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venerdì 13 agosto 2021

Non solo piromani: la Calabria brucia per sprechi e mafia. - Vincenzo Bisbiglia e Maddalena Oliva

 

Calabria Verde” - Spirlì butta 40mln di fondi per la forestazione. E paga 160mln per gli stipendi.

Il primo segno sono le cicale. Non friniscono come gli altri giorni, incessanti. Poi, le colonne di fumo intenso che si alzano, a segnare il passaggio della guerra. E i cumuli di cenere, i legni neri carbonizzati e le carcasse degli animali, che invadono quel che resta dei boschi. La Calabria è in guerra col fuoco, da giorni. Bruciano le foreste della Sila e il Reventino, il Pollino e la Riviera dei Cedri, brucia l’Aspromonte, coi suoi giganteschi pini e faggi, con le querce pluricentenarie, tutti patrimonio Unesco. Non solo sterpaglie, o erba secca. A essere mangiati dalle fiamme sono i boschi antichi delle valli degli argenti e dei briganti, il cuore della Calabria grecanica: “È come se bruciassero i Bronzi di Riace”, hanno detto ieri le guide del Parco nazionale dell’Aspromonte. I roghi ancora attivi sono 59. Il giorno prima, se ne contavano 13 di più. Non si può avere una stima precisa dei danni, degli ettari bruciati, perché – come sottolineano gli ambientalisti riuniti nel Comitato Stop Incendi Calabria – “qui è stata disattesa la Legge quadro sugli incendi (353/2000), che prevederebbe, oltre al piano di spegnimento attivo, anche la prevenzione. Manca pure un catasto degli incendi, senza cui è impossibile quantificare i danni, così come individuare le zone interessate, anche per far partire le indagini…”. Ed è proprio il Comitato Stop Incendi Calabria, assieme a Italia Nostra e Wwf, a puntare il dito nei confronti delle istituzioni di una Regione che “non fa altro che chiedere per l’ennesima volta lo stato di emergenza: l’emergenza di un’emergenza di un’emergenza”, si sfoga Armando Mangone. “Fino a pochi giorni fa, nonostante le elezioni a breve, il tema degli incendi non era nemmeno dibattuto tra i candidati!”. Tant’è che le diverse associazioni hanno scritto una lettera aperta ai principali candidati alla guida della Regione (Mario Occhiuto per il centrodestra, Amalia Bruni per Pd e M5S, e Luigi De Magistris), a oggi senza risposta. “Gli incendi che stanno dilaniando la nostra terra non sono imponderabili disastri – si legge nel testo – né tanto meno piaghe dovute al fato o alla casualità, bensì fenomeni prevedibili, se soltanto le istituzioni operassero come le loro responsabilità e funzioni impongono”.

La regione e Calabria Verde.

Quaranta milioni di euro andati persi. Sono i soldi previsti ogni anno come contributo statale vincolato per i piani di forestazione che il leghista Antonino Spirlì – presidente pro-tempore e in corsa per la poltrona da vice, nel ticket con Occhiuto – avrebbe “bruciato”, per non aver presentato gli adeguati progetti con la sua giunta. Un’azienda alle strette dipendenze della Regione, Calabria Verde, a cui fa capo il servizio “AIB – anti incendio boschivo”, che ogni anno costa ai contribuenti 160 milioni di euro solo di stipendi (4.800 addetti, età media 55 anni). Una grande mangiatoia di soldi pubblici, a guardare le diverse inchieste della magistratura, finita negli anni agli onori della cronaca o per essere stata usata dalla politica come “moneta di scambio” clientelare, o perché, secondo i pm, avrebbe contato tra i suoi addetti uomini delle ‘ndrine e pregiudicati.

La società regionale nasce nel 2013 sulle ceneri dell’agenzia Afor, e finisce per “imbarcare” addetti ai lavori di sistemazione idraulico-forestale, personale delle comunità montane (abolite proprio nel 2013) e decine di “comandati” dai vari uffici della Regione. Lavoratori, di base, per lo più inquadrati come operai agricoli, con buste paga da 1.300 euro al mese, ma che spesso mancano di una formazione specifica. Un ente pachidermico che alla voce “personale sorveglianza idraulica” nel 2019 contava 3.988 dipendenti, sui 4.769 totali. Aloisio Mariggiò, ex generale dei Carabinieri oggi in pensione, è stato il Commissario straordinario di Calabria Verde che, nel 2020, prima di dimettersi, ha consegnato ai vertici della Regione una relazione durissima in cui ricordava come “qualcuno” avesse assunto un “preciso impegno” per “non operare tagli sul personale”. Fra le anomalie rilevate da Mariggiò, anche il caso della sede di Calabria Verde. Si trova “all’interno di una struttura commerciale di Catanzaro” e occupa 1.760 metri quadri. Una sede per cui la società regionale “corrisponde canoni di locazione per oltre 180mila euro l’anno”, e che appartiene “a due diverse società” (su una delle quali pende “un’interdittiva antimafia”).

La mafia dei boschi.

Così, mentre i servizi regionali che dovrebbero contrastare e prevenire affondano negli sprechi, la “mafia dei boschi” fa affari grazie agli incendi. Come? La Calabria, oltre a essere l’unica, assieme all’Abruzzo, ad avere sul proprio territorio tre Parchi nazionali (Aspromonte, Sila e Pollino, il più esteso d’Italia), è anche la regione italiana con più centrali elettriche a biomasse, dunque a combustibile organico, tecnologia che viaggia anche grazie al legno “riciclato” dagli incendi. “Solo il 20% dell’energia prodotta dalle centrali biomasse qui resta in Calabria – spiega Ferdinando Laghi, medico per l’ambiente oggi candidato con De Magistris – il resto finisce fuori. E, per avere un’idea, la centrale del Mercure, in provincia di Cosenza, nel primo anno di esercizio ha incassato 49 milioni di euro: 10 dalla produzione di energia, 39 dagli incentivi pubblici”. A fiutare il business, ancora una volta, è la ‘ndrangheta. Dalle carte dell’inchiesta “Farmabusiness” del 2020 della Procura di Catanzaro, emerge come già nel 2012 il boss Nicolino Grande Aracri avesse intuito l’affare: intercettato, parlava di un guadagno di “300mila euro al mese” dai carichi di legname venduti, da ditte affiliate, ai gestori delle centrali. E sempre la Dda di Catanzaro, con l’operazione “Stige”, aveva portato alla luce i “disboscamenti selvaggi per alimentare il mercato delle biomasse, favoriti dalla connivenza di chi doveva vigilare e non l’ha fatto”.

I contadini improvvisati.

“Quando parliamo di incendi, specie in questa terra, per inquadrare le responsabilità bisogna guardare a tutti i livelli”, spiega Mangone di Stop Incendi. “È molto diffusa purtroppo la pratica dei singoli che bruciano le stoppie, per ripulire i propri campi”. Sono i tanti calabresi, ricorda lo scrittore Francesco Bevilacqua, “che giocano a fare i contadini e i pastori, avendo dimenticato gli antichi saperi. Così come calabresi sono i piromani che appiccano il fuoco per psicopatia o per ritorsione verso il vicino, il parco, il mondo intero. È la Calabria, che ha la sua luce e la sua ombra. Il fuoco non è che una metafora di questa condizione ambivalente”.

ILFQ

domenica 14 giugno 2020

Italia 90, l’eredità del Mondiale trent’anni dopo: ecomostri, stazioni ferroviarie mai completate e stadi fatiscenti – Le storie. - Lorenzo Vendemiale

Italia 90, l’eredità del Mondiale trent’anni dopo: ecomostri, stazioni ferroviarie mai completate e stadi fatiscenti – Le storie

La grande occasione persa della competizione iridata, costata oltre 7mila miliardi di lire, lascia ancora oggi le sue cicatrici, da Nord a Sud. A Roma la stazione Farneto non è mai nata, Vigna Clara è ora alla fase del collaudo e Ostiense è diventata la sede di Eataly. A Napoli restano i misteri della Ltr, a Milano l'ecomostro Hotel Mundial è stato abbattuto come lo stadio Delle Alpi a Torino, a Bari il futuro del San Nicola è un'incognita. Ecco le loro storie.
Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)
Stazioni mai entrate in funzione, ecomostri di cemento, stadi disgraziati. Ilfattoquotidiano.it ha raccontato la grande occasione perduta dei Mondiali di Italia ’90, costati oltre 7mila miliardi di lire, tra sprechi, ritardi e progetti scriteriati. Ma non è vero che di quella stagione non resta più nulla: da Roma a Milano, da Nord a Sud, in giro per il Paese ancora oggi si possono vedere ruderi e incompiute di quel Mondiale. Queste sono le loro storie.
Farneto, Vigna Clara, Ostiense: sono le tre stazioni mondiali praticamente mai aperte, tre progetti scellerati costati allo Stato complessivamente oltre 400 miliardi di euro. La loro storia è tragicomica, farebbe ridere se non ci fosse da piangere. Partiamo dalla stazione Farneto: distante meno di un chilometro dall’Olimpico, doveva essere l’hub finale del trasporto dei tifosi allo stadio. Peccato che, nonostante i 15 miliardi di lire spesi, fosse completamente inadatta: chi l’aveva progettata, non aveva pensato che quel breve tratto di centinaia di metri correva in realtà su una strada buia, pericolosa e ad alta percorrenza, non il massimo per il transito di migliaia di tifosi in piena notte. Per non parlare delle misure sbagliate del tunnel: solo dopo averlo completato, ci si accorse che non c’era spazio sia per i treni che per la banchina. Per inserire il marciapiede fu eliminato uno dei due binari. Alla fine aprì per un paio di settimane, ci passarono appena 12 convogli, poi fu richiusa per sempre. Finita al centro di inchieste, è stata occupata per anni da gruppi di estrema destra, poi sgomberata nel 2015.
La sua storia si intreccia con quella di Vigna Clara, stazione di testa dello stesso collegamento, che di miliardi ne costò circa 80: attivata in occasione dell’inaugurazione dei Mondiali (ma ancora incompiuta), chiusa al termine della manifestazione, fu posta sotto sequestro nel 1993 nell’ambito di un’indagine su presunte irregolarità della pubblica amministrazione nella realizzazione del collegamento. I reati ipotizzati erano abuso e omissione di atti d’ufficio, gli imputati finirono tutti prosciolti. Nonostante tutto, la linea sarebbe stata preziosa per unire su ferro Roma Nord a Roma Sud e così nel corso degli anni si è parlato più volte di recuperarla, con diversi progetti che sono partiti e puntualmente si sono arenati. L’ultimo, che prevede il collegamento tra Vigna Clara e Valle Aurelia, avanza faticosamente proprio nelle ultime settimane sembra arrivata alla fase conclusiva, quella del collaudo. Chissà che non sia la volta buona.
Quanto all’Air Terminal di Ostiense, terminal aeroportuale che avrebbe dovuto portare a Fiumicino, ambizioso progetto firmato dagli architetti Lafuente e Sanrocchi, è costato appena 350 miliardi di lire. I calcoli di afflusso però erano sbagliati: i passeggeri erano troppo pochi, i negozi chiusero uno dopo l’altro, l’impianto accumulava perdite e fu abbandonato. Si trasformò prima in un ricovero per senza tetto, poi ci volevano fare un centro commerciale, quindi di nuovo una stazione, alla fine oggi è diventata la sede di Eataly.
Sotto viale Augusto che ce sta?”. È uno dei più grandi scandali di Italia ’90, tanto da diventare una canzone di Edoardo Bennato, che col suo alter-ego blues, Joe Sarnataro, negli anni Novanta cantava i misteri della Ltr. La famosa “Linea tranviaria rapida”, o metro leggera che dir si voglia, che avrebbe dovuto portare i tifosi al San Paolo attraversando viale Augusto. Le stazioni furono costruite, la linea mai inaugurata. A pochi mesi dal torneo, ci si accorse che la stazione di Piedigrotta era una specie di pozzo profondo trenta metri, da cui i passeggeri avrebbero dovuto emergere superando cinque piani di scale di ferro, 121 gradini, senza ascensore. Si decise di ovviare con un ingresso alternativo, qualche centinaio di metri più avanti, ma la talpa Hydroshield, che stava scavando la galleria, fu inghiottita dal terreno. Alla domanda di Bennato, ancora non si è avuta risposta.
Sette piani, 300 camere, 180mila metri cubi di cemento: questo avrebbe dovuto essere l’imponente progetto dell’Hotel Mundial, l’enorme albergo nella periferia sud-est di Milano, costato 10 miliardi di lire. Si sono disputati ben cinque mondiali di calcio senza che abbia mai aperto. Collocato tra i Comuni di Milano e Ponte Lambro, immerso in una grande area verde, a due passi dallo svincolo di autostrada e tangenziale, avrebbe dovuto essere il quartier generale dei tifosi in arrivo da ogni parte del pianeta. Di tifosi in realtà non se ne videro così tanti, ma soprattutto l’hotel non era pronto: passato il torneo e ogni barlume di utilità, il progetto fu abbandonato a se stesso. È rimasto l’ecomostr, ed è arrivato presto anche il degrado, lo spaccio, le occupazioni abusive. Negli anni si sono sprecate anche le proposte di riqualificazione: carcere, polo sanitario, caserma, residenze universitarie. Tutte naufragate. Alla fine l’enorme scheletro di cemento fu abbattuto nel 2012, sotto la giunta Pisapia.
Bello era bello, non c’è che dire. Lo sarebbe ancora, se soltanto non cadesse a pezzi. Lo stadio San Nicola di Bari è forse il simbolo perfetto degli strani mondiali di Italia ’90, perché ne racchiude al contempo la magia e gli errori, la bellezza e gli sprechi. Costato 153 miliardi di lire, firmato dal grande Renzo Piano, fu uno dei centri nevralgici del torneo, con la finale per il terzo posto degli azzurri contro l’Inghilterra, amara consolazione del sogno mondiale infranto. Un anno dopo avrebbe ospitato addirittura la finale di Coppa Campioni vinta ai rigori dalla Stella Rossa contro l’Olympique Marsiglia. Due anni di gloria non sono bastati a fermarne l’inesorabile declino. Costruito nella periferia ovest della città, anzi proprio nel nulla, si è trasformata pian piano in una cattedrale nel deserto: sui desolati terreni circostanti si sono ciclicamente rinnovati una serie di appetiti immobiliari, mai però concretizzati insieme alla valorizzazione dell’impianto. Un po’ come la squadra locale, l’“astronave” non è mai riuscita a decollare veramente e si è ridotta in avaria: 13 dei 24 teloni in teflon, simbolo dello stadio, si sono staccati uno dopo l’altro, così alla fine l’amministrazione si è decisa a rimuoverli tutti. Soltanto di recente il Comune del sindaco Antonio Decaro ha approvato un primo, piccolo progetto di restyling, con la sostituzione di migliaia di seggiolini. E ha affidato per 5 anni l’impianto al nuovo Bari di De Laurentiis. Il futuro, però, resta un’incognita.
Al Delle Alpi è come giocare sempre fuori casa”. Con questa frase l’avvocato Agnelli sentenziò la condanna a morte dello stadio Delle Alpi, il più grande errore di Italia ‘90, almeno sotto il profilo dell’impiantistica sportiva. 160 miliardi di lire, con il rincaro più alto di tutta la manifestazione (+214% sul preventivo), per uno stadio durato appena 16 anni: inaugurato nel ’90, fu chiuso nel 2006 e abbattuto nel 2009. Fra queste due date c’è la storia di uno stadio disgraziato, troppo grande per le reali esigenze della città (eccessivi 69mila posti), pure scomodo per l’enorme pista di atletica pretesa dal Coni e quasi mai utilizzata, sempre mezzo vuoto, costoso e poco redditizio. Un disastro, insomma. Ad averne segnato il destino non furono solo i suoi difetti, ma anche gli interessi economici dei club, Juventus e Torino, che speravano di avere qualcosa di meglio e per questo gli dichiararono guerra, arrivando anche a minacciare il Comune di lasciare la città. Ed è così che a inizio Anni Duemila ci fu la svolta, con lo zampino di un altro grande evento sportivo, i Giochi di Torino 2006: con l’occasione delle Olimpiadi, si arrivò all’accordo per cui il Delle Alpi, insieme alla famosa area della Continassa, fu assegnato per 99 anni alla Juventus al prezzo estremamente vantaggioso di 25 milioni di euro. Sulle ceneri del vecchio impianto sarebbe sorto lo Juventus Stadium, diventato uno dei segreti del successo bianconero. Col senno di poi, si può dire che in fondo il Delle Alpi è stata una benedizione, almeno per la Juve.
Fossero solo queste le cattedrali nel deserto probabilmente volute e costruite dai riciclatori di denaro proveniente da operazioni che non hanno alcun sentore di legalità.
L'italiano è così corrotto, anche a livelli istituzionali, che temo sarà sempre più difficile tornale alla normalità.
Troppa corruzione, troppa smania di apparire, troppa voglia di arricchire e presto, ...
Siamo senza speranza. c.

domenica 29 aprile 2018

Sprechi, l’Europa del rigore fa la cattiva maestra: commissari si regalano più soldi e auto blu per 3 anni prima di lasciare. - Thomas Mackinson

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L'indennità da 13.500 euro al mese non bastava, arriva lo scivolo d'oro per la "transizione" alla normalità. E' il regalo che si stanno facendo i 28 commissari della Commissione europea in previsione della fine del loro mandato: una volta cessati, avranno a disposizione per altri 36 mesi auto blu con autisti, uffici presso la Commissione con segretari e personale. Il tutto esentasse. L'iniziativa chiama in causa direttamente Juncker e il nuovo segretario. La presidente tedesca della Commissione Bilancio chiede chiarimenti.

Uno scivolo d’oro per i tre anni di “transizione”, dalla bambagia alla normalità. Stavolta l’Europa dà dei punti al nostro Parlamento. I suoi commissari uscenti, senza troppa pubblicità, hanno infatti deciso di concedere a se stessi un piccolo ma sostanzioso regalo: tra 19 mesi usciranno di scena e ad attenderli, puntuali, troveranno materassi imbottiti d’euro e nuovi irrinunciabili benefit. A loro disposizione, oltre a stipendi da 8-15mila euro al mese per tre anni, potranno usufruire nello stesso periodo anche di auto blu con autista, di un ufficio con personale e segreteria dedicati, il tutto sempre a carico dei contribuenti dell’Unione. Tre anni da nababbi per i 28 ex commissari la cui ragione di fondo – o il cui pretesto, per i critici – riesiederebbe nella volontà di evitare che finiscano al soldo di qualche multinazionale o società di lobby come José Manuel Barroso, l’ex presidente della Commissione (2004-2014) trasferitosi con armi e bagagli alla Goldman Sachs. L’iniziativa, va da sé, solleva vari problemi e altrettanti imbarazzi.

Il primo è che le regole valgono per gli stessi commissari che le devono approvare in palese conflitto di interessi, visto che saranno i primi a sperimentarne i benefici potenzialmente equivalenti anche al triplo di ciò che attualmente ricevono. Non a caso, ed è il secondo elemento della storia, l’iniziativa è passata sotto silenzio. A segnalarla è stato un quotidiano tedesco, non atti ufficiali, non comunicazioni interne, nulla di nulla. Il 18 aprile scorso la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha pubblicato un articolo che dava conto dei benefit citando alcuni punti del trattamento allo studio. Da lì è partita anche la corsa a codificare politicamente la mossa. Da più parti viene attribuita infatti allo stesso presidente Jean Claude Junker e alla sua volontà di far quadrato attorno alla nomina (a sorpresa e indigesta a molti) a segretario generale della Commissione del suo capo di capo di gabinetto, il potente Martin Selmayr. La lettura malevola suggerisce che l’elargizione sia un viatico per rabbonire gli animi dei commissari contrari a tale scelta: perché rischiare di mordere la mano che ti darà ancora da mangiare?
Il terzo è che, come detto, di altre concessioni forse i commissari avrebbero in realtà ben poco bisogno, visto il trattamento d’oro che ricevono mentre sono in carica, grazie a stipendi da 20mila a 25mila euro al mese per cinque anni, rigorosamente esentasse così come i tanti benefit. Vista poi la sontuosa liquidazione. Ulteriori benefici economici finiscono fatalmente per stridere con l’idea romantica da “Europa solidale dei popoli”. Ma di cosa si tratta realmente?
“L’indennità di transizione” sarebbe pagata per tre o cinque anni e non due come è stato dal 2016. Questa indennità, che varia dal 40 al 65% dello stipendio base in base alla durata dei compiti precedente, vale a dire un minimo compreso tra 8.400 e 13.500 euro al mese, viene aggiunta a quella di “reinsediamento“, corrispondente al salario di un mese. Soprattutto, a queste somme, si aggiungeranno una serie di prestazioni in natura: un ufficio presso la Commissione (in precedenza solo gli ex presidenti avevano diritto), una macchina aziendale con autista e due assistenti. Grazie a questa operazione, un ex commissario riceverà effettivamente il doppio, se non il triplo, di ciò che attualmente riceve. Il tutto grazie anche a un’ulteriore piccola astuzia: mentre l’allungamento della durata del risarcimento (o il suo aumento) richiede l’accordo del Consiglio dei ministri (dove siedono gli Stati), questo non è il caso per le “prestazioni in natura” che dipendono dal bilancio della Commissione.
L’astuzia rischia di costare parecchio ai contribuenti e di dare un segnale contrario alle consuete rampogne di Bruxelles agli Stati spendaccioni e di aiutare gli antieuropeisti nell’opera di demolizione dell’immagine delle istituzioni europee. Non a caso c’è chi pretende immediate spiegazioni. Il 24 aprile scorso la presidente della Commissione controllo di bilancio del parlamento europeo Ingeborg Grässle (PPE) ha mandato una lettera al Commissario al Bilancio Günther Oettinger chiedendo spiegazioni. Sbigottito anche Marco Valli, membro della stessa commissione in quota M5s: “Siamo venuti a conoscenza della proposta di questi nuovi privilegi per i Commissari uscenti, grazie ad un articolo pubblicato da un giornale tedesco. Per questo chiediamo, attraverso una lettera della Commissione controllo dei bilanci del Parlamento europeo l’accesso al documento di lavoro. Vogliamo vedere le carte ed evitare abusi e conflitti di interesse. Non è la prima volta che la Commissione prende decisioni discutibili in modo opaco, basti vedere il recente caso di nomina diretta dell’uomo di fiducia di Juncker, Martin Selmayr come Segretario generale”.

domenica 16 luglio 2017

Sanità: corruzione dilaga in paesi Ue, in Italia 6 mld in fumo.

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Rooma, 16 giu. (AdnKronos Salute) - Tra frodi, sprechi e abusi nell’assistenza sanitaria, l’Italia manda in fumo 6 miliardi di euro di denaro pubblico. Ma dal confronto con gli altri Paesi europei la corruzione in sanità sembra dilagare in quasi tutto il continente. I tipi di frode più diffusi sono soprattutto la non conformità alle regole di fatturazione e, più in particolare, la fatturazione di servizi sanitari male o mai erogati. Per una lotta comune e coordinata a difesa del 'sistema sanitario europeo', oggi, per la prima volta in Italia 50 delegati di 14 Paesi Ue si sono riuniti in un summit internazionale organizzato da Ehfcn (European Healthcare Fraud & Cirruption Network) a Roma.
Secondo i Rapporti nazionali di 9 Paesi Ue (Italia, Belgio, Francia, Regno Unito, Polonia, Portogallo, Paesi Bassi, Lituania e Slovenia) su corruzione e sanità, raccolti nel volume 'Healthcare Fraud, Corruption and Waste in Europe', si tratta di un male comune. Solo nel Regno Unito 4.819 episodi di frodi sono state registrate a danno del sistema sanitario nel biennio 2014-2015. In Francia l’attività anticorruzione di Stato dell’Assurance Maladie ha recuperato 220 milioni di euro nel 2016 e nell’anno precedente circa 231,5 milioni. In Belgio l’autorità di ispezione sanitaria governativa, il Meid, ha individuato 1.225.585 infrazioni nel 2015.
"I dati pubblicati dai Paesi sono difficili da confrontare a causa dei differenti metodi di valutazione vigenti - spiega Renè Jansen, presidente Ehfcn - Per uniformare i criteri di analisi e controllo della corruzione a livello europeo, Ehfcn ha messo a punto la 'matrice di tipologia degli sprechi', un importante strumento di analisi per la segnalazione della frode sanitaria, che consente standard uniformi e di cui auspichiamo la diffusione nei Paesi del Network europeo". Tra le frodi più diffuse il ricarico per cure eccessivamente costose.
La relazione britannica menziona gli errori causati da dichiarazioni come i 'pagamenti impropri' (34 casi), mentre in Polonia i costi di degenza ospedaliera sono rimborsati e ciò porta a 'nascondere' un paziente (dentro l'ospedale). Il ricarico per servizi non erogati In Italia (nello specifico nel privato) si manifesta con la falsificazione dei documenti. In altri Paesi con la prescrizione di farmaci non assegnati (nel Regno Unito segnalati 114 casi di multi-registrazione di medicinali). In Portogallo la prescrizione di trattamenti e medicinali complementari ammonta al 36% delle infrazioni.
L'Italia spicca poi nella fornitura di servizi inutili: relativamente alti sono i parti cesarei in alcune regioni (il 50% delle nascite contro la media Oms del 15%).
"Tra sprechi, inefficienze e corruzione i sistemi sanitari perdono un quinto delle risorse. Ma mentre nella maggior parte dei Paesi si registra la diffusione di frodi, in Italia il fenomeno corruttivo ha assunto ormai una dimensione strutturale - afferma Francesco Macchia, presidente di Ispe Sanità - Questo per la differente natura dei servizi, finanziati in prevalenza dalla fiscalità generale nel Sud Europa e su base assicurativa al Nord. Per cui in molti Paesi nordeuropei sono sotto osservazione le irregolarità contabili, mentre al Sud prevalgono corruzione e favoreggiamento. Servono strategie generali per difendere il sistema sanitario europeo che rappresenta il 9% del Pil dei Paesi europei".
Il Belgio ha svolto 886 indagini individuali nel 2015. I rimborsi finanziari vanno da 11,5 milioni del Belgio a 231 milioni della Francia nel 2015, a 449 milioni nel 2014 nei Paesi Bassi. In Polonia sono state imposte sanzioni per 217 mila euro. La Francia ha avviato circa 6.500 azioni legali nel 2015, mentre il Portogallo ha effettuato 92 procedimenti disciplinari. La Polonia ha ricevuto 158 notifiche riguardanti crimini sospetti.
Tra gli elementi critici comuni ai Paesi riuniti da Ehfcn nella lotta alla corruzione e alle frodi in sanità, in primo luogo emerge la mancanza di una cultura antifrode e anticorruzione efficace, seguita da complessità e incertezza delle normative, mancanza di finanziamenti strutturali e risorse umane e dispersione dei compiti tra gli stakeholder. Dunque, per migliorare la lotta comune su questo fronte servono una più ampia collaborazione internazionale (scambio di informazioni, metodi e best practice da condividere), professionalizzazione dei principali stakeholder, sviluppo della sanità digitale e attuazione di piani nazionali anticorruzione.

sabato 4 febbraio 2017

Cgia, sprechi ed inefficienze nella P.A. costano 16 miliardi l'anno.

Un dipendente ministeriale varca i tornelli © ANSA


Da migliore gestione patrimonio, aiuti e detrazioni altri 16mld.

Tra gli sprechi nella sanità, le misure di contrasto alla povertà percepite da famiglie abbienti e la quota di spesa pubblica indebita denunciata dalla Guardia di Finanza, l'Ufficio studi della Cgia ha stimato in 16 miliardi di euro all'anno le uscite che la pubblica amministrazione italiana potrebbe risparmiare se funzionasse meglio. Se, inoltre, si potesse quantificare anche la spesa riconducibile ai falsi invalidi, a quella riferita a chi percepisce deduzioni fiscali non dovute o alla cattiva gestione del patrimonio immobiliare, molto probabilmente lo Stato potrebbe risparmiare, per la Cgia, altrettanti milioni di euro.
Una montagna, quella degli sprechi della Pa, che, secondo la Cgia, assume una dimensione ancor più preoccupante se si tiene conto dei dati forniti dal Fondo monetario internazionale. Se la Pa, rileva la Cgia, avesse in tutta Italia la stessa qualità nella scuola, nei trasporti, nella sanità, nella giustizia, che ha nei migliori territori del Paese, il Pil aumenterebbe di 2 punti (oltre 30 mld/anno di euro).  
"Dopo aver approvato in fretta e furia una legge di Bilancio molto generosa sul fronte delle uscite - dice il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo - ora, dopo la richiesta da parte dell'Ue di correggere i nostri conti pubblici per 3,4 miliardi, il Governo decide di recuperarli agendo soprattutto sul fronte delle entrate. Non sarebbe il caso, invece, di intervenire in misura più aggressiva nei confronti della spesa pubblica improduttiva che risulta avere ancora dimensioni molto preoccupanti?" Pur riconoscendo gli sforzi fatti dagli ultimi esecutivi sul fronte della spending review, la Cgia continua a ritenere che sarebbe sbagliato recuperare una buona parte dello 0,2% di taglio del deficit/Pil richiestoci da Bruxelles aumentando, ad esempio, le accise sui carburanti.
"Ricordo - conclude il segretario della Cgia Renato Mason - che l'80 per cento circa delle merci italiane viaggia su gomma. E' vero che grazie al rimborso delle accise gli autotrasportatori, solo quelli con mezzi sopra i 35 quintali, possono recuperare una parte degli aumenti fiscali che subiscono alla pompa. Tuttavia, nel caso scattassero gli incrementi di accisa, potrebbero verificarsi dei rincari dei prodotti che troviamo sugli scaffali dei negozi e dei supermercati del tutto ingiustificati, penalizzando soprattutto le famiglie a basso reddito". Rammentando che la nostra spesa pubblica annua ammonta a 830 miliardi di euro circa, i 3,4 miliardi di correzione del deficit richiestoci incide per lo 0,4%: un'inezia che auspichiamo possa essere risolta attraverso una contrazione degli sprechi e degli sperperi presenti nella nostra Pa". 

venerdì 17 giugno 2016

Sprechi di Roma, le spese pazze del Comune: 5 milioni l’anno solo per l’acqua delle fontane. - Anna Morgantini




E' il conto che il Campidoglio paga all'Acea. Per rifornire gli impianti che alimentano bellezze monumentali come Piazza Navona o Fontana di Trevi. Una bolletta pesantissima adesso entrata nel mirino del M5S. Che in caso di vittoria al ballottaggio di domenica annuncia tagli  milionari al contratto di servizio con la multiutility.

Ma, in fatto di soldi, il Campidoglio ci è o ci fa? A poche ore dal ballottaggio Raggi-Giachetti, proprio mentre lo scontro si focalizza sul debito, nella capitale scoppia il caso-fontane: consumano oro anziché acqua, a giudicare dalle bollette che Acea ha inviato nel 2012 al comune di Roma e che il Campidoglio ha pagato senza dire neanche beh. Ben 234 mila per la fontana alla salita del Pincio. Quasi 250 mila per piazza Farnese. La fontana di Trevi si beve 294 mila euro l’anno. E Piazza Navona? Tre bollette-monstre: per i Quattro Fiumi del Bernini, ecco la numero 2304625 dell’11 dicembre 2012 che ammonta a 523 mila euro, a cui ancora bisogna aggiungere le fatture numero 2304521 e 2304522  (33 e 31 mila euro) per l’alimentazione delle due fontane laterali. In tutto fanno 590 mila euro, che sommati al costo di tutte le altre fontane e fontanelle dell’Urbe portano a un conto finale clamoroso: 5 milioni 134 mila e 147 euro, regolarmente liquidati dal Campidoglio nell’ottobre 2015 come «debiti fuori bilancio».
E IO PAGO Un conto stratosferico. Ma tutt’altro che chiaro, limpido e trasparente: «Secondo i funzionari del comune, le fontane monumentali di Roma sono alimentate con acqua potabile e sono prive di impianto di ricircolo» spiegano Laura Maragnani, giornalista di Panorama, e  Daniele Frongia, ex presidente M5S della Commissione capitolina per la riforma della spesa, che hanno scovato queste bollette micidiali e le hanno pubblicate nel loro libro“E io pago” (Chiarelettere). A tutto questo si è aggiunta anche la scoperta di Sky tg 24: l’impianto di ricircolo in realtà esiste e le fontane monumentali sono alimentate non dalla rete potabile ma da quella non potabile, quindi i consumi reali non hanno nulla a che vedere con l’importo finito in fattura. Il consumo di piazza Navona, per dire, secondo i tecnici di Acea Ato 2 Spa ammonterebbe a soli 4.757 euro l’anno, a fronte di bollette per quasi 600 mila. Centoventi volte di più.
ACQUA PAZZA Problemino. Siamo di fronte a bollette pazze di cui il Campidoglio è vittima innocente, e che però ha scioccamente pagato senza protestare? O si tratta invece di specifici contratti di fornitura che il Campidoglio ha scientemente firmato, offrendo ad Acea un «minimo annuo (da concessione)» al di fuori da ogni logica di mercato? E chi li ha sottoscritti? Quando? E perché? Il mistero è sempre più fitto. «Come quasi tutto quello che riguarda le spese del Campidoglio», si sfoga Frongia, che oggi è in predicato, se vince Virginia Raggi, di diventare vicesindaco o capo di gabinetto con specifica missione taglia-sprechi: «L’amministrazione capitolina è il trionfo della mancanza di trasparenza, della confusione, della sciatteria, dello spreco sistematico».
LUCE! LUCE! Parole forti. Ma tra il 2013 e il 2015, malgrado il boicottaggio della macchina amministrativa, la commissione Frongia ha scovato sprechi («recuperabili») per almeno un miliardo e 200 milioni l’anno. Tra cui un altro extra-costo targato Acea, quello per l’illuminazione pubblica: «Su un contratto di servizio che garantisce alla multiutility di piazzale Ostiense più di 70 milioni di introiti l’anno, abbiamo stimato che il comune potrebbe risparmiarne addirittura 20. Un euro su quattro».
FRONTE LIQUIDO Non c’è da stupirsi se in questi giorni, all’Acea, la prospettiva di una vittoria dei Cinque Stelle renda tutti un po’ nervosi, a cominciare dall’amministratore delegato e direttore generale Alberto Irace, ex Publiacqua, renzianissimo. Già c’è stato, a marzo, il precedente di Virginia Raggi che ha annunciato di voler rivoltare l’azienda come un calzino in caso di vittoria: «Solo quest’anno l’Acea dovrebbe chiudere con un utile di esercizio di 50 milioni. Sicuramente questo tipo di gestione è in perfetto contrasto con il risultato del referendum del 2011 perché con l’acqua non si devono fare profitti». E nemmeno dividendi. Ma proprio lunedì 20 Acea staccherà una cedola pari a 0,50 centesimi per azione, 20 centesimi in più del 2012. E anche se gli azionisti gongolano (il comune controlla il 51 per cento, seguito dall’editore del Messaggero, Francesco Gaetano Caltagirone, con il 15,86, e da Suez con il 12,48) è facile prevedere che con l’acqua delle fontane pazze si aprirà un altro fronte di scontro.
RISCHIATUTTO Il management di Acea non è però l’unico a correre qualche rischio in caso di vittoria grillina. Tra i macigni che pesano sul bilancio di Roma Capitale c’è anche e soprattutto il Vaticano: sono ben 400 i milioni pagati dai romani per le spese e i servizi «non previsti e non dovuti» forniti gratuitamente alla Chiesa (dalle transenne alla pulizia di piazza San Pietro dopo ogni udienza papale) e per le tasse e i tributi allegramente evasi dal Cupolone Spa, come i 20 milioni di canone per la fognatura che Oltretevere si è sempre rifiutata di pagare all’Acea e che l’Acea – rieccola! – ha trasferito pari pari alle casse del Campidoglio.
BUCHI ROMANI Tra i tanti buchi censiti dalla commissione, ecco il disastro del patrimonio immobiliare: a 216 milioni ammonta «l’evasione di Imu e Tasi che sfugge agli accertamenti perché i dati presenti in catasto sono errati»; altri 100 milioni sono sprecati per il mancato adeguamento degli affitti (memorabile l’inquilino, dotato di Porsche, che paga 7,75 euro al mese per un appartamento in via del Colosseo); una quarantina di milioni se ne vanno per gli affitti irrisori di immobili non residenziali e 20 per le concessioni ridicole degli impianti sportivi (caso record: 5.500 euro al mese per l’intero ippodromo di Capannelle, 170 ettari, uno dei più grandi d’Europa). L’evasione della tassa sui rifiuti marcisce sui 50 milioni e quella sui mezzi pubblici viaggia sui 90.  Altri 10 milioni se ne vanno per le auto blu e 35 per l’evasione della tassa di soggiorno, mentre l’extracosto dei funzionari e dei dirigenti assunti grazie a Parentopoli nelle aziende del gruppo Roma Capitale è di 15 milioni.
DEFICIT MILIARDARIO Un miliardo e 200 milioni di sprechi sono un’enormità. Ma è anche l’ammontare del «disavanzo strutturale» del Campidoglio calcolato dalla società di consulenza Ernst&Young: «Un disavanzo fisso che, insieme alle spese per le somme urgenze e per i debiti fuori bilancio, come quelli per le bollette delle fontane», secondo il revisore legale Massimo Zaccardelli, membro dell’Oref capitolino fino allo scorso febbraio, «ha di nuovo portato Roma praticamente al default, benché non dichiarato». In tre parole: Roma è fallita. Di nuovo. E il suo bilancio fa acqua da tutte le parti, e non solo per colpa delle fontane.

giovedì 10 marzo 2016

Spesa pubblica: Gdf; truffe e sprechi, danni per 4 miliardi.

null © Ansa


Appalti irregolari per un miliardo. Aumentano gli evasori totali, quasi 8.500 nel 2015.


Tra sprechi nella Pubblica Amministrazione e truffe ai finanziamenti pubblici, lo Stato italiano ha subito nel 2015 un danno patrimoniale superiore ai 4 miliardi. Il dato è contenuto nel Rapporto annuale della Guardia di Finanza pubblicato oggi e disponibile on line sul sito internet e sul profilo Twitter ufficiale del Corpo. (LEGGI IL RAPPORTO

In particolare, gli uomini della Guardia di Finanza hanno scoperto che sono stati chiesti o percepiti in maniera illecita finanziamenti pubblici, comunitari e nazionali, per oltre un miliardo.
Complessivamente sono stati denunciati 4.084 soggetti, 38 dei quali arrestati. Le truffe al settore previdenziale e al sistema sanitario nazionale ammontano invece a oltre 300 milioni e hanno portato alla denuncia di 6.779 soggetti, 27 dei quali sono stati arrestati. Gli accertamenti svolti su delega della Corte dei Conti sono stati 2.644, che hanno portato alla segnalazione alla magistratura contabile di 8.021 soggetti.
Per quanto riguarda i reati contro la pubblica amministrazione, la Guardia di Finanza ha svolto 3.870 indagini e ha denunciato 3.179 persone - oltre la metà per abuso d'ufficio (56%), il 21% per peculato e il 23% per corruzione e concussione, 177 delle quali arrestate.
Appalti pubblici per oltre un miliardo, quasi un terzo del totale, sono stati assegnati in maniera illegale nel 2015. Dal rapporto annuale della Guardia di Finanza, infatti, emerge che sono stati controllati e monitorati appalti pubblici nel corso dell'anno per un valore complessivo di 3,5 miliardi e sono state riscontrate irregolarità per un miliardo. I finanzieri hanno inoltre denunciato 1.474 persone, 73 delle quali sono state arrestate.
E ancora, dai dati resi disponibiuli dalla Gdf emerge che aumentano gli evasori fiscali totali, vale a dire soggetti che pur avendo prodotto reddito risultano completamente sconosciuti al fisco: rispetto ai quasi 8mila individuati nel 2014, la Guardia di Finanza ne ha scoperti 8.485 nel 2015. Dal Rapporto annuale delle Fiamme Gialle, inoltre, emerge che sono stati denunciati per reati fiscali 13.665 soggetti, 104 dei quali arrestati. Ai responsabili di frodi fiscali sono infine state sequestrate disponibilità patrimoniali e finanziare per il recupero delle imposte evase per 1,1 miliardi ed avanzate proposte di sequestro per altri 4,4 miliardi. contro l'evasione e le frodi fiscali la Guardia di Finanza ha condotto nel 2015 quasi 20mila indagini di polizia giudiziaria e oltre 85mila tra verifiche, controlli e altre tipologie d'intervento. Servizi realizzati dopo una "attenta selezione preventiva e mirata degli obiettivi", sottolinea la Gdf, supportata anche dall'utilizzo di oltre 40 banche dati, dall'azione d'intelligence e di controllo del territorio. I finanzieri hanno inoltre individuato 2.466 casi di 'frodi carosello', attraverso la creazione di società fantasma e la costituzione di crediti Iva fittizi, e 444 casi di evasione internazionale, quasi tutti riconducibili ad una falso trasferimento della residenza all'estero. Individuati anche 5.184 datori di lavoro che hanno impiegato 11.290 lavoratori in nero e 12.428 lavoratori irregolari.
Quasi tre miliardi di sequestri per mafia. Beni mobili e immobili, 316 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per un valore complessivo di 2,9 miliardi sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza nel 2015. Il dato è contenuto nel Rapporto Annuale dal quale emerge che sono stati eseguiti accertamenti patrimoniali a carico di 9.180 soggetti condannati o indiziati di appartenere ad associazioni mafiose e prestanome, e 2.182 società. Le confische hanno invece riguardato 1.819 beni mobili e immobili, 93 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per 747 milioni.
 Irregolarità nel 30% delle sale scommesse - Su 5.765 controlli effettuati dalla Guardia di Finanza in sale giochi e centri scommesse, sono state riscontrate irregolarità nel 30% dei casi. Dal Rapporto annuale emerge inoltre che sono stati sequestrati 576 apparecchi automatici da gioco e 1.224 postazioni di raccolta di scommesse clandestine. I finanzieri, inoltre, hanno scoperto oltre 36 milioni di giocate nascoste al fisco
Il giro della contraffazione - Nel 2015 la Guardia di Finanza ha sequestrato oltre 390 milioni di prodotti contraffatti e pericolosi, per un valore stimato di circa 3 miliardi. Complessivamente, dice inoltre il Rapporto annuale, sono state tolte dal mercato 8.800 tonnellate e 31 milioni di litri di generi agroalimentari contraffatti o prodotti in violazione della normativa sul made in Italy e sequestrati 603 siti internet utilizzati per lo smercio di articoli contraffatti.