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lunedì 5 agosto 2024

La "Signora di Caviglione"

 

La "Signora di Caviglione" è una donna vissuta circa 24.000 anni fa. È stata scoperta il 26 marzo 1872 durante gli scavi guidati da Emile Riviere nella grotta di Caviglione, parte del sito archeologico Balzi Rossi, situato al confine italo-francese di Ventimiglia. #Archeologia #StoriaAntica

Durante questi scavi, è stata trovata una sepoltura che in passato era attribuita all'"uomo di Menton". Tuttavia, grazie all'esame del DNA, si è scoperto che lo scheletro apparteneva in realtà a una donna di alta statura, tra 170 e 172 cm, che aveva circa 37 anni e aveva avuto figli. #StoriaUmana #RicercheScientifiche

Questa donna faceva parte della cultura epigravettiana, sviluppatasi in un periodo caratterizzato da un clima freddo e secco tipico della fase finale della glaciazione Würm. #Preistoria #Glaciazione

Un dettaglio affascinante della sua sepoltura è una fascia ornamentale decorata con 300 conchiglie di Ciclope neritrea, un mollusco marino delle spiagge sabbiose. Queste conchiglie erano forate per essere legate insieme, e sui bordi c'era una frangia di denti rossi di cervo (Cervus elaphus). #ArtePreistorica #DecorazioniAntiche

Il corpo era coperto di ocra rossa, sepolto sul lato sinistro, rivolto verso ovest, con le mani vicino al viso e le gambe piegate. Questa donna potrebbe aver avuto un ruolo speciale nella sua società, forse come sciamana, e la sua sepoltura potrebbe essere stata cerimoniale. #SocietàAntiche #RitiFunerari

venerdì 11 giugno 2021

I piromani pompieri. - Marco Travaglio

 

L’altroieri il Corriere, che non fa neanche capoluogo, ha dichiarato guerra alla Germania (“Non è l’ora di prediche tedesche”) perché l’ex ministro Schäuble s’era permesso di criticare il governo italiano: ci fosse ancora Conte, benissimo; ma Draghi non si deve neppure nominarlo, se non con molta saliva. La Germania al momento non pare essersene accorta, ma vi terremo aggiornati. Ieri, poi, sono scesi in campo Massimo Franco e Stefano Folli, che viaggiano sempre in coppia come Ric e Gian, rispettivamente su Corriere e Rep. Il celebre duo, dopo aver puntellato e turibolato ogni governo che Dio mandasse in terra fino al 2018, cioè finché l’Italia finì sull’orlo della bancarotta, scoprì poi un’improvvisa vocazione guevarista e tupamara, bombardando il Conte-1 e il Conte-2 prima e dopo i pasti. Sempre sulle barricate, Max&Ste sparavano coi fuciletti a tappo sui “populisti” votati per sbaglio dagli elettori. Da fan sfegatati della “stabilità” purchessia, foss’anche per imbalsamare la mummia di B. a Palazzo Chigi, divennero scalmanati fedayyìn dell’instabilità. Non passava giorno senza che incitassero il loro piede di porco a scardinare il Conte-2 nel bel mezzo della pandemia e del Recovery. I loro mantra erano il Mes e gli inesistenti allarmi Ue per il Pnrr mal scritto, in ritardo, anti-Parlamento, senza governance, con governance ma con troppi tecnici (ben 300).

Poi arrivò Draghi, se ne fregò del Mes, copiò con qualche peggioramento il Pnrr, lo presentò in zona Cesarini, lasciò ben un’ora e un quarto al Parlamento per esaminarlo, varò una governance con 550 tecnici. E Gianni e Pinotto zitti e mosca. Riposta la kefiah nel cassetto, hanno rispolverato l’uniforme da pompieri. E la parola d’ordine pre-2018: nessuno tocchi il governo. Una vena di malinconia però increspa le loro maschere gaudenti: Conte ancora primeggia nei sondaggi e osa addirittura parlare. Folli non si dà pace: “Il ritorno in tv di Conte è stato commentato in modo negativo” (ne ha parlato col suo riportino) e non ha più “esercito” (e allora di che ti preoccupi?). Non solo “ha ripreso a parlare”, cosa già vergognosa in sé. Ma – quel che è più grave – ha “ripetuto formule ormai consunte del grillismo”: in effetti è bizzarro che il leader dei 5Stelle parli come un 5Stelle. Il pompierino Franco è, se possibile, ancor più affranto. Ha notato in Conte uno “smarcamento” da Draghi, e questo è già brutto. Poi ha scorto nel M5S una pericolosa “nostalgia di Palazzo Chigi”: in democrazia, nulla è più riprovevole del partito di maggioranza relativa che pretende financo di guidare il governo. Se chi prende il 33% dei voti s’illude di governare al posto di chi non ne ha mai preso uno, dove andremo a finire.

ILFQ.

sabato 25 luglio 2020

Moesch & Chandon. - Marco Travaglio

Politica e economia: l'assenza della cultura laica - Conversazione ...
Giuseppe Moesch

Nella pochade del compianto giudice Amedeo Franco, che prima condanna B. a 4 anni per frode fiscale insieme a quattro colleghi della sezione Feriale della Cassazione, poi firma tutte e 208 le pagine delle motivazioni, infine va a casa del suo condannato a dirgli che lui non voleva ma fu costretto dai quattro cattivoni del “plotone di esecuzione pilotato da molto in alto”, irrompe un nuovo personaggio da vaudeville francese: Giuseppe Moesch. L’ha scovato, o ne è stato scovato, Alessandro Sallusti che l’ha intervistato sul Giornale presentandolo come “amico fraterno di Franco, professore di Economia applicata, vasta esperienza all’estero”, già “nella squadra di giovani talenti che affiancava Giovanni Spadolini presidente del Consiglio”. Gli manca solo il Nobel. Dell’unica novità emersa negli ultimi giorni – i tentativi di Franco di registrare i colloqui in camera di consiglio, per legge segretissimi – dice: “Mai saputo nulla”. Dunque l’intervista dovrebbe chiudersi qui, invece qui comincia e prosegue per ben due pagine. Uno spasso. Moesch nulla sa del registratore attivato da “Dedi”, ma non ha dubbi che “se Dedi l’ha fatto è la prova di quanto fosse turbato per trovarsi coinvolto in un plotone di esecuzione”.
Cioè: siccome era turbato, violò la legge mentre giudicava gli altri. E mica solo per quello: l’“amico fraterno”, pensando di far cosa gradita, gli attribuisce una seconda scorrettezza: “ben prima del suo coinvolgimento diretto nel processo, essendo un grande esperto di questioni tributarie, si era fatto l’idea che non ci fossero i presupposti per una condanna, cosa del resto poi confermata da una sentenza del tribunale civile di Milano”. Naturalmente la sentenza civile dice tutt’altro (tratta di diritti Mediatrade e non Mediaset, cioè fatti diversi e successivi), e comunque una sentenza di primo grado, per giunta civile, non può cancellarne una penale e definitiva della Cassazione conforme a ben due giudizi di merito. Ma soprattutto: se Franco, prima del processo, “si era fatto l’idea” che andasse assolto e per giunta l’aveva confidato all’amico anticipando il giudizio, doveva astenersi dal processo. Art. 36 Codice di procedura penale: “Il giudice ha l’obbligo di astenersi… se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie”. Invece, sebbene fosse dichiaratamente prevenuto, restò addirittura come relatore. Ma più l’amico fraterno tenta di riabilitarlo e più lo sputtana. Infatti rivela una terza grave infrazione: prima di spifferare i segreti della camera di consiglio al suo condannato B. (quarta scorrettezza), Dedi li spiattellò a lui.
Addirittura prima della sentenza, fra un’udienza e l’altra: “Da subito mi aveva confidato il dissenso con gli altri magistrati del collegio, che sembravano prevenuti, come se la sentenza fosse già decisa prima”. Ma l’unico che l’aveva già decisa prima era lui: sognava di far parte di un plotone di assoluzione, ma gli andò buca. Gli confidò anche che “non c’era motivo di accelerare il giudizio della Cassazione incardinando il fascicolo nella sessione feriale di agosto invece che in quella naturale in autunno. Da subito gli sembrò una forzatura sospetta”. Talmente sospetta che, a spedire d’urgenza il fascicolo su B. alla Feriale, di cui faceva parte anche Franco, per l’imminente prescrizione, era stata la III sezione, di cui uno dei presidenti era Franco. Resta il mistero del perché, se era così innocentista, non verbalizzò il suo dissenso (come prevede la legge) in busta chiusa allegata alla sentenza, che invece firmò pagina per pagina insieme ai quattro del plotone di esecuzione. Ma qui Moesch si supera: “Io gli consigliavo di fare una relazione di minoranza (testuale, ndr) o di non firmare”, ma lui “era prigioniero della sua rigidità”, della “ragione di Stato”, del “senso del dovere”. Un po’ come “la protagonista del romanzo La scelta di Sophie, la donna che rinchiusa in un campo di concentramento ha la possibilità di salvare solo uno dei figli, ma non riesce a decidere quale e questa maledizione la perseguiterà per tutta la vita”. Pare di vederlo, il povero ostaggio Dedi, scheletrito, emaciato, piegato e piagato dal lungo digiuno nelle segrete del Palazzaccio e dalle sevizie inflitte dai quattro colleghi-aguzzini armati di elettrodi, acqua e sale e mazze ferrate, che firma con mano malferma le 208 pagine per porre fine ai patimenti e ottenere un bicchier d’acqua.
Ecco perché poi andò da B. a scusarsi: “venne fuori la sua anima cattolica e liberale” e lo spinse a “liberarsi di questo peso”, a “espiare il peccato” e a “confessarsi dalla vittima” (i cattolici si confessano dal prete, ma fa lo stesso). Forse accecato dalle lacrime e obnubilato dallo strazio, l’amico fraterno dimentica un dettaglio: a portare il giudice dal suo condannato B. non fu il rimorso, ma l’amico e collega Cosimo Ferri, ex capo di MI, ex membro del Csm, allora sottosegretario alla Giustizia del governo Letta per Forza Italia. Un accompagnatore davvero bizzarro per un giudice che – giura Moesh – “era profondamente disgustato” dalla “giustizia politicizzata” e “irritato e sofferente per la politicizzazione del Csm”. Fossimo nei famigliari di Dedi, rivolgeremmo una preghiera agli amici fraterni: “Grazie del pensiero, ma d’ora in poi astenetevi da ulteriori riabilitazioni: come se avessimo accettato”.

venerdì 17 luglio 2020

Sull’audio pro-Berlusconi ora indagano i pm di Roma. - Valeria Pacelli

Sull’audio pro-Berlusconi ora indagano i pm di Roma

La denuncia di Esposito - Il giudice querela Piero Sansonetti, ma la Procura farà approfondimenti sul nastro di Amedeo Franco.
La vicenda dell’audio di Amedeo Franco , il giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset, arriva in Procura a Roma. I pm capitolini faranno approfondimenti sulla registrazione in cui si sente il giudice parlare di “plotone d’esecuzione”, di “porcheria” e “condanna a priori”. Le indagini verranno disposte nell’ambito di un fascicolo che sarà aperto dopo la denuncia, depositata ieri mattina, da Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale che ha emesso quel verdetto. Il fascicolo quindi parte da altro. Il giudice ora in pensione infatti ha denunciato per diffamazione il direttore del quotidiano Il Riformista, Piero Sansonetti, per alcune affermazioni fatte durante una puntata di “Quarta Repubblica”, la trasmissione in onda su Rete 4 diretta da Nicola Porro.
Era il 6 luglio scorso. “Noi sappiamo oggi che la magistratura italiana è marcia. – ha detto Sansonetti – (…) I pubblici ministeri e i giudici spesso si mettono d’accordo. Gli imputati sono travolti. Le garanzie non ci sono. Moltissimi processi sono truccati. Tutta la magistratura italiana è sotto accusa. E purtroppo (…) i grandi giornali italiani ne parlano poco, ma è una tragedia perché lo stato di diritto è stato travolto dalle trame della magistratura italiana”. Poi aggiunge: “E quella del giudice Esposito fa parte, sta dentro questa storia”, frase questa finita nella denuncia di Esposito. Come pure quando il giornalista dice: “Il giudice Esposito è uno scandalo vivente, così come uno scandalo vivente sono decine di altri giudici”.
Per questo il magistrato ha denunciato per diffamazione Sansonetti chiedendo ai pm anche se vi siano gli estremi per contestare il reato di vilipendio dell’ordine giudiziario. E questa è la denuncia di Esposito. Per verificare però la diffamazione, si ragiona in Procura, bisogna capire anche l’antefatto, la circostanza alla quale si riferiscono le parole di Sansonetti. E quindi quell’audio che da giorni una certa stampa innalza a “prova” per riabilitare Berlusconi e che è stato depositato dalla difesa del leader di Forza Italia a sostegno del ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Come noto, in quella registrazione del 6 febbraio 2014, il giudice Amedeo Franco, deceduto un anno fa, rinnega la sentenza che lui stesso aveva firmato. “I pregiudizi per forza che ci stavano (…) Si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”, dice Amedeo Franco portato al cospetto dell’ex premier da Cosimo Ferri, leader storico della corrente Magistratura indipendente, in passato sottosegretario alla Giustizia del governo di Enrico Letta e ora in Italia Viva.
Perché Franco si presentò dall’ex premier? Chi avviò la registrazione? Perché le dichiarazioni del giudice sono state rese pubbliche integralmente solo un anno dopo la sua morte? C’è qualcosa ancora di ignoto dietro quelle registrazioni?
L’inchiesta penale, in futuro, potrà trovare le risposte.

mercoledì 1 luglio 2020

Berlusconi e la sentenza definitiva per frode. Il giudice Esposito: “Non sanno di cosa parlano. E il collega controfirmò tutto”. - Gianni Barbacetto

Berlusconi e la sentenza definitiva per frode. Il giudice Esposito: “Non sanno di cosa parlano. E il collega controfirmò tutto”

Il giudice Antonio Esposito è stato il presidente della sezione feriale della Cassazione che il 1° agosto 2013 ha confermato e resa definitiva la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale.
Ha ascoltato le registrazioni in cui il suo collega Amedeo Franco dice che lui non era d’accordo e che è stato tutto un complotto contro Berlusconi?
Chiariamo subito un fatto: la decisione di confermare la sentenza d’appello è stata presa da un collegio di cinque giudici. Il collega Amedeo Franco era il giudice relatore e, come tutti noi, non solo ha discusso il caso, ha accettato la sentenza di cui è stato anche estensore insieme agli altri componenti, e ne ha anche approvato la motivazione, in tutte le sue parti, firmando ogni pagina.
Poi cosa è successo?
A distanza di sette anni si continua a provare a delegittimare una sentenza passata in giudicato, dopo che 11 magistrati hanno convenuto sulla responsabilità di Berlusconi, prendendomi di mira in quanto presidente del collegio. Io invece mi chiedo perché il relatore senta il bisogno di incontrare il suo imputato per giustificarsi dell’esito del processo. Ritengo che sia questo il vero fatto gravissimo e inquietante di tutta la vicenda. E mi devo chiedere: dove avvenne quell’incontro, o quegli incontri? Quando? In che circostanze? Da chi fu sollecitato?
La registrazione è stata fatta a insaputa del giudice, dunque è abusiva?
Non lo so. Potrebbe anche essere stata concordata; una cosa è certa: che si è aspettato la sua morte per divulgare il contenuto della registrazione, rendendo impossibile contestare al giudice Franco la falsità delle affermazioni.
Lei sapeva di questa registrazione?
Sì, ne aveva accennato Berlusconi nel 2017 nel programma di Bruno Vespa, dicendo che “aveva la prova” contenuta in una registrazione che la sentenza di Cassazione era a suo dire viziata. L’ho subito citato in sede civile; mi ero riservato di chiedere al giudice che ordinasse il deposito della registrazione.
Lei e gli altri quattro giudici del collegio subiste pressioni per condannare Berlusconi?
Nessuna pressione per condannare, ricordo solo, e la questione potrebbe non avere alcun rilievo, che fui invitato molto gentilmente da Cosimo Ferri, a Pontremoli, al premio Bancarella. Mancavano due settimane alla sentenza e per motivi d’opportunità declinai l’invito.
Amedeo Franco nella registrazione mostra di essere in netto disaccordo con la sentenza.
Franco dice che i precedenti della terza sezione erano di segno opposto alla nostra decisione. E questo non è vero: mente sapendo di mentire, perché nella sentenza abbiamo riportato per numerose pagine precedenti sentenze proprio della terza sezione, le cui decisioni sul sistema delle “frodi carosello” (lo stesso sistema contestato al Berlusconi) erano in linea con quanto abbiamo sostenuto nelle nostre motivazioni. Anzi dirò di più. Riportammo anche la sentenza, sempre della terza sezione, che aveva rigettato il ricorso di Agrama (per le precedenti annualità fiscali).
Avete condannato senza prove?
Negli atti del processo vi è un’imponente prova testimoniale e documentale, tra cui di fondamentale importanza la “lettera-confessione” di Agrama, scritta a Fininvest nel 2003.
È vero che, per far condannare l’imputato, la sentenza fu dirottata a voi della feriale, mentre doveva andare alla sezione reati fiscali?
Nulla di più falso.
Il processo da Milano arriva in Cassazione proprio alla terza sezione penale, quella di Amedeo Franco. E fu proprio la terza sezione ad investire la sezione feriale del processo in questione, inviando il fascicolo il 9 luglio 2013, con la scritta “URGENTISSIMO, prescrizione 1 agosto”. Una volta ricevuto, io ho l’obbligo di fissare l’udienza il 30 luglio, per evitare la prescrizione.
Il vostro collegio feriale è stato formato come un “plotone d’esecuzione” per condannare Berlusconi?
Non sanno di che cosa parlano. O lo sanno e volutamente tacciono: la composizione dei collegi della sezione feriale del 2013 avvenne il 21 maggio con decreto del presidente della corte di cassazione. Gli atti del processo Berlusconi arrivano a Roma da Milano all’inizio di luglio: 40 giorni dopo che i collegi erano stati costituiti.
Il giudice Franco dice che lei era “pressato” dalla Procura di Milano perché suo figlio Ferdinando, pm a Milano, era coinvolto in storie di droga.
Falso. Mio figlio non è mai stato coinvolto in storie di droga. E io non sono stato “pressato” da nessuno. Se Franco è giunto al punto di inventarsi una circostanza mai avvenuta, di fronte al soggetto che lui stesso aveva condannato, è lecito chiedersi il perché…

giovedì 31 gennaio 2019

Il franco Cfa e quella lunga scia di sangue in Africa. - Giancarlo Mazzucca

Luigi di Maio e sullo sfondo Emmanuel Macron (Imagoeconomica)
Luigi di Maio e sullo sfondo Emmanuel Macron (Imagoeconomica)


Dalla Tav ai gilet gialli, dall'Europa all'Onu: in questo momento pare proprio che, anziché il Monte Bianco, ci sia un oceano che divida l'Italia dalla Francia. Tra gialloverdi e dintorni, sembra che tutto faccia brodo per poter criticare Macron e i “cugini”. Dopo i ripetuti “J' accuse” di Salvini, ecco, dunque, i “grillini” Di Maio e Di Battista che hanno tirato in ballo il franco Cfa, la moneta che circola in 14 Stati del continente nero. Secondo loro, Parigi starebbe sfruttando la sua posizione di ex potenza coloniale per continuare a controllare l'Africa sul piano geopolitico. Tutto grazie, appunto, al “franc de la Communauté financière africaine”, il franco Cfa. L'affermazione del vicepresidente del Consiglio e del suo compagno di partito non sembra, però, avvalorata dalle statistiche che parlano di un “trend” in costante calo per la Francia: basti pensare che, tra il 2000 e il 2017, l'export transalpino a sud del Mediterraneo si è dimezzato tanto da essere scavalcato da quello tedesco.
Ma, dati economici a parte, le vicende degli ultimi decenni dimostrano, comunque, che la coesistenza valutaria francese con le ex-colonie non è stata indolore: è sufficiente ripercorrere, al riguardo, alcuni episodi significativi. Cominciamo dal 1963: Sylvanus Olympio, primo presidente eletto del Togo, si rifiuta di sottoscrivere il patto monetario con Parigi e stabilisce che il Paese avrebbe battuto una divisa nazionale. Appena tre giorni dopo, Olympio viene rovesciato e assassinato in un “golpe” condotto da ex militari dell'esercito coloniale francese. 1968: Modioba Keita, primo presidente della Repubblica del Mali, annuncia l'uscita dal franco Cfa che considera una trappola economica ma è subito vittima di un colpo di Stato guidato da un ex legionario francese.
Arriviamo al 1987: Thomas Sankara, primo presidente del Burkina Faso indipendente, viene detronizzato ed ucciso subito dopo aver dichiarato la necessità di liberarsi dal giogo del franco Cfa. Ancora: nel 2011 il presidente della Costa d'Avorio, Laurent Gbagbo, decide anche lui di abolire il Cfa sostituendolo con la Mir, Moneta ivoriana di resistenza. Mal gliene incolse perché le forze speciali francesi l' arrestano dopo aver bombardato il palazzo presidenziale. Per non parlare della deposizione, sempre nel 2011, di Gheddafi: secondo una fonte confidenziale, a provocare la reazione dell'allora capo dell'Eliseo Sarkozy sarebbe stata la volontà del dittatore di creare una nuova valuta panafricana, il dinaro libico, sostenuta dalle ingenti riserve auree di Tripoli, proprio in alternativa al franco Cfa. Insomma, la storia parla chiaro: il pugno di ferro ha spesso prevalso sul dialogo . Ma, al di là delle opinioni, “grillini” o non “grillini”, un fatto è certo: fino a ieri il franco Cfa era in Italia un oggetto misterioso o quasi, adesso lo conosciamo tutti.
https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-01-27/il-franco-cfa-e-quella-lunga-scia-sangue-africa--092859.shtml?uuid=AFq1DG&refresh_ce=1

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L'ironia del giornalista sembrerebbe alquanto sterile visto che anche su wiky si legge:              
"fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi del CFA (almeno il 65% delle posizioni in riserva depositate presso il Tesoro francese, a garanzia del cambio monetario); qui il link: https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_CFA#Storia

martedì 22 gennaio 2019

Di Maio svela il trucco del Franco coloniale CFA. - Maurizio Tortorella



Davanti agli occhi preoccupati di Fabio Fazio, con ampio gesto teatrale, domenica sera Alessandro Di Battista ha strappato una banconota sul tavolo di Che tempo che fa, sostenendo che quel pezzo di carta sia lo strumento attraverso il quale la Francia continua a sfruttare le risorse del Continente nero, ne frena la crescita e obbliga i giovani a emigrare: «Finché non si eliminerà questa moneta», ha aggiunto l’ ex parlamentare grillino, «le persone continueranno a scappare dall’ Africa e a morire in mare».

Poco dopo Giorgia Meloni, sventolando una banconota simile nella trasmissione Non è l’ Arena di Massimo Giletti, è andata all’ attacco del «neocolonialismo francese, che fa usura con la sua valuta». Ma già la mattina di domenica aveva aperto le ostilità Luigi Di Maio, che parlando alla folla di un comizio ad Avezzano l’ aveva indicata come «moneta imposta con la quale la Francia finanzia il suo debito pubblico sfruttando le sue ex colonie». Affermazione che 24 ore dopo ha prodotto la convocazione della nostra ambasciatrice a Parigi Teresa Castaldo (che, per la cronaca, quando era di stanza in Argentina ospitò la Boschi per far campagna per il sì al referendum costituzionale) da parte del ministero degli Esteri francese «a seguito di frasi ostili e senza motivo».

Il vicepremier, in serata, ha poi rincarato la dose: «Non è un caso diplomatico, è tutto vero. La Francia, stampando una moneta per 14 stati africani, impedisce lo sviluppo dell’ Africa e contribuisce alla partenza dei migranti che poi muoiono sulle nostre coste». Poi una richiesta all’ Ue: «Chiederemo all’ Europa di affrontare il tema della decolonizzazione dell’ Africa che non è mai finita».



La valuta delle 1.000 polemiche è il franco Cfa, istituito il 25 dicembre 1945 per iniziativa del presidente francese Charles De Gaulle, e da quel momento divenuto moneta comune per circa 160 milioni di abitanti in 14 Paesi africani.

Di questi, 12 erano colonie francesi (Camerun, Ciad, Gabon, Repubblica Centrafricana, Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’ Avorio, Mali, NIger, Senegal e Togo) e due erano colonie portoghesi (Guinea Equatoriale e Guinea Bissau).

Settantaquattro anni fa, la sigla Cfa significava «Colonie francesi d’ Africa» e oggi non è mutata, ma (con qualche ipocrisia) sta per «Comunità finanziaria africana».

Da allora, il franco Cfa è sempre stato stampato fisicamente dalla Banque de France e ha avuto il cambio fisso prima con il franco francese e oggi con l’ euro. Secondo i suoi tanti detrattori, certo non soltanto italiani, attraverso quella valuta «imposta» Parigi ha sempre tenuto letteralmente per il collo i 14 Paesi aderenti: metà del valore dei franchi Cfa emessi ogni anno, l’ equivalente di una dozzina di miliardi di euro, viene trattenuto a Parigi su un conto speciale del ministero del Tesoro come garanzia per compensare eventuali fluttuazioni del cambio.

Quindi paradossalmente, sia pure in piccola parte, con i soldi degli africani Parigi finanzia il suo debito pubblico. L’ aspetto ancora più contestato, però, è che il cambio troppo alto del franco Cfa da anni strangola le economie africane, e così spinge i loro abitanti all’ emigrazione.

La primogenitura dell’ attacco al franco Cfa storicamente spetta a Fratelli d’ Italia.
Oggi la bandiera di guerra sventola anche nelle mani del Movimento 5 stelle, da mesi all’ attacco frontale di Emmanuel Macron. Anche in questo in piena sintonia con il movimento dei «gilet gialli» (che in dicembre avevano colorato un’ affollata protesta di piazza contro il franco Cfa a Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana), i grillini sostengono che nella moneta «teleguidata» da Parigi si nasconda un vergognoso residuo di colonialismo che comprime l’ economia africana, e puntano il dito sui suoi potenti effetti migratori, disastrosi soprattutto dal punto di vista italiano.
Sicuramente il franco Cfa, da anni, è quantomeno una moneta controversa: lo scorso settembre, per esempio, una giornalista francese, Fanny Pigeaud, e l’ economista senegalese Ndongo Samba Sylla hanno pubblicato il saggio L’ arma invisibile della Françafrique: storia del franco Cfa. Il libro presenta la moneta come «causa principale del sottosviluppo». I due ricordano che il franco Cfa impedisce agli Stati aderenti al trattato del 1945 di manovrare i tassi di cambio e di organizzare una loro politica monetaria. Se i 14 Paesi dovessero esportare stabilmente in Europa e in Usa, dovrebbero utilizzare una moneta più competitiva, come quelle asiatiche, mentre l’ euro è quasi sempre più forte del dollaro.

È vero che il franco Cfa da 74 anni è uno strumento di controllo a distanza delle vecchie colonie, nelle mani di Parigi.

La Gran Bretagna, che pure conserva intensi legami commerciali con il suo antico impero nel Commonwealth, non ha mai obbligato nessuno dei suoi 54 ex possedimenti all’ uso di un cambio fisso con la sterlina, né alla creazione obbligatoria di una moneta collegata.
Chi invece minimizza la questione sostiene che il franco Cfa non abbia nulla di vessatorio né di obbligatorio, e che garantisca soltanto stabilità.

Nel luglio 2017, in effetti, un Macron appena eletto presidente aveva affrontato il tema parlando a Bamako, in Mali: «Se non si è felici nella zona franco Cfa», aveva dichiarato monsieur le president, «la si lascia e si crei una propria moneta come hanno fatto Mauritania e Madagascar. Se invece si resta dentro, bisogna smetterla con le dichiarazioni demagogiche che indicano il franco Cfa come capro espiatorio dei vostri fallimenti politici ed economici, e la Francia la fonte dei vostri problemi».
Però va ricordato che chi ha tentato in passato di uscire dal franco Cfa, proprio come il Mali e la Costa d’ Avorio, è stato velocemente costretto alla retromarcia dalle pesanti contromisure finanziarie di Parigi.

Quanto all’ emigrazione, chi minimizza gli effetti del franco Cfa sottolinea che, per l’ Italia, gli sbarchi di immigrati partiti dai 14 Paesi nel 2018 sarebbero piccola cosa: «Il primo Paese che adotta il franco Cfa è la Costa D’ Avorio, da cui sono arrivate 1.064 persone su 23.370», si leggeva ieri su ilfoglio.it. Però, in base ai dati ufficiali dell’ Alto commissariato delle Nazioni unite, la Guinea (la statistica non indica se si tratti della Guinea Bissau o di quella Equatoriale) è il primo Paese di provenienza per quanti l’ anno scorso hanno attraversato il Mediterraneo e sono sbarcati in Europa: 13.068 immigrati, l’ 11,5% del totale; il Mali si è piazzato al terzo posto con 10.347 immigrati, il 9,1%; e la Costa d’ Avorio si è piazzata all’ ottavo posto con 6.085 sbarcati, il 5,3% del totale. Insieme, i tre Paesi valgono il 25% dell’ emigrazione nel Vecchio continente. 

(Maurizio Tortorella – la Verità)

https://infosannio.wordpress.com/2019/01/22/di-maio-svela-il-trucco-del-franco-coloniale-cfa/

domenica 18 gennaio 2015

Franco svizzero, la sottile linea tra protezione e bolla speculativa. - Alberto Bagnai

La decisione della Banca Nazionale Svizzera (BNS) di sganciare il franco dall’euro, determinandone un brusco rincaro, ha colto tutti di sorpresa. Gli industriali svizzeri già se ne lamentano: per valutare il significato di questa mossa è quindi utile ricordarne motivazioni e conseguenze.
Già a fine 2008 lo sconquasso causato dalla Lehman Brothers aveva spinto al rialzo la valuta svizzera, classico “bene rifugio”. Dopo una fase di relativa stabilità, nel 2010 lo scoppio della crisi dei debiti sovrani, che sembrava minacciare la sopravvivenza dell’euro, aveva alimentato gli acquisti di franchi, facendogli guadagnare un ulteriore 18 per cento fino all’autunno del 2011. 
Nata come operazione difensiva, l’acquisto di franchi stava diventando una vera e propria bolla speculativa (la situazione in cui gli investitori acquistano uno strumento finanziario solo perché si aspettano che il prezzo salga, e domandandolo contribuiscono a farne crescere il prezzo, convalidando così le proprie aspettative).
Con buona pace di chi vede nella Svizzera solo un paradiso fiscale, l’incidenza del manifatturiero sul valore aggiunto è più alta in Svizzera che in Italia (rispettivamente, 19 per cento e 15 per cento del valore aggiunto totale). Escludendo chi vede nella svalutazione una piaga biblica sempre e comunque, sarà facile agli altri capire che all’industria svizzera un franco così alto non faceva comodo, perché penalizzava le esportazioni. Da qui la decisione di arrestarne l’ascesa al livello di 0.80 euro per franco.
La situazione si è mantenuta stabile fino giovedì. L’annuncio della BNS che non avrebbe più “difeso” la parità ha spinto in apertura il franco ad apprezzarsi del 25 per cento sull’euro, per poi stabilizzarsi intorno a 0.96 euro per franco. Il fatto è che il mantenimento della parità, se da un lato tutelava le imprese svizzere, dall’altro aveva conseguenze negative sulla composizione del portafoglio di investimenti esteri del paese.  
Per mantenere il cambio stabile, la BNS doveva soddisfare la domanda di franchi, vendendoli in cambio di dollari ed euro. La Svizzera si era così trovata ad avere uno stock di riserve ufficiali spropositato, classificandosi quarta dopo Giappone, Cina e Arabia Saudita (paesi esportatori di ben altre dimensioni), con un rapporto riserve/Pil vicino all’80 per cento (negli altri paesi avanzati questo rapporto normalmente è a una cifra).
Nell’economia generale di un paese essere così ricchi di valute pregiate (o supposte tali) non è una cosa così buona come sembra, perché l’investimento in valute è meno redditizio di altri investimenti esteri. Inoltre, restando agganciato all’euro il franco ne stava condividendo il triste destino nei confronti del dollaro, perdendo quasi il 15 per cento rispetto a quest’ultimo nell’ultimo anno.  
Si sostiene, credo con fondamento, che la BNS abbia voluto anticipare gli effetti del quantitative easing di Draghi, il programma di acquisto di titoli di Stato che ci si attende contribuisca a un ulteriore indebolimento dell’euro rispetto al dollaro. Le conseguenze sarebbero state una ulteriore flessione rispetto al dollaro (che avrebbe compromesso lo status di valuta “forte” del franco), e un’ulteriore fuga dall’euro verso il franco (che avrebbe costretto la BNS a imbottirsi ulteriormente di una valuta come l’euro, soggetta a una tendenza ribassista, e forse, chissà, a rischio di estinzione).
L’improvviso rincaro del franco è un segnale che dovrebbe scongiurare queste due eventualità. Sarà interessante seguire la vicenda.