giovedì 12 dicembre 2013

11-Dic.2013- Alessio Villarosa, (M5S)Sfiducia al governo Letta

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”


Ci sono tutti i retroscena del patto tra Cosa nostra e le Istituzioni nella deposizione di Giovanni Brusca, l'ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d'assise di Palermo in trasferta all'aula bunker Milano. Dove non c'era per le minacce ricevute il pm Di Matteo.

Il papello con le richieste di Riina consegnato a Mancino e la strage di Capaci anticipata per scalzare Giulio Andreotti nella corsa al Quirinale. Dopo quel botto spaventoso, gli uomini di Cosa Nostra brindarono due volte. Ci sono tutti i retroscena della Trattativa Stato – mafia nella deposizione di Giovanni Brusca, l’ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d’assise di Palermo in trasferta all’aula bunker Milano.
“Riina diceva che ad Andreotti dovevamo rompere le corna, ostacolandolo, non facendolo diventare presidente della Repubblica. E ci siamo riusciti, anche anticipando la strage Falcone. Dopo il 23 maggio, Riina mi disse: con una fava abbiamo preso due piccioni” ha detto il pentito, nella prima delle tre udienze milanesi programmate per la sua deposizione. L’ex padrino di San Giuseppe Jato è diventato collaboratore di giustizia nel 2000, iniziando a raccontare dei rapporti di Cosa Nostra con la politica soltanto alcuni anni dopo. “Perché non raccontai subito dei rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri? Decisi di dire tutto quello che sapevo dopo aver incontrato Rita Borsellino che voleva sapere la verità sulla morte del fratello. A lei io diedi l’anima e da quel momento non mi interessò più di mafia, di giustizia, di niente” ha detto Brusca, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi.
Sui banchi dell’accusa svetta l’assenza del pm Nino Di Matteo: l’uomo che forse più di tutti conosce i vari rivoli del processo sul patto Stato – mafia è stato bersaglio continuo di pesanti minacce di morte da parte del boss Totò Riina, che proprio a Milano è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Opera. Il nome del boss corleonese è citato a più riprese da Brusca, che ha raccontato alla corte i retroscena del biennio stragista, prequel del nuovo patto Stato-mafia.
Tutto comincia nel 1991, quando Riina illustra ai suoi luogotenenti il piano di aggressione allo Stato. “Nel corso di una riunione, nel ’91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse: gli dobbiamo rompere le corna. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. La prima vittima della furia corleonese è Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del 1992 sul lungomare di Mondello. “La priorità degli omicidi la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: si è trattato di una vendetta con effetto politico, in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima” ha spiegato il boss di San Giuseppe Jato, che all’epoca svolse un ruolo fondamentale nell’intelligence di morte interna a Cosa Nostra. “Mannino doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”. Anche l’ ex ministro Calogero Mannino – così come lo stesso Brusca, Riina e altre otto persone tra boss mafiosi, politici e ufficiali dei carabinieri – è accusato di violenza a corpo politico dello Stato nel processo sulla trattativa, ma ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato.
Dopo i politici, Cosa Nostra decide di colpire Falcone, distruggendo nello stesso momento le residue ambizioni che Andreotti nutriva per il Quirinale. “Io nell’attentato di Giovanni Falcone, nel suo piano esecutivo, ci sono entrato per sbaglio” ha spiegato Brusca, che in Cosa Nostra si era già guadagnato l’appellativo di Verru, cioè il porco. “Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone – continua Brusca – Toto’ Riina mi disse: si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”. Anche l’ex vicepresidente del Csm è imputato nel processo ma per falsa testimonianza. Brusca ha anche raccontato che dopo l’omicidio di Falcone, Riina ipotizzò di eliminare anche Pietro Grasso: attentato che poi per motivi tecnici non si fece mai.
È però la strage di Capaci lo spartiacque che terrorizza l’intero Paese. Brusca ha raccontato come l’omicidio di Falcone fosse in origine stato progettato fuori dalla Sicilia, a Roma, dove da qualche tempo il magistrato era andato a dirigere gli affari penali del ministero della Giustizia. “Siccome chi doveva farlo stava perdendo tempo Riina si rivolse a me e mi diede quel compito: voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato, infatti mi disse di impiegare mille chili di esplosivo”. Una decisione, quella di ammazzare Falcone in Sicilia, che contrappone, forse per la prima volta, le due anime di Cosa Nostra: quella di Riina e quella di Provenzano. “Avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità.Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: io lo devo uccidere qua”.
Il 23 maggio del 1992 a guardare le tre Fiat Croma blindate che sfilano sull’autostrada c’è anche Brusca: ha in mano un telecomando, che aziona quando mancano meno di tre minuti alle 18, scatenando quello che i boss definirono l’Attentatuni, il grande attentato per assassinare il loro più acerrimo nemico.

mercoledì 11 dicembre 2013

Renzi 'Rottame Team': la filo Pdl, il raccatta voti e la demitiana...

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Ecco a voi il "Rottame team" di Renzi, il camaleontismo che avanza.

Dopo essersi recato ad Arcore da Berlusconi nel 2011 ed aver ricevuto appena eletto i complimenti del condannato ("Ti avevo capito quella volta ad Arcore"),Matteo Renzi ha lanciato la sua mirabolante squadra.
Tra questi la responsabile Lavoro Marianna Madia, alla seconda legislatura. Era tra i parlamentari del PDmenoelle che non si presentò a votare contro lo scudo fiscale di Tremonti. Il 28 agosto di quest'anno dichiarava "Meglio votare Pdl che Grillo", aggiungendo "i grillini non sono fascisti, ma violenti".
Violenti? La filo berlusconiana Madia può citare un solo atto di violenza compiuto in questi anni dal Movimento 5 Stelle o dai Meet Up? Zero assoluto.
Andreottianamente innovativa la scelta per il Welfare, con il palermitano rampante Davide Faraone il quale, durante le regionali 2008 in Sicilia mentre raccatava voti a Palermo ha incontrato persone poi condannate per mafia.
Chissà cosa ne pensa di questi incontri palermitani la già seguace di Ciriaco De Mita Pina Picierno, neo responsabile legalità del Pdmenoelle. Appena eletta nel 2008 dichiarò "De Mita è il mio mito" tanto che su di lui fece la tesi di laurea.

La Picierno nell'ultimo anno si è piegata al "lato oscuro della forza". Il 16 novembre 2012 in piene primarie si schierava per Bersani contro Renzi con queste parole: "Se perdiamo primarie il partito non tocchi i rottamatori dice Renzi. E per chi ci ha preso per renziani?!". Un anno dopo, l'8 dicembre 2013 scriveva su twitter: "votare oggi Renzi significa far #cambiareverso anche a Saturno e al lato oscuro della forza, perciò datemi una mano..."
Non ci credete? Guardate qua sotto:

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Convertita anche Deborah Serracchiani, neo responsabile Infrastrutture (favorevole al TAV in Val Susa) il 7 settembre 2012 dichiarava: "Renzi dovrebbe restare a fare il sindaco di Firenze. Se fosse in lui mi sarei presa un pò più di tempo perchè magari i fiorentini vogliono un sindaco che magari resti a lungo".
Ma non è finita qui. Appena nominata responsabile della Giustizia Alessia Morani ospite di La7 ha nuovamente difeso il ministro Cancellieri dalla bufera per le sue amicizie con la famiglia Ligresti. "Il nuovo Pd non riaprirà il caso" ha dichiarato solennemente la Morani (potete ascoltare l'audio integrale QUI: Morani su Cancellieri - audio.mp3).
Ma Renzi non doveva mandare a casa la Cancellieri? Il 21 novembre 2013 dichiarò Renzi: "Il vecchio Pd l'ha difesa, il nuovo no"....
A futura memoria qualche voto in Parlamento da parte dei responsabili del Rottame team renziano. Solo per citarne alcuni come Davide Faraone, Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Chiara Braga, Pina Picerno, Alessia Morani hanno votato a favore del progetto TAV in Val Susa e della proroga delle missioni di guerra e contro la mozione di sfiducia al ministro Cancellieri.
Questi i fatti. Tutto il resto è marketing di vecchia berlusconiana memoria, con i mass media proni a incensare il "camaleonte che avanza".
P.S.: Ai solerti benpensanti, segnaliamo inoltre gli insulti rivolti ai giornalisti ostili a Renzi, da parte del neo responsabile comunicazione del PD Nicodemo. Guardate QUI una raccolta dei suoi insulti. Ora ci attendiamo la stessa levata di scudi "democratica" riservata a Grillo ed il M5S da parte di Enrico Letta, Matteo Renzi, la presidente della Camera Boldrini ecc ecc..

Travaglio. Il Merlo martire!

           

Siccome non se n’era accorto nessuno, Francesco Merlo tiene a precisare sulla prima pagina di Repubblica che tra le vittime della “gogna di Grillo” c’è anche lui. 
Mo’ me lo segno, direbbe Troisi. 
Naturalmente quella che lui chiama gogna è un mini-post molto asciutto e asettico in cui Grillo, anziché insultarlo come sciaguratamente fece con Maria Novella Oppo, gli rende forse il servizio peggiore: lo cita. Riporta alcuni passi deliranti del suo commento al caso Oppo, paragonava il leader di 5 Stelle ai “terroristi, camorristi, mafiosi” che assassinarono rispettivamente Tobagi, Siani e Fava. Cioè usava frasi infinitamente più violente di quelle mai usate da Grillo, che pure non scherza. 
Ora però Merlo ha scoperto, con notevole prontezza di riflessi, il lato oscuro del web: cioè quell’esercito di insultatori di professione che approfittano dell’anonimato dei nickname e usano la rete come la parete dei cessi pubblici, per sfogare le prime frustrazioni offendendo e minacciando a destra e a manca. 
Sono cose che purtroppo capitano a tutti coloro che abbiano un minimo di notorietà e almeno un piede nei social network. 
Come dimostra il caso tragicomico dell’on. Giachetti, che ieri ha scritto a Grillo per denunciare il commento di uno squilibrato che chiedeva l’eliminazione fisica dei deputati nominati dal premio di maggioranza incostituzionale del Porcellum, salvo poi scoprire che l’autore è un fervente renziano proprio come Giachetti. 
Se il Merlo volesse sentirsi meno solo, potrei regalargli un’antologia di insulti e minacce che ricevo da anni sul blog (il mio) e sulla pagina facebook (la mia). 
Il picco massimo di violenza lo registrai dopo il maggio 2008, quando il giornale di Merlo, che per qualche anno fu anche il mio, inaugurò la macchina del fango riportando la voce che mi ero fatto pagare le ferie in Sicilia da un mafioso: la notizia era naturalmente falsa, come provvidi subito a documentare con le ricevute dei miei pagamenti, ma il linciaggio proseguì e prosegue tuttora, anche perché le scuse non sono mai arrivate. 
Ma Merlo è convinto che gli insulti che gli arrivano in rete abbiano un mandante. Che, tenetevi forte, non è neppure Grillo: sono io. 
“Tutto quel diluvio di scaracchi” – scrive nel suo dolce stil novo il maestrino di bon ton – è “figlio di una sola nuvola: l’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto quotidiano che è purtroppo la casa nobile di cotanta indecenza”. Perché, “in simbiosi con i picciotti dell’odio, che sono ammaestrati pavlonianamente (si direbbe pavlovianamente, ma lasciamo andare, ndr), Travaglio possiede la tecnica di innesco”. Qualcuno potrebbe pensare che io abbia istigato le masse dei miei picciotti a odiare il Merlo e a minacciarlo di morte. 
Gli piacerebbe che qualcuno lo ritenesse così decisivo da meritare odio. In realtà stiamo parlando di un peso piuma del cicisbeismo specializzato nell’attaccare le opposizioni, anche se ama presentarsi come molto scomodo, dunque degno di odio. 
Si tranquillizzi: nel paese che pensa di far viaggiare il pm Nino Di Matteo su un Lince, manco fossimo l’Afghanistan, quelli in pericolo sono altri, anche se lui evita di parlarne. Ma il guaio più grosso del Rushdie de noantri è di giudicare gli altri come se fossero lui. 
Siccome nel mio articolo criticavo Grillo e solidarizzavo con la Oppo, ha pensato che lo facessi per “finta”. E siccome mi riferivo agli “house organ del Pd”, per esempio l ’ Unità, vi si è subito identificato, come se nella vita uno non avesse di meglio che pensare a lui. Che nel-l’articolo era citato di sguincio in una domanda retorica: “chissà dove cinguettava Merlo un mese fa, quando il neostatista Alfano chiese al padron Silvio la cacciata di Sallusti dal Giornale”. 
Lo sanno tutti dove cinguettava: altrove, come sempre. Ma, per il Linosotis catanese, quella domandina maliziosa sarebbe nientemeno che uno “spruzzo di lordume” con cui “Travaglio ha indicato alla truppa dei grillini l’obiettivo da colpire e ha fornito loro anche il lessico”. Insomma “Travaglio ha dato il la a tutto quello che poi sarebbe stato spurgato sul blog”, perché a colpi di “fuoco e lerciume” “crede di vendere qualche copia in più o di far crescere l’audience”. Per fortuna “tutti i padri nobili del giornalismo italiano di ieri e di oggi, da Montanelli a Scalfari, inorridiscono”. 
Scalfari, passi. Ma Montanelli è scomparso nel 2001: chissà, forse gli è apparso in sogno; poi però Merlo s’è svegliato troppo presto e non ha fatto in tempo ad apprendere che Montanelli assunse il sottoscritto per ben due volte in entrambi i giornali da lui fondati, trascurando colpevolmente il Merlo. 
Il bello è che pensa davvero che abbiamo atteso l’avvento di Grillo per inquadrare lui e tutta la voliera dei terzisti furbastri. 
Ma si sottovaluta. 
Quando stava al Corriere ai tempi della Bicamerale, il protomartire scriveva da perfetto cerchiobottista ton sur ton. Il 20 dicembre 1997, per esempio, alle facili critiche a Previti faceva seguire le seguenti amenità: “È anche vero quel che dice Berlusconi. Hanno cominciato a indagare quando è partita l’avventura politica di Forza Italia (falso, avevano cominciato negli anni 80 e ricominciato nel ‘ 92, ndr)… L’azione penale è stata anche accanimento politico, risentimento. La giustizia che viene dal risentimento è qualcosa di arcaico, è una soluzione predemocratica, una pratica asiatica. 
La frase che pronunciò Di Pietro… (“Io quello lì lo sfascio”) è orribilmente significante, e tradisce… una concezione mesopotamica del giustizialismo che deve inquietare tutti, tanto i colpevoli quanto gli innocenti”. Nel 2003, quando il Merlo aveva già trasferito il cerchio e la botte a Repubblica, e si divertiva a mettere sullo stesso piano coi suoi paradossi barocchi gli epurati dall’editto bulgaro e l’epuratore, mi chiamò inorridito Cesare Garboli, per chiedermi un mini-saggio per la sua rivista su Merlo e il merlismo. 
Giuliano Ferrara aveva appena insultato il direttore dell ’ Unità Furio Colombo e Antonio Tabucchi come “mandanti linguistici del mio prossimo assassinio”. Un po ’ come fa ora, mutatis mutandis, il Politkovskayo della mutua col sottoscritto. 
IL 10 OTTOBRE Merlo provvide subito a ribaltare la frittata, parlando della “polemica di Tabucchi con Ferrara”. Poi s’infilò nei consueti paradossi paraculi: “Tabucchi è berlusconiano e Ferrara è comunista… Tabucchi è berlusconiano nella maniera più sostanziale… infatti ha dato corpo alle sue ossessioni. Il regime, l’Italia imbavagliata, la fine della democrazia raccontati da Tabucchi sono come i comunisti di Berlusconi e i suoi giudici matti… Alla maniera di Berlusconi, anche Tabucchi vive e crede solo nel virtuale, in un mondo inesistente e tuttavia verosimile” (un mondo talmente inesistente che da un anno Biagi, Santoro e Luttazzi erano spariti dal video per ordine del premier). Non contento, il Merlo si fece beffe della “sindrome dell’esule” di Tabucchi, del suo “giocare a fare il Gramsci e a cingersi la testa con l’aureola del-l’eroismo civile”. E pazienza se Tabucchi, uno degli scrittori italiani più noti e tradotto nel mondo, scriveva sull ’ Unità e su Le Monde perché i giornaloni italiani respingevano i suoi articoli troppo critici con Berlusconi, con la finta opposizione e col presidente Ciampi. Per il Merlo, chi denunciava le minacce alla democrazia era affetto da “ossessione apocalittica” e “girotondina”, “spaccia l’astio per pensiero critico”, è “petulante e noioso”, ma soprattutto “ideologico”, insomma “farnetica”, insegue “fantasmi”, combatte “mulini a vento”. Invece Ferrara è “la storia vitale della sinistra”, rappresenta “una generazione che è vissuta negli ideali”, è insieme “fazione, intelligenza e fegatosità… ha creduto in Craxi e ora consiglia Berlusconi, sempre per passione e mai per calcolo”. E poi – garantiva il Merlo – Giuliano è “intelligente, vitale, sanguigno, goliardico”: uno spirito libero che “ogni giorno fatica a restare con Berlusconi”. Una fatica che dura da vent’anni. Roba da fiaccare un bufalo. Non un Merlo. 

Marco Travaglio FQ 11 dicembre 2013

https://www.facebook.com/notes/gabriele-stornellatore-lanzi/travaglio-il-merlo-martire/10152076596254629

martedì 10 dicembre 2013

«È tutto pronto»: nuova frase di Riina mette a rischio trasferta milanese di Di Matteo.

Altri frammenti di conversazione sbobinati dalla Dia e inviati con urgenza al ministro dell'Interno Alfano: mercoledì il magistrato dovrebbe essere nel capoluogo lombardo.

PALERMO - Ore e ore di conversazione intercettate. E un'altra, l'ennesima, frase intimidatoria pronunciata dal boss Totò Riina nel carcere di Opera: «È tutto pronto, e lo faremo in modo eclatante». Per gli investigatori della Dia il padrino corleonese, mentre parla con un boss della Sacra Corona Unita, si riferisce al pm Nino Di Matteo, o meglio all'attentato che Cosa Nostra starebbe preparando per fermare il magistrato che indaga sulla presunta trattativa Stato-mafia. Come riporta stamane Il fatto quotidiano, questa frase sarebbe stata captata venerdì scorso dagli investigatori che stanno sbobinando le intercettazioni di Riina. Parole, quelle del boss, che farebbero pensare che il progetto di attentato al magistrato sia giunto a una fase esecutiva. È per questo che la notizia è stata comunicata subito alle Procure di Palermo e a quella di Caltanissetta, che indaga sulle intimidazioni al pm. E potrebbe far saltare la trasferta milanese del pm in programma per domani, mercoledì.
DA ALFANO - Sabato scorso i vertici dei due uffici giudiziari si sono riuniti e hanno deciso di rivolgersi al ministro dell'Interno Angelino Alfano, che li ha ricevuti domenica. Come prevede la legge in casi eccezionali, i magistrati hanno consegnato al ministro le intercettazioni di Riina: il codice di procedura penale stabilisce infatti che l'autorità giudiziaria possa trasmettere copie di atti di procedimenti penali e informazioni al ministro dell'Interno ritenute indispensabili per la prevenzione di delitti per cui è obbligatorio l'arresto in flagranza. Nella frase sentita venerdì Riina, che in un'altra conversazione aveva anche detto al boss della Sacra Corona Unita riferendosi a Di Matteo «tanto deve venire al processo», non farebbe riferimenti specifici a Milano, dove il pm è atteso per raccogliere una deposizione del pentito Giovanni Brusca. Ma la trasferta nel capoluogo lombardo è stata organizzata ed è nota da settimane, quindi ci sarebbe stato tutto il tempo di mettere in piedi eventuali atti intimidatori. Inoltre le condizioni di sicurezza dell'aula bunker non sarebbero ritenute ottimali. Di Matteo è già sottoposto a protezioni di «livello 1 eccezionale»: nell'ultimo Comitato Nazionale per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica che si è svolto a Palermo alla presenza di Alfano, si è discusso anche di potenziare la vigilanza attraverso spostamenti in un Lince blindato e dotando la scorta del pm del bomb jammer, un dispositivo che neutralizza congegni usati per azionare esplosivi.È per questo motivo che la trasferta di domani potrebbe saltare:all'udienza saranno in ogni caso presenti il procuratore Francesco Messineo, l'aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene.

Il cardinale rosso. Natura meravigliosa

Il cardinale rosso

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Il maschio

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La femmina


lunedì 9 dicembre 2013

Mafia, l’ultima strage silenziosa: i morti di tumore per i rifiuti interrati nelle cave. - Giuseppe Pipitone

Mafia, l’ultima strage silenziosa: i morti di tumore per i rifiuti interrati nelle cave


Inchiesta su 11 Comuni: in provincia di Caltanissetta chi vive vicino ai poli industriali ha più possibilità di sopravvivenza rispetto a chi abita nei pressi di una miniera abbandonata.

L’ultima strage di Cosa Nostra non fa rumore. Non è un omicidio, non sparge sangue a colpi di kalashnikov e non ha bisogno di tritolo. Perché l’ultimo eccidio lasciato in eredità dai boss affonda il suo potenziale di morte in profondità, decine e decine di metri sottoterra, nel silenzio della campagna siciliana. Il nuovo triangolo della morte in Sicilia dimora in lembi di terra sconosciuti: PasquasiaMussomeliBosco Palo. Tutti nomi di cave ormai dimenticate ma che un tempo rappresentavano l’industrializzazione dell’isola. Perché quelle cave all’inizio del secolo scorso erano miniere di zolfo, di salgemma, utili persino a Giovanni Verga per raccontare del suo Rosso Malpelo.
Finiti i tempi d’oro dello zolfo, cresciuti i carusi sopravvissuti allo sfruttamento, quelle miniere tornarono a diventare semplici cave. Incustodite, abbandonate. Buchi neri scavati nella salgemma e quindi utilissimi per inghiottire ogni tipo di veleno prodotto dalla superficie. Un’occasione troppo ghiotta per i manager di Cosa Nostra che d’accordo con i cugini della Camorra campana misero su la più ricca multinazionale di smaltimento rifiuti. Polveri di metallo, amianto, scorie liquide, rifiuti ospedalieri speciali e persino radiottivi attraversarono l’Europa e il Nord Italia, per finire seppellite nel Meridione. “Il sistema era unico, dalla Sicilia alla Campania. Anche in Calabria era lo stesso: non è che lì rifiutassero i soldi. Che poteva importargli, a loro, se la gente moriva o non moriva? – ha raccontato l’ex camorrista Carmine Schiavone già nel 1997 – L’essenziale era il business. So per esperienza che, fino al 1991, per la zona del sud, fino alle Puglie, era tutta infettata da rifiuti tossici provenienti da tutta Europa e non solo dall’Italia”.
Verbali subito secretati, ricorda Antimafia Duemila, e i veleni trafficati dalle cosche rimasero ancora una volta a dormire sottoterra. Non è la Terra dei Fuochi e non è la Campania, non è l’Ilva di Taranto e nemmeno il Petrolchimico di Gela: nel cuore della Sicilia, le miniere un tempo ricche di zolfo sono rimaste per un trentennio a custodire nello stomaco rifiuti di ogni specie. Che oggi continuano ad uccidere nel silenzio. Perché nel lembo di terra tra CaltanissettaEnna e Ragusa, morire di tumore è più facile che nel resto d’Italia.
Se ne sono accorti anche alla procura di Caltanissetta, dove dopo un’inchiesta archiviata negli anni Novanta, i pm guidati da Sergio Lari hanno aperto nel 2012 un’indagine per traffico illecito di rifiuti e disastro ambientale. Il riserbo sull’inchiesta è massimo, in Procura le bocche sono cucite e nessun nome sarebbe ancora stato iscritto nel registro degli indagati, ma gli investigatori nisseni stanno cercando soprattutto di incrociare i dati, molti dei quali accumulati dall’ex assessore provinciale Salvatore Alaimo. Numeri sconcertanti che raccontano di come negli 11 Comuni vicini alle miniere di Pasquasia e Bosco Palo il 43 per cento dei decessi avvenga a causa di tumore, quattro volte in più di quanto accade a Gela, che pure è appestata dagli anni Sessanta dalle ciminiere del Petrolchimico.
Numeri catastrofici che peggiorano ancora se si allarga il cerchio all’intero territorio nisseno dove nel biennio 2008-2009 i malati di tumore sfiorano i 4mila casi, contro i 1.200 della media nazionale. In provincia di Caltanissetta, in pratica, chi vive vicino ai poli industriali ha più possibilità di sopravvivenza rispetto a chi abita vicino a una miniera abbandonata. Perché abbandonate quelle miniere non lo sono, nonostante parecchie siano state dismesse già negli anni Ottanta.
“Fino al 1994 gli abitanti della zona raccontano di aver visto un via vai di camion: nessuno sa cosa trasportassero, ma li vedevano dirigersi verso le miniere che invece avrebbero dovevano essere chiuse da almeno un decennio” racconta Saul Caia, autore insieme a Rosario Sardella della video inchiesta Miniere di Stato. I due giornalisti, durante un sopralluogo nei pressi della miniera di Bosco Palo, si sono imbattuti in alcuni documenti che proverebbero l’arrivo in Sicilia di rifiuti speciali ospedalieri provenienti da Forlì in maniera assolutamente clandestina. “Per anni un traffico di rifiuti speciali ha interessato la Sicilia, usata come enorme pattumiera con ingenti guadagni per i clan mafiosi, in un contesto di silenzio generale delle autorità preposte al controllo del territorio. Appare logico ipotizzare che l’area mineraria dismessa tra le province di Enna e Caltanissetta, a causa della totale mancanza di vigilanza, possa essere identificata come l’area finale dello stoccaggio illegale dei rifiuti speciali. Anche per via di una forte presenza mafiosa nel territorio” scrive il deputato di Sel Erasmo Palazzotto in un’interrogazione parlamentare del maggio scorso.
Un caso, quello delle ex cave trasformate in discariche di rifiuti tossici, che è approdato anche in Regione, dove il capogruppo del Movimento Cinque Stelle Giancarlo Cancelleri ha chiesto e ottenuto l’istituzione di una sottocommissione sulle miniere all’assemblea regionale. In Sicilia le ex cave poi diventate pozzi di morte sarebbero almeno quattro: l’ex miniera Ciavalotta a pochi metri dalla valle dei Templi di Agrigento, la cava di Mussomeli e quella di Bosco Palo, vicino San Cataldo (Caltanissetta), chiusa negli anni Ottanta ma visitata fino a pochi anni fa da anonimi camion probabilmente stracolmi di rifiuti da seppellire. Poi c’è la miniera di Pasquasia a Enna, fino al 1988 serbatoio dorato di salgemma per l’Italkali. Qui per anni lavorò come caposquadra un uomo d’onore, Leonardo Messina, fedelissimo del boss Piddu Madonia. “Cosa Nostra usava dal 1984 le gallerie sotterranee per smaltire scorie nucleari” raccontò Messina al giudice Paolo Borsellino, dopo essere diventato collaboratore di giustizia. Era il 30 giugno del 1992, pochi giorni prima che Borsellino saltasse in aria nella strage di via d’Amelio. Ventuno anni dopo in Sicilia un’altra strage continua a mietere vittime ogni giorno. In maniera più subdola, più infida, più silenziosa, ma sempre con la stessa firma: quella di Cosa Nostra.