giovedì 23 aprile 2020

Coronavirus, il punto sugli aiuti ai cittadini: 600 euro per 3,5 milioni di autonomi, cassa arrivata solo se l’ha anticipata l’azienda. Flop della sospensione dei mutui e 300mila richieste di prestito. - Chiara Brusino

Coronavirus, il punto sugli aiuti ai cittadini: 600 euro per 3,5 milioni di autonomi, cassa arrivata solo se l’ha anticipata l’azienda. Flop della sospensione dei mutui e 300mila richieste di prestito

Ancora in fase di accertamento 900mila domande di bonus per gli autonomi, mentre per gli iscritti alle casse private i soldi stanziati non bastano. Solo 30mila domande per lo stop alle rate dei mutui. I prestiti fino a 25mila euro sono stati chiesti nei primi due giorni da almeno 300mila piccole imprese, ma solo un migliaio hanno già avuto i soldi (e qualche banca ha finito il plafond). Intanto i 9 milioni di dipendenti fermi o con l'orario ridotto attendono gli ammortizzatori: secondo i Consulenti del lavoro sono 4 milioni hanno ricevuto qualcosa. La cassa in deroga è gestita dalle Regioni, Sicilia e Sardegna non hanno ancora dato il via libera.
L’attesissimo decreto Aprile con il reddito di emergenza per chi finora non ha avuto altri aiuti approderà in consiglio dei ministri, se va bene, il 30 del mese. Ma gli altri sussidi e ammortizzatori, i prestiti e le agevolazioni per chi a causa del coronavirus non sta lavorando sono arrivati a destinazione? Per ora solo in piccola parte. A dispetto della pessima partenza con il crash del sito Inps, i primi a ricevere concretamente un versamento sul conto corrente – subito dopo Pasqua, a cinque settimane dall’inizio del lockdown – sono stati 3,5 milioni di autonomi, partite Iva e stagionali che avevano chiesto l’indennità di 600 euro. Ma centinaia di migliaia di domande sono ancora in fase di accertamento. In questi giorni poi sono stati erogati i primi piccoli prestiti con il 100% di garanzia pubblica. Ancora pochi. Quanto alla cassa integrazione, invece, i soldi non si vedranno prima di maggio: hanno incassato qualcosa solo i dipendenti di aziende che avevano liquidità sufficiente per anticipare l’assegno.
In 3,5 milioni hanno ricevuto i 600 euro – A fronte di una platea di 5 milioni di potenziali beneficiari dell’indennità mensile da 600 euro prevista dal decreto Cura Italia, l’Inps ha ricevuto 4,4 milioni di richieste e ha versato i soldi a 3,5 milioni di persone tra liberi professionisticommercianti, collaboratori coordinati e continuativi, stagionali e lavoratori dello spettacolo. Altri 900mila però sono ancora in attesa e per loro le prospettive non sono buone. “Per la maggior parte saranno rifiutati“, ha detto lunedì in audizione Pasquale Tridico. “Perché ci sono circa 250mila Iban sbagliati che non corrispondono e anzi potrebbero essere fraudolenti” e circa “400mila non hanno i requisiti“: tra loro gli stagionali con contratti diversi da quello del turismo, i lavoratori dello spettacolo che non hanno sufficienti giorni di contribuzione (almeno 30 nel 2019), i beneficiari di reddito di cittadinanza, i dipendenti che svolgono anche un lavoro a partita iva.
Poi ci sono gli autonomi iscritti alle casse private, dagli avvocati agli ingegneri ai giornalisti: per loro c’è il paletto del reddito – non deve aver superato i 50mila euro nel 2018 e deve essere stato fortemente ridotto dall’emergenza – e sono stati stanziati solo 200 milioni, sufficienti per 333mila erogazioni. Ma le richieste sono state oltre 450mila. Se ne riparla con il prossimo decreto.
Pochissime richieste di sospensione delle rate del mutuo: troppi paletti? – Stando agli ultimi dati del Tesoro, che risalgono però al 14 aprile, la sospensione delle rate del mutuo prima casa attraverso il fondo Gasparrini è stata chiesta alla banca solo da 30mila famiglie. Un numero molto basso se si pensa che gli italiani con un prestito per l’acquisto della casa sono milioni e la stessa relazione tecnica al decreto Cura Italia ipotizzava almeno 300mila beneficiari tra i dipendenti che subiscono una riduzione dell’orario di lavoro e 235mila tra i lavoratori autonomi (prima esclusi da questa possibilità). In attesa che il ministero renda disponibili i numeri aggiornati, va detto che possono aver pesato i paletti che tagliano fuori chi ha già usufruito di agevolazioni pubbliche per il mutuo come la garanzia Consap, i dipendenti che non sono fermi da almeno 30 giorni e gli autonomi che non hanno perso almeno il 33% del fatturato rispetto all’ultimo trimestre 2019. Quindi anche quelli che hanno aperto la partita Iva da poco e un fatturato l’anno scorso non lo avevano. Va poi ricordato che per chi è in affitto non c’è alcun aiuto e il Cura Italia non ha previsto rinvii per le rate dei prestiti personali. Solo il 22 aprile l’Abi ha fatto un accordo con le associazioni dei consumatori che consente di sospendere fino a 12 mesi il rimborso del capitale: non c’è ancora l’elenco delle banche che accetteranno di aderire.
Almeno 300mila domande di piccoli prestiti, solo un migliaio già erogati – Le attività sono ferme da settimane e la liquidità è agli sgoccioli. Così solo tra 20 e 21 aprile, le prime giornate utili, sono state almeno 300mila le domande di finanziamenti fino al 25% dei ricavi per un massimo di 25mila euro con garanzia pubblica presentate da aziende con meno di 499 dipendenti e partite Iva. E a una settimana dalla pubblicazione del modulo sul sito del Fondo di garanzia sono stati già erogati i primi prestiti: 1.055, secondo il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli. Stando al decreto Liquidità vanno deliberati subito senza alcuna valutazione sul merito di credito. Ma non tutto fila liscio: alcuni istituti chiedono di compilare documentazione aggiuntiva e, burocrazia a parte, le imprese segnalano diversi problemi. Come i tassi di interesse ben più alti di quanto si aspettavano. Il rifiuto del prestito a chi non è già correntista. E il fatto che chi ha un’esposizione nei confronti dell’istituto si è visto a volte “proporre” di utilizzare i nuovi fondi per rientrare, col risultato che solo una parte dei 25mila euro arriverà effettivamente sul conto per sostenere l’attività. Del resto il decreto lascia ampi margini: prevede esplicitamente che “diventano ammissibili le operazioni finalizzate all’estinzione di finanziamenti erogati dalla stessa banca, a condizione che ci sia erogazione di credito aggiuntivo pari ad almeno il 10% del debito residuo“.
Resta poi l’incognita risorse, perché gli 1,7 miliardi stanziati finora per le garanzie possono coprire non più di 340-350mila domande. La Banca Popolare di Bari ha già comunicato di aver finito il plafond. Serve un nuovo stanziamento, ma dovrà attendere una nuova autorizzazione del Parlamento ad aumentare il deficit e il successivo varo del decreto Aprile. Per le aziende più grandi la garanzia, concessa nel loro caso da Sace, va dal 70 al 90% e l’istruttoria è più lunga perché servono tutti gli usuali controlli e verifiche.
La Cassa integrazione può attendere – Gli ultimi dati Inps si fermano al 10 aprile e parlano di 4,6 milioni di richieste di cassa integrazione. Ma secondo i Consulenti del lavoro, che operano come intermediari con l’Istituto di previdenza, oggi sono 9 milioni i lavoratori fermi o con l’orario ridotto che hanno quindi bisogno di ammortizzatori, che siano le nove settimane di cig con causale Covid, la cassa in deroga gestita dalle Regioni o gli assegni dei fondi di integrazione salariale. “Circa 4 milioni stanno ricevendo l’anticipo dell’ammortizzatore dalla loro azienda”, spiega Marina Calderone, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti. “Gli altri sono in attesa dei bonifici Inps, ma i tempi sono lunghi: se ne parla non prima di metà maggio“.
Particolarmente accidentato, come i Consulenti segnalano fin dall’inizio, il percorso per la cassa in deroga che copre tra l’altro i dipendenti delle aziende più piccole e interessa almeno 3 milioni di persone: l’acquisizione e valutazione delle domande spetta alle Regioni, che poi girano l’esito all’Inps. L’iter è lento e “ad oggi”, dice Calderone, “ci risulta che da Sicilia e Sardegna non siano ancora arrivate le autorizzazioni”, che sono solo il primo passo. Ma non si può chiedere l’anticipo alla banca? “Vale solo per chi è in cassa a zero ore”, spiega Calderone. “E lo stanno chiedendo in pochi perché servono ben otto documenti e non tutti sono in grado di fare la procedura per via telematica ora che andare allo sportello è complicato” e richiede un appuntamento.

Il piano della task force: poche riaperture e cautela. - Paola Zanca

Il piano della task force: poche riaperture e cautela

Dal 4 maggio - Tornano al lavoro meno di tre milioni di italiani, un terzo del totale: il gruppo di esperti guidato da Vittorio Colao consegna al premier la sua relazione.
Quattro pagine e un diagramma di flusso: uno schema esclusivamente mirato alla riapertura di una serie di attività produttive, il prossimo 4 maggio. E che – “se funziona” – potrà essere poi applicato in futuro per allargare la cerchia a quei settori economici che ancora devono rimanere chiusi. Così ha lavorato la task force guidata da Vittorio Colao, che ieri ha consegnato la sua prima relazione al presidente del Consiglio. Un lavoro fatto in una settimana, confrontando documenti, protocolli e altre esperienze extra-nazionali, ma che di fatto non entra nel merito di molte scelte che ora toccheranno alla politica. In pratica il primo passo con cui la fase 2 si mette in moto, non certo il ritorno alla normalità. E che riguarderà poco meno di 3 milioni di lavoratori, un terzo di quelli attualmente sospesi dall’emergenza coronavirus.
NIENTE “LIMITI”
Il premier boccia l’idea di tenere a casa gli over 60. Ancora nessun accordo sui trasporti.
D’altronde, al termine di una giornata di riunioni con i rappresentanti delle task force, i capidelegazione della maggioranza, le parti sociali e gli enti locali, è la stessa Presidenza del Consiglio a chiarire che tra due lunedì non ci sarà nessuno “stravolgimento”: la fase 2 comincia, ma nessuno immagini di tornare alla vita che faceva a febbraio. Già domani il premier dovrebbe essere pronto a illustrare agli italiani il dettagliato piano che allenterà – ma solo un po’ – le misure imposte dal decreto in vigore. Tornano al lavoro le aziende manifatturiere e quelle edili, riapre qualche negozio, si stempera leggermente l’imperativo del “restate a casa”, ma di fatto la parola d’ordine resta la solita: prudenza.
Perché le indiscrezioni che in questi giorni hanno riguardato le nuove misure del lockdown rischiavano di far passare il messaggio che il peggio è passato. E, purtroppo, così ancora non è. Non che si fosse parlato del ritorno alla normalità, sia chiaro: le passeggiate al massimo in due, la mascherina ovunque, le metropolitane con i distanziometri a terra, niente viaggi extra-regione. Eppure, il rischio che segnali di distensione eccessivi facciano breccia nell’opinione pubblica è avvertito un po’ da tutti: da Palazzo Chigi, dalla task force, figuriamoci dal comitato tecnico scientifico che rappresenta gli scienziati. E che infatti ieri sera ha invitato tutti a rispettare la “gradualità” delle riaperture.
Sarà così, d’altronde, anche secondo gli esperti che hanno scritto il primo paper per la fase 2: la mission che Conte gli aveva affidato era circoscritta, per il momento, all’organizzazione delle attività produttive costrette alla convivenza con il virus. Per questo i tecnici si sono concentrati sugli strumenti di “rarefazione” del numero di persone nei luoghi di lavoro: lo smart working innanzitutto, ma anche una tabella oraria che permetta di non concentrare nelle medesime fasce della giornata l’ingresso e l’uscita da fabbriche, uffici e negozi.
Un tema, come vi abbiamo raccontato più volte, che si incrocia inevitabilmente con quello dei trasporti: non ci sono ancora soluzioni sulla nuova organizzazione dei mezzi pubblici. Per ora, la previsione e l’auspicio, è che chi torna al lavoro non li usi proprio: la task force ha elaborato dei flussi secondo cui, con la riapertura delle attività del 4 maggio, autobus e treni resteranno più o meno vuoti come adesso, anche perché si tratta di imprese dislocate fuori dalle città. Il tema del trasporto pubblico si porrà con la ripresa della vita sociale che, ribadiamo, non è in programma per le prossime settimane. E riguarderà anche una questione sollevata ieri dalla sindaca di Roma Virginia Raggi: il “ristoro” dei mancati introiti di questi mesi. Nel capitolo dedicato ai trasporti della relazione consegnata ieri, comunque, si fa riferimento anche all’incentivo di nuove forme di mobilità, come la bici elettrica (non proprio la soluzione per Roma).
La cornice di ogni ragionamento, come ovvio, resta il controllo della curva epidemiologica: sono stati predisposti alcuni indicatori, delle clausole di salvaguardia, superati i quali si tornerà a provvedimenti restrittivi. Anche per questo i tecnici della task force avevano inserito un consiglio: vietare la ripresa del lavoro a chi ha più di 60 anni. Non solo perché si tratta della categoria più a rischio, ma anche perché è quella che – se si ammala – necessita con maggior probabilità del ricovero in terapia intensiva e rischia così di mandare di nuovo in sofferenza le strutture ospedaliere.
È l’unica misura, però, che Conte in persona ha bocciato: indigeribile per l’opinione pubblica italiana che ha pur sempre un terzo di popolazione in quella fascia d’età, tuttora attiva in molti servizi e professioni.

Il sottobosco cristiano neofascista. - Tommaso Merlo

Menzogne? Salvini e Meloni contro il comizio di Conte a reti ...
Dietro al duo Meloni&Salvini si nasconde un inquietante sottobosco cristiano neofascista. Fanatici fautori di un micidiale cocktail di bigottismo ultraconservatore ed idee di estrema destra che vorrebbe addirittura sbarazzarsi di Bergoglio perché considerato una specie di comunista internazionale. Non è una barzelletta. È un’inchiesta di Report fatta di personaggi ambigui, soldi, associazioni, rapporti e fake news ad orologeria. Un sottobosco che agisce nell’ombra. Ed è questo l’aspetto inquietante. Fa solo pena chi farnetica che la pandemia sia colpa del Papa argentino o delle lobby gay o che si debba tornare al Medioevo religioso. Ma se i cittadini sono all’oscuro di votare per partiti che sostengono quelle idee, allora è un grave problema democratico. I cittadini hanno diritto all’assoluta trasparenza e verità, altrimenti si prefigura una truffa ai loro danni. Il problema è che se Meloni&Salvini dichiarassero apertamente le proprie simpatie cristiano neofasciste tornerebbero alle percentuali intorno al cinque percento con cui hanno galleggiato per anni prima della scomparsa di Berlusconi. Il loro successo lo devono alle macerie di Forza Italia e all’aver intercettato quell’elettorato più “moderato” che se scoprisse di essere scivolato nell’estremismo cristiano neofascista scapperebbe a gambe levate. Da una parte le proprie idee, dall’altra il mercato elettorale. Da una parte la coerenza, dall’altra la lotta per il potere. Salvini è considerato un idolo dai suoi alleati neofascisti europei proprio per questo. Perché sembrava aver trovato una formula propagandistica magica per sdoganare le sue idee estremiste al grande pubblico. Quando Salvini bacia il rosario o prega la Madonna in televisione manda un messaggio alle nonne che lui è un bravo ragazzo, ma ammicca anche al sottobosco cristiano neofascista. Un sottobosco che sa di essere impresentabile e allora agisce nell’ombra, s’infiltra nei partiti sovranisti esistenti e li sfrutta come piedi di porco per scassinare il sistema centimetro dopo centimetro. Il loro obiettivo è ostacolare i progressi sui diritti civili che per loro sono sterco di satana, far saltare l’Europa che ostacola i loro rigurgiti nazionalistici, fermare l’invasione dei negri che minaccia la loro razza superiore, osteggiare i progressi generati dalla globalizzazione e tornare alle tradizioni tribali. Per riuscire nei loro intenti retrogradi, il sottobosco neofascista vorrebbe sfruttare politicamente perfino Dio. E quindi trama per una chiesa bigotta e ultraconservatrice al servizio delle loro battaglie politiche. Un progetto politicamente folle. La storia non mette mai la retromarcia e l’evoluzione delle società non la manipoli a tavolino o con qualche gioco sporco. Chi ci ha provato ha solo ricoperto il mondo di sangue. L’arma migliore per difendersi da certe farneticazioni, è l’assoluta trasparenza. E’ costringere il sottobosco cristiano neofascista ad uscire alla luce del sole. In modo che i cittadini sappiano con assoluta chiarezza cosa vi sia alle spalle dei politici e dei partiti sulla scena e possano così votare consapevolmente di conseguenza.

Coronavirus, è il giorno del summit Ue.

Coronavirus, è il giorno del summit Ue

Tra i leader dei Paesi membri dell'Ue, anche quelli del Nord, si sta delineando un "consenso" sulla necessità di avere uno strumento ad hoc che consenta di affrontare la crisi che si sta abbattendo sul Continente per via del blocco delle attività economiche indotto dalla pandemia di Covid-19. A confermarlo è un alto funzionario Ue, in vista del Consiglio europeo di oggi.

I leader dovrebbero dare all'Eurogruppo l'incarico di finalizzare entro inizio giugno il lavoro sul piano Sure, sul piano della Bei per le imprese e sulle linee di credito del Mes, e alla Commissione di elaborare una proposta per creare il Recovery Fund, destinato ad aiutare gli Stati membri ad affrontare la crisi. Non sono previste conclusioni del Consiglio europeo, ma solo una dichiarazione del presidente Charles Michel.
"L'idea che serva uno strumento speciale per affrontare questa crisi inizia ad essere consensuale", spiega la fonte. L'idea del Recovery Fund è condizionata al fatto che dia agli Stati membri prestiti, e non trasferimenti; gli Stati del Sud, che temono un'esplosione dei rispettivi debiti, insisteranno probabilmente per avere anche una quota di trasferimenti.
Ieri il vicepresidente del gruppo del Ppe nel Parlamento europeo, lo spagnolo Esteban Gonzalez Pons, ha detto chiaramente che la Commissione europea "dovrebbe chiedere i soldi necessari ai mercati, in maniera che non ci sia bisogno di aumentare il debito nazionale di nessun Paese". Una posizione in linea, in nome dell'interesse nazionale, con quella del governo del socialista Pedro Sanchez, che nel suo non-paper ha chiesto che il fondo effettui solo trasferimenti, e non prestiti, finanziati tramite l'emissione di bond perpetui, le cui cedole andrebbero finanziate tramite un aumento delle risorse proprie Ue.
Per l'alto funzionario, l'idea del "debito perpetuo è difficile da digerire in alcuni Stati membri, per una questione di principio. Ogni leader ha la sua opinione pubblica interna e deve affrontare i suoi problemi domestici". Tuttavia, l'idea di emettere prestiti agli Stati "a lunga scadenza ha buone chance" di essere accettata.
Quanto all'idea di emettere debito in comune, continua la fonte, "è un'espressione che non passa in certi Parlamenti". I leader "hanno la coscienza della necessità del progetto europeo, ma c'è anche la dimensione nazionale" e "il debito in comune non è un'espressione in grado di ottenere l'unanimità" nel Consiglio Europeo.
L'articolo 122 del Tfue, che potrebbe fornire la base giuridica necessaria al Recovery Fund, "è già stato utilizzato in passato", durante la crisi finanziaria, ma "è eccezionale" e ha "durata limitata". Si potrà concepire "uno strumento che ci si avvicini", ma "questa dizione non la troverete in un documento del Consiglio".
Il Recovery Fund che la Commissione dovrebbe proporre il 29 aprile, a quanto è stato affermato ed è trapelato finora, potrebbe essere basato sull'articolo 122 del Tfue, sul modello che verrà utilizzato per il programma Sure. La Commissione cioè raccoglierà fondi sul mercato, emettendo obbligazioni a lungo termine, e girerà i fondi così raccolti agli Stati sotto forma di prestiti back-to-back, a lunga scadenza e con interessi bassi.
La Commissione, in questo scenario, dovrebbe utilizzare in una prima fase garanzie fornite dagli Stati membri, che successivamente verrebbero gradualmente sostituite da risorse del bilancio Ue. Per questo, una delle vie potrebbe essere quella di sfruttare il cosiddetto headroom, che sarebbe la differenza tra impegni, che dovrebbero essere alzati, forse al 2% del Reddito Nazionale Lordo, e pagamenti.
L'Mff, o Qfp, non è un bilancio che dura per sette anni, ma piuttosto un quadro finanziario: fissa il tetto massimo di spesa per l'Ue per i diversi capitoli e anche il tetto massimo per l'ammontare dei pagamenti che l'Ue può fare in un anno. Il bilancio vero e proprio, poi, all'interno del quadro fornito dall'Mff, viene negoziato di anno in anno.
Ora, a quanto si è capito, l'idea, a medio termine, sarebbe quella di alzare il tetto degli impegni, e non quello dei pagamenti. Anche il fatto che Ursula von der Leyen abbia spesso insistito, descrivendo l'Mff che ha in mente, sull'aggettivo "frontloaded", traducibile in italiano con "ad avancarica", fa supporre che il grosso degli impegni possa essere concentrato sui primi due o tre anni del settennio, fornendo un delta su cui fare leva.
Proprio il delta tra gli impegni e pagamenti, fondi giuridicamente esigibili ma non effettivamente versati, potrebbe fornire la base per andare sul mercato ed emettere bond, da girare poi agli Stati sotto forma di prestiti back-to-back. Visto che le garanzie a fronte delle obbligazioni in genere non vengono escusse, il rischio effettivo che i contribuenti tedeschi e olandesi finiscano per pagare il conto verrebbe ridotto al minimo.
Molto dipenderà anche dalla scadenza dei prestiti, su cui per ora non c'è visibilità, se non che sarà a lungo termine (ma tra dieci anni e venticinque o trenta c'è differenza). Si tratterebbe di emissioni comuni, di fatto, ma l'emittente delle obbligazioni sarebbe la Commissione europea, e non direttamente gli Stati.
Una soluzione del genere potrebbe essere più vendibile alle opinioni pubbliche di Germania e Olanda, da anni ossessionate dal timore di pagare i debiti dei popoli del Sud, dipinti (dai media ma anche dai rispettivi populisti) come spendaccioni inaffidabili (l'ex presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem accusò i popoli del Sud Europa di scialacquare denari in "Schnaps und Frauen", liquori e donne).
Per dirla con il copresidente dei Verdi nel Parlamento europeo Philippe Lamberts, "quando abbiamo avuto bisogno del Mes, è stato fatto in tempo record". Per Lamberts, "è una questione di volontà politica: si nasconderanno dietro le difficoltà tecniche per non affrontare le loro responsabilità politiche. Non vogliono tornare dai loro popoli, per esempio Mark Rutte e Olaf Scholz, a dire che la mutualizzazione del debito è interesse del popolo tedesco o di quello olandese".
"Perché - ha continuato Lamberts - hanno detto il contrario per decenni. Non vogliono fare marcia indietro e ammettere la verità, cioè che la Germania, l'Olanda e la Finlandia hanno beneficiato in modo massiccio dall'euro, non vogliono dire che questi enormi benefici hanno delle condizioni. E la condizione è la solidarietà di bilancio, che non vuol dire un assegno in bianco".
Tornando all'headroom nel Qfp, che potrebbe costituire la base per l'emissione dei Recovery Bond, per l'alto funzionario è un'idea che "in teoria potrebbe funzionare. E' un'idea percorribile e sarà interessante vedere come il Consiglio reagirà". Tuttavia, spiega, "ci sono due ostacoli". Il primo è giuridico: "Se tocchi una decisione sulle risorse proprie, allora c'è bisogno non solo dell'unanimità, ma anche di una ratifica" parlamentare.
Il Belgio ha sette Parlamenti e la Germania "ha una Corte che potrebbe essere drastica" su temi di questa natura. "Potrebbe volerci del tempo, forse due anni o più". E poi c'è anche la questione di che uso farebbe la Commissione farebbe di quel denaro, se lo userebbe per "prestiti" oppure per "trasferimenti".
E questo "è un altro dibattito: prima di parlare dell'ammontare, dobbiamo sapere per che cosa verrebbe speso. E' probabilmente su questo - conclude l'alto funzionario - che si focalizzerà il dibattito".

Piano B. - Massimo Erbetti


Coronavirus, è il giorno del summit Ue

Il 23 aprile è arrivato, oggi sapremo se l'Europa è diventata quella sognata da Spinelli oppure è quel carrozzone dove tutti pensano a sé stessi, dove i paesi più ricchi sfruttano la loro posizione per indebolire gli altri stati e trarne un vantaggio economico. Quasi sicuramente oggi si troverà un accordo sugli Eurobond e Recoverybond, ma se non dovesse accadere? Oppure, se il 5 maggio la Corte Costituzionale tedesca, dovesse esprimersi contrariamente a immissioni di denaro e aiuti agli stati in difficoltà diversi dal MES? Cosa accadrà? Ci serve un piano B, si certo, ma quale? Usciamo dall'euro? Si ok è la soluzione che molti auspicano, ma come facciamo? Stampiamo una nostra moneta? Si ma non è che domani mattina la zecca di stato si mette a stampare moneta, ci vorrà del tempo e noi purtroppo tempo non ne abbiamo, sono bastati 45 giorni di chiusura per mettere in ginocchio il nostro paese, ci sono famiglie allo stremo aziende che non potranno neanche riaprire... Il debito che l'Italia ha nei confronti di investitori esteri ammonta a circa 860miliardi di euro (dati del sole24ore), il 36% circa del debito totale, come pagheremo quel debito? Con la nuova moneta? Ma i creditori la accetteranno? E quale sarà il cambio? Poniamo il caso che il cambio lira euro, sia quello che c'era nel 2000 tra la nostra moneta e il marco tedesco e cioè uno a mille, il nostro debito aumenterà di mille volte? E questa è la migliore delle ipotesi, perché se dovessimo prendere come termine il cambio lira euro arriveremo a circa duemila volte e per la precisione 1936,27. Una soluzione potrebbe essere quella di obbligare ogni italiano a comprare tutto il debito estero, sarebbero disposti gli italiani a farlo? Praticamente lo stato convertirebbe tutti i risparmi sui conti correnti degli italiani da euro in buoni del tesoro, questo sarebbe possibile visto che i soldi sui conti correnti italiani sono oltre 1370 miliardi...ma c'è un ma...sareste disposti a farvi prelevare tutti gli euro sui vostri conti e vederli tramutati in Buoni del tesoro? Non è che con i buoni puoi ci puoi fare la spesa, non li puoi mica spendere con il bancomat. Quei soldi saranno immobilizzati li e non si potrebbero spendere. Qualcuno potrebbe dire: visto che stampiamo moneta da soli, stampiamone di più, si certo stampiamo più moneta, ma più ne stampi e meno vale...e se vale di meno, ha meno potere d'acquisto e se ha meno potere d'acquisto tutto quello che compriamo all'estero, costerà molto di più. Quando c'era la lira eravamo costretti ad acquistare le merci estere in dollari perché la lira non la voleva nessuno...nessuno vuole una moneta che ha poco valore..importiamo merci per circa 175 miliardi di euro, cosa facciamo non importiamo più nulla? E sareste disposti a lasciare la macchina in garage perché non avete i soldi per comprare la benzina? Oppure rinunciare al cellulare o al computer? Il petrolio noi non lo abbiamo, come non produciamo TV, cellulari, PC ...vi ricordo che i vostri conti correnti sono svuotati perché siete stati costretti a comprarci i buoni del tesoro. Comunque tutto questo pippone di stamattina serve solo a dire che tra il dire e il fare c'è di mezzo un mare, un mare di problemi, un oceano di problemi...si fa presto a dire: facciamo da soli, non è così facile, ci vuole un piano B, ma un piano B serio, non le chiacchere da bar...i problemi purtroppo non si risolvono con i post su Facebook o con un tweet...usciamo dall'euro.. Ok.. Stampiamo moneta... Ok...sono d'accordo, ma voglio sapere come...

https://www.facebook.com/massimo.erbetti/posts/10217200213503056

mercoledì 22 aprile 2020

Ecco chi c’è dietro il business dei posti letto per anziani. - Nicola Borzi



De Benedetti, Angelucci & C. Un affare poco rischioso e assai redditizio, che ha portato in Italia anche i big quotati dalla Francia.
Gli esperti la chiamano “economia d’argento”, perifrasi consolatoria che indica il business costruito sugli anziani. L’Italia, che nel 2017 era il secondo Paese più âgée del mondo dopo il Giappone con il 29,4% della popolazione oltre i 60 anni, 17,43 milioni di persone, nel 2050 ne avrà 22,2 milioni, il 40,3%. Secondo una ricerca di Pio De Gregorio di Ubi Banca, nel 2035 gli anziani non autosufficienti in Italia saranno circa 560mila e la domanda di posti letto nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) crescerà tra le 206mila e le 341mila unità che richiederanno un investimento tra 14,4 e 23,8 miliardi. Il settore fa gola perché le Rsa sono un investimento “assicurato” e assai redditizio. Ecco perché, anche se a oggi valgono solo un quinto dell’offerta complessiva, i gruppi privati stanno investendo grandi somme sia per creare nuove strutture che per acquistare concorrenti: i principali player sono Kos del gruppo Cir (De Benedetti), Tosinvest (Angelucci), Sereni Orizzonti della famiglia friulana Blasoni, ma dalla Francia sono già arrivati i giganti quotati Korian e Orpea.
Da circa 15 anni l’Europa e il Canada hanno seguito gli Usa nella privatizzazione delle case per anziani. I governi hanno incoraggiato gli operatori privati attraverso i meccanismi di accreditamento. In Italia a fine 2017 nelle Rsa e Rsd (residenze per disabili) operavano 1.271 imprese, 702 delle quali private e profit, ma i quattro quinti del settore sono gestiti da istituzioni pubbliche e Onlus. L’offerta dei privati profit però è in costante crescita, trainata da rette mensili medie molto più alte di quelle del non profit poiché contengono la quota alberghiera. La retta sanitaria a copertura pubblica, che “pesa” tra il 30 e il 50% della retta totale, varia a livello regionale e vale dai 29 ai 64 euro al giorno.
Tra gli operatori italiani delle Rsa svetta Kos del gruppo Cir con il marchio “Anni Azzurri”. Gestisce 77 strutture in 10 regioni italiane, in Gran Bretagna e in India per oltre 7.300 posti letto: 48 Rsa, 12 centri di riabilitazione, 11 comunità terapeutiche psichiatriche, quattro cliniche psichiatriche, due ospedali, 24 sedi centri diagnostici e terapeutici, 23 centri ambulatoriali. Kos dà lavoro a oltre 6.400 persone, fattura 550 milioni e ha acquisito da poco la tedesca Charleston (48 Rsa, 4.200 posti, 3.800 dipendenti). I dati della Tosinvest della famiglia Angelucci, che conta alcune decine di Rsa col marchio San Raffaele, non sono noti a livello consolidato perché schermati dietro una holding lussemburghesi. Sereni Orizzonti (il cui fondatore Massimo Blasoni, arrestato a ottobre e tornato libero a gennaio, è accusato di truffa aggravata al Ssn proprio un’inchiesta sulle Rsa) tra Italia, Germania e Spagna ha 80 strutture con 5.600 posti letto e fattura 200 milioni (+150% in quattro anni), sta realizzando una ventina di nuove Rsa per 2.400 posti in cinque regioni con un investimento di 180 milioni e punta 30 milioni per acquisizioni in Ue.
Tra gli operatori esteri, dopo la fusione dell’agosto 2016 con la Aetas del gruppo Definancements, oggi il gruppo francese Korian in Italia conta 44 Rsa con circa 4.800 posti letto, otto centri diurni, 110 appartamenti per anziani con 200 posti letto, 12 case di cura riabilitative per 1.200 posti letto, tre servizi post acuzie, 19 centri ambulatoriali e diagnostici, tre comunità psichiatriche (65 posti), tre centri residenziali per disabili (200 posti) e due hospice. Il gruppo nel 2019 nel mondo aveva oltre 82.600 posti letto in 600 strutture, ricavi per 3,6 miliardi (+8,3% annuo), un utile netto di 136 milioni (+10,4%), con 353 milioni investiti nell’acquisto di 20 strutture e un portafoglio immobiliare di oltre 2 miliardi. Grazie alle acquisizioni, in Italia i suoi ricavi sono cresciuti del 9,3% e i clienti sono aumentati del 150% in tre anni. L’altro gigante è la francese Orpea, primo operatore mondiale con 96.577 posti letto autorizzati in 950 strutture di 14 Paesi tra Europa, Cina e Brasile. In Italia possiede 18 strutture, 1.980 posti letto e 1.422 collaboratori tra Rsa e cliniche di riabilitazione in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto e Sardegna. A livello consolidato nel 2019 ha realizzato un fatturato di 3,74 miliardi (+9,4%) e un utile netto di 245,9 milioni (+11,6%). Ha da poco acquisito le olandesi September e Allerzorg e la tedesca Axion con un portafoglio immobiliare da oltre 6 miliardi.
Proprio gli immobili delle Rsa, grazie agli affitti garantiti da rette sostenute dal settore pubblico, ingolosiscono la finanza che dal 2006 vi ha investito un miliardo. In Italia una ventina di Sgr e Sicaf hanno in portafoglio strutture sanitarie, tra cui 50 Rsa per circa 5.600 posti letto inserite in 21 fondi immobiliari. Secondo Il Sole 24 Ore a comprare c’è la Zaffiro del gruppo Mittel che ha preso sei immobili di Rsa già operative e punta ad acquisti per 120 milioni nei prossimi anni. Il Fondo innovazione salute di Cattolica Assicurazioni, gestito da Savills Investment Management, punta a comprare 10 Rsa per 800 posti letto investendo 150 milioni. Ream Sgr (fondi Geras) sta facendo acquisizioni e ha 1.300 posti letto di Rsa in portafoglio. Il motivo è semplice: l’affitto di immobili alle Rsa genera rendimenti medi lordi annuali tra il 6 e il 7,5% l’anno.

Coronavirus, l’emergenza riporta a casa i mafiosi dal 41 bis: concessi i domiciliari al colonnello di Provenzano. Ora pure gli altri boss sperano. Di Matteo: “Lo Stato sembra cedere al ricatto delle rivolte”. - Giuseppe Pipitone

Coronavirus, l’emergenza riporta a casa i mafiosi dal 41 bis: concessi i domiciliari al colonnello di Provenzano. Ora pure gli altri boss sperano. Di Matteo: “Lo Stato sembra cedere al ricatto delle rivolte”

Il giudice del tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso gli arresti casalinghi a Francesco Bonura, boss dell'Uditore e ricco costruttore edile, condannato a 18 anni nel 2012. Adesso puntano ai domiciliari anche capimafia come Bagarella e Santapaola. Il magistrato componente del Csm: "Lo Stato sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della Trattativa". Il Dap: "La nostra ai penitenziari del 21 marzo? Era solo un monitoraggio. Scarcerazioni competono ai magistrati". Il ministero avvia verifiche.
Cominciano ad aprirsi le porte del carcere per i mafiosi detenuti in regime di 41 bis. Come anticipato dal fattoquotidiano.it, infatti, l’allarme coronavirus rischia di portare ai domiciliari non solo i detenuti comuni ma anche boss di rango. Come per esempio Francesco Bonura, condannato in via definitiva nel 2012 per associazione mafiosa ed estorsione a 18 anni e 8 mesi di carcere. Classe 1942, palermitano, ricco costruttore edile, figura di spicco del mandamento dell’Uditore, era detenuto nel carcere di Opera a Milano. Da ieri può tornare nella sua Palermo. A dare notizia dell’avvenuta scarcerazione di Bonura è il sito dell’Espresso.
Il colonnello di Provenzano – Al mafioso palermitano sono stati concessi gli arresti casalinghi per motivi di salute: “Siffatta situazione facoltizza questo magistrato a provvedere con urgenza al differimento dell’esecuzione pena”, scrive il giudice di sorveglianza del capoluogo lombardo, riferendosi all’emergenza coronavirus. “Anche tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio, indubitamente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere, che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani e affetti da serie patologie pregresse”, sono le parole usate dal magistrato per motivare la sua decisione. In un provvedimento di 3 pagine, firmato il 20 aprile, il giudice spiega che Bonura trascorrerà i domiciliari nella casa della moglie a Palermo, dove “non potrà incontrare, senza alcuna ragione, pregiudicati“. Il boss mafioso potrà comunque uscire di casa per motivi di salute, anche dei suoi familiari, e per “significative esigenze familiari”. Quali? Matrimoni, battesimi, pranzi di Natale e di Pasqua.
“Stato sembra essersi piegato al ricatto” – “Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte“, dice al fattoquotidiano.it il magistrato Nino Di Matteo, commentando la notizia del rilascio di Bonura. “E sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della Trattativa stato- mafia“, aggiunge sempre l’ex pm di Palermo ora consigliere del Csm. Bonura, infatti, non è un padrino di secondo piano. Insieme al boss Nino Rotolo e al medico Antonino Cinà, faceva parte della triade che dai mandamenti di Pagliarelli, dell’Uditore e di San Lorenzo guidava Cosa nostra subito dopo l’arresto di Bernardo Provenzano. Del boss corleonese il costruttore mafioso era uno dei più fidati colonnelli. L’ultima volta fu arrestato nel giugno del 2006 nell’inchiesta Gotha, che bloccò una nuova guerra di mafia tra gli schieramenti di Rotolo e di Salvatore Lo Piccolo, entrati in rotta di collissione per la successione di Provenzano al vertice della piovra.
La circolare sui detenuti over 70 – La scarcerazione di Bonura potrebbe essere solo la prima di una lunga serie. Sono diversi, infatti, i mafiosi di alto livello che adesso sperano di ottenere i domiciliari per evitare il contagio in carcere. Nelle settimane scorse i cancelli si sono già aperti per il calabrese Rocco Filippone (che era detenuto in regime di Alta sicurezza, più leggero rispetto al 41 bis), imputato con Giuseppe Graviano nel processo ‘Ndrangheta Stragista. A casa è tornato anche Vincenzino Iannazzo, considerato il boss della ‘ndrangheta a Lamezia Terme. Sono tutte scarcerazioni successive alla nota del Dipartimento amministrazione penitenziaria inviata a tutti i penitenziari il 21 marzo scorso, quattro giorni dopo l’approvazione del decreto Cura Italia. Nel provvedimento del governo c’erano anche alcune norme per combattere il contagio del coronavirus all’interno delle carceri, diminuendone l’affollamento. In pratica si stabiliva che i detenuti condannati per reati di minore gravità, e con meno di 18 mesi da scontare, potevano farlo agli arresti domiciliari.
I boss sperano di tornare a casa – La nota del Dap, però, non faceva alcun riferimento alla situazione giudiziaria dei detenuti. Si limitava ad elencare dieci condizioni, “cui è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze“: nove sono patologie, l’ultima è avere un’eta “superiore ai 70 anni“. Un documento che ha mandato fibrillazione gli ambienti giudiziari legati alla gestione carceraria. Il motivo? Non fa distinzione fra i detenuti, e quindi include in quegli elenchi di over 70 anche i circa 750 in regime di 41 bis e le migliaia che invece stanno nei reparti ad Alta sicurezza. Cioè il cosiddetto “carcere duro“, dove era detenuto Bonura. E dove sono ancora reclusi boss di prima grandezza, che adesso puntano ai domiciliari: capimafia come Leoluca Bagarella Nitto Santapaola, l’inventore della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, il capostipite di ‘ndrangheta Umberto Bellocco. Hanno tutti più di 70 anni e qualche patologia, e quindi sono stati tutti inclusi negli elenchi forniti dai penitenziari “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”, come aveva ordinato il Dap.
Il Dap: “Nostra nota era solo un monitoraggio” – Proprio nel giorno della scarcerazione di Bonura il Dap ha diffuso un comunicato per sottolineare di non aver “diramato alcuna disposizione a proposito dei detenuti appartenenti al circuito di alta sicurezza o, addirittura, sottoposti al regime previsto dall’art. 41bis dell’Ordinamento Penitenziario”. Il dipartimento definisce la circolare inviata il 21 marzo (esattamente un mese fa) come “un semplice monitoraggio con informazioni per i magistrati sul numero di detenuti in determinate condizioni di salute e di età, comprensive delle eventuali relazioni inerenti la pericolosità dei soggetti, che non ha, né mai potrebbe avere, alcun automatismo in termini di scarcerazioni. Le valutazioni della magistratura sullo stato di salute di quei detenuti e la loro compatibilità con la detenzione avviene ovviamente in totale autonomia e indipendenza rispetto al lavoro dell’amministrazione penitenziaria”. Insomma, il Dap ci tiene a specificare che gli arresti casalinghi per i boss mafiosi sono scelte che spettano solo ai magistrati. Intanto il ministero della giustizia ha attivato i suoi uffici per “fare le tutte le opportune verifiche e approfondimenti“.
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