. Tant’è che nel 1992, dopo Capaci e di via D’Amelio, si dovette escogitare la ridicolaggine dell’“ergastolo ostativo” per affermare un principio che dovrebbe essere ovvio: l’ergastolo è incompatibile con permessi, sconti di pena e altre scappatoie, per tener dentro a vita almeno qualcuno, cioè i criminali più pericolosi, irriducibili e irredimibili (mafiosi e terroristi). L’8 ottobre i giudici di Strasburgo avevano bocciato questa norma di puro buonsenso e tutti avevano spiegato che, essendo provenienti perlopiù da Paesi immuni dalla mafia, non sanno che un mafioso è per sempre, salvo che parli o muoia. E ritenere l’ergastolo vero come una negazione del principio di rieducazione della pena è una doppia fesseria: intanto perché uno può rieducarsi restando in carcere (ci sono svariati casi di ergastolani che lavorano, studiano, si laureano senza mettere piede fuori); e soprattutto perché per redimersi davvero il mafioso deve innanzitutto recidere i legami col suo clan, e può farlo solo se collabora.
Ma questi elementari principi sembrano sfuggire anche ai giudici costituzionali italiani, che un’idea della cultura e della prassi mafiosa dovrebbero averla. Quindi sanno quello che fanno. Perciò la loro sentenza è ancor peggio di quella europea: perché non può essere giustificata neppure con l’ignoranza. Affidare alla discrezionalità dei giudici la decisione pro o contro un permesso premio a un mafioso irriducibile li espone a lusinghe, minacce e vendette mafiose: se oggi nessun ergastolano “ostativo” ottiene permessi premio è perché la legge li vieta; domani gli ergastolani “ostativi” (tipo i fratelli Graviano, condannati per tutte le stragi del 1992-’94) chiederanno permessi e, se non li otterranno, sarà “colpa” del giudice che li ha negati pur potendoli concedere. Dunque proveranno a comprarlo e a intimidirlo e, in caso di diniego, a punirlo. L’accesso ai permessi premio è la prima breccia nel muro finora impenetrabile del decreto Scotti-Martelli (41-bis, ergastolo vero e benefici ai pentiti) battezzato 27 anni fa col sangue di Falcone, di Borsellino e delle altre vittime delle stragi. Un muro che i boss provano da allora a scalfire con le buone (la trattativa) e con le cattive (le bombe, le minacce e i ricatti). Dopo Capaci e via D’Amelio, il Ros domandò a Riina, tramite Ciancimino, cosa volesse per una tregua.
E il boss rispose con un papello di richieste: via l’ergastolo, il 41-bis, i pentiti, le supercarceri di Pianosa e Asinara. Nel ’93 il 41-bis fu ammorbidito, con la cacciata del capo del Dap Niccolò Amato e la revoca del carcere duro a 334 mafiosi. Nel ’94 B. tentò col decreto Biondi di abolire l’arresto obbligatorio per i reati di mafia, poi la norma fu bloccata da Bossi e Fini (perché liberava anche i mazzettari di Tangentopoli); ma nel ’95 fu approvata da destra e sinistra insieme. Nel ’97 il centrosinistra chiuse Pianosa e Asinara, nel ’99 abolì l’ergastolo per due anni, poi nel 2001 ci ripensò, ma in compenso introdusse i benefici e aumentò i limiti ai pentiti. Poi tornò B. e i suoi uomini al Dap aprirono alla “dissociazione” dei boss irriducibili (benefici senza confessare nulla né denunciare nessuno), ma furono bloccati. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella, cognato di Riina, prese la parola in un processo, collegato dal carcere dell’Aquila, e lesse un comunicato a nome degli altri detenuti in sciopero della fame contro i politici che non mantenevano “le promesse” sul 41-bis: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Con chi ce l’aveva? Lo svelò il Sisde: Cosa Nostra minacciava di tornare a sparare, stavolta senza “fare eroi”: “L’obiettivo potrebbe essere una personalità della politica percepita come compromessa con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica”. Chi? Il Sisde mise subito sotto scorta Dell’Utri e Previti.
Il 19 dicembre 2003 il governo B. riformò il 41-bis, rendendone più facili le revoche. Ma i mafiosi lo volevano proprio abolito. Il 22 dicembre allo stadio di Palermo, durante la partita fra la squadra di casa e l’Ascoli (il club della città dov’era detenuto Riina), comparve un mega-striscione: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. La risposta arrivò nel 2006, in campagna elettorale, quando B. esaltò Mangano come “eroe”. Ma evidentemente le promesse erano ben altre. Ancora nel 2016-2017 Giuseppe Graviano si sfogava col compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi: nel 1992 “Berlusca” gli aveva chiesto “una cortesia” (le stragi?) perché aveva “urgenza di scendere” in campo e “lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. E accusava B. di ingratitudine: “Pigliò le distanze e ha fatto il traditore… 25 anni fa mi sono seduto con te, giusto è?… Traditore… pezzo di crasto… ma vagli a dire com’è che sei al governo… Ti ho portato benessere. Poi… mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi… Dice: non lo faccio uscire più e sa che io non parlo perché sa il mio carattere e sa le mie capacità… Mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta… Alle buttane glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso… e tu mi stai facendo morire in galera…”. Graviano affidava poi ad Adinolfi – in procinto di uscire – un messaggio ricattatorio per un misterioso intermediario col mondo berlusconiano a Milano2. E discuteva col compare dell’opportunità o meno di dire ai magistrati tutto ciò che sa. Ma sbagliava destinatario. Bastava aspettare le due Corti. Quod non fecerunt berluscones, fecerunt ermellini.

mercoledì 23 ottobre 2019

“Il Vaticano è a rischio fallimento finanziario”: tra malumori e tradimenti, come è fallita la rivoluzione promessa da Papa Francesco. - Francesco Antonio Grana

“Il Vaticano è a rischio fallimento finanziario”: tra malumori e tradimenti, come è fallita la rivoluzione promessa da Papa Francesco

In 'Giudizio Universale' (edito da Chiarelettere) il giornalista Gianluigi Nuzzi svela i documenti riservati che testimoniano la difficile situazione economica in cui versano le casse della Santa Sede. Sullo sfondo, il clima torbido che si vive nei sacri palazzi e che emerge nelle carte segrete pubblicate dall'autore del libro.
Il Vaticano è a rischio default. Se entro il 2023 i conti non saranno risanati la Santa Sede potrebbe essere travolta da un crac finanziario. È quanto emerge dai documenti pubblicati nel nuovo libro di Gianluigi NuzziGiudizio universale, edito da Chiarelettere. Un volume che, proprio come i precedenti scritti dal giornalista sul Vaticano, svela retroscena inediti e a dir poco inquietanti della vita dei sacri palazzi. Un testo che arriva mentre il Papa è alle prese con il Sinodo speciale dei vescovi sull’Amazzonia che il 26 ottobre 2019 sarà chiamato a decidere se dare il via libera ai cosiddetti “viri probati. Ovvero uomini sposati che vengono ordinati preti senza lasciare la loro famigliaMa anche dall’indagine immobiliare che ha travolto la Segreteria di Stato e ha già costretto alle dimissioni l’ormai ex comandante della Gendarmeria Vaticana, Domenico Giani.
“La situazione – spiega Nuzzi – è sicuramente peggiorata rispetto a quando il predecessore di Francesco, Benedetto XVI, ha deciso di fare un passo indietro. Tutti i parametri sono precipitati, per esempio all’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, ndr) i parametri dei risultati operativi presentano crolli anche oltre il 60 per cento. Però io credo che il Santo Padre sia determinato a invertire la china rispetto a quella che non è una ferita ma una emorragia. Come? Gli strumenti che ha sono insufficienti. Secondo me siamo di fronte a un collasso del management della Curia, gli strumenti sono vetusti, lo dicono i documenti, ancora si utilizzano trascrizioni manuali dei numeri in epoca di intelligenza artificiale, c’è una parcellizzazione delle competenze e c’è inadeguatezza della classe dirigente, questo lo dicono loro stessi”.
Secondo il giornalista “c’è anche una situazione economica negativa perché le offerte sono precipitate ed è evidente dalle carte l’inefficienza della gestione del patrimonio immobiliare. All’Apsa, ad esempio, il 40 per cento non dà reddito, un dato che sarebbe insopportabile per qualunque tipo di finanza. Quella annunciata rivoluzione della gestione delle case non si è realizzata”. Per Nuzzi “la situazione è tale per cui di recente, nel 2018, si era deciso di vendere gioielli di famiglia, vendere ad esempio alle porte di Roma, la proprietà di Santa Maria di Galeria, 424 ettari, e il Papa ha detto che c’era un problema reputazionale, ha detto, sono contrario a un utilizzo speculativo del territorio finalizzato alla mera massimizzazione dei profitti. Qui rientra la dottrina della Chiesa, il rischio, la paura di un danno reputazionale ha portato a congelare quella operazione”.
Nel volume non c’è solo economia. Nuzzi riesce a dare al lettore una fotografia del clima torbido che si respira in Vaticano. L’insoddisfazione per le politiche di Bergoglio, non solo in campo finanziario, hanno creato negli ultimi anni del pontificato numerosi malumori e tradimenti da parte dei più stretti collaboratori del Papa. In questo senso è abbastanza significativa la ricostruzione che il giornalista fa, sempre documenti alla mano, della vicenda della lettera taroccata di Benedetto XVI. Vicenda che ha portato alle dimissioni del primo prefetto del Dicastero per la comunicazione, monsignor Dario Edoardo Viganò, sostituito da Paolo Ruffini, primo laico al vertice di un organismo della Curia romana.
“Caro Dario hai fatto purtroppo un pasticcio molto grande. Mi dispiace. GG”, scrive a Viganò monsignor Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare di Benedetto XVI. Puntuale la replica: “Ma come? Ho letto il pezzo su cui avevamo preso accordi agli esercizi. Questo dimostra anzi come questa gente non voglia bene a Benedetto e lo usino come bandiera. Mi dispiace che tu pensi così. Abbiamo fatto bene i passi insieme e condiviso cosa fare. Perché mi dici questo? Comunque ora sono verso aeroporto ma domani torno e se credi ci sentiamo. D”. Al che Gänswein risponde: “Ne parleremo. La ‘manipolazione’ della foto della lettera ha creato guai. Questo non abbiamo concordato. Buon viaggio, a domani. GG”. Al Papa e alla Segreteria di Stato monsignor Viganò scrive di aver letto la lettera di Benedetto XVI “nella modalità concordata” con monsignor Gänswein e aggiunge: “È evidente che se Sua Eccellenza fosse intervenuto per spiegare che non era stata compiuta nessuna mistificazione avrebbe chiuso il caso”.
Nuzzi, attraverso il suo legale, ha voluto depositare al promotore di giustizia della Santa Sede la prima copia di Giudizio universale affinché valuti se i fatti raccontati nel libro hanno rilievi penali. Nel 2015 il giornalista fu processato in Vaticano, insieme al collega Emiliano Fittipaldi, proprio perché entrambi avevano pubblicato due volumi con alcuni documenti riservati della Santa Sede. Dopo nove mesi di processo, entrambi furono prosciolti per difetto di giurisdizione. Alla vigilia della prima presentazione di Giudizio universale c’è stato anche chi Oltretevere ha sollevato un vero e proprio “caso diplomatico”. Tra i relatori, infatti, era previsto il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio. Una presenza non gradita nei sacri palazzi che, secondo alcune persone vicine a Casa Santa Marta, la residenza di Bergoglio, avrebbe addirittura potuto minare le relazioni tra l’Italia e la Santa Sede. Lo staff di Di Maio ha fatto sapere che il capo della Farnesina sarà assente perché impegnato nel Consiglio dei ministri. Con buona pace del Vaticano.