AttentatoMolti giornali hanno pubblicato in prima pagina la fotografia di Saffie Rose Roussos la più piccola delle vittime (8 anni) della strage di Manchester. Uccidere dei bambini è una cosa orribile, ma strumentalizzarli è qualcosa che sta solo un paio di gradini sotto. Nella prima guerra del Golfo furono uccisi dai bombardieri americani e della Nato 32.195 bambini, dati inoppugnabili perché forniti, sia pur involontariamente, dal Pentagono. Se dovessimo stare nella stessa logica i giornali occidentali dovrebbero pubblicare ogni giorno, per riparazione, la fotografia di uno di questi piccoli, cioè almeno per una decina di anni. Non è che i bambini degli altri sono diversi dai nostri, se non per qualche caratteristica fisica (i bambini dei paesi musulmani, i piccoli Alì, sono in genere tutti riccioluti).
Sul Corriere della Sera Cazzullo si chiede “quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto”. Nessuna, ovviamente. Ma quale responsabilità potevano portare i bambini uccisi a Baghdad e a Bassora e le altre decine di migliaia uccisi dai bombardieri americani e Nato in Afghanistan, in Iraq, in Libia?
Certo, in questi macabri conteggi, c’è un’indubbia differenza fra i bambini uccisi a Manchester e i bambini uccisi dai bombardieri americani e Nato. L’attentatore jihadista di Manchester e i suoi complici (perché tutto fa pensare che questa volta non si tratti di un ‘lupo solitario’ ma di una cellula incistata sul suolo britannico) non solo sapevano che avrebbero ucciso dei bambini ma volevano uccidere dei bambini. I piloti, e anche i non piloti nel caso dei droni, americani e Nato non volevano premeditatamente uccidere dei bambini, anche se sapevano che li avrebbero inevitabilmente uccisi e in una misura molto maggiore di quella che può fare un kamikaze. Gli jihadisti non fanno differenze. Noi occidentali qualche differenza la facciamo ancora. In questa orribile ‘guerra asimmetrica’ c’è in questa differenza il solo punto di vantaggio a nostro favore, sul piano morale, rispetto alla jihad.
Sul FoglioGiuliano Ferrara, questo acrobata professionale nel manipolare i fatti, scrive: “Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati…E noi, invece di esportare con una violenza incomparabilmente superiore alla loro l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace, invece di rispettare il loro progetto distruggendone le radici sociali e politiche dove risiedono, noi a baloccarci, a piangerci addosso, a ricusare la violenza e l’odio”. Ferrara riprende in toto, quasi aggravandola, la teoria di George W. Bush: esportare la democrazia con la violenza. Questo irresponsabile individuo sembra non rendersi conto, non so se volutamente o meno, che proprio da questa esportazione violenta della democrazia, in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia e in Libia, è nata la guerra che oggi ci contrappone non solo all’Isis ma, sia pure in forme diverse, all’intero mondo musulmano e anche a quei pochi altri mondi che ci sono restati estranei. Gli effetti devastanti, sia nelle terre arabe che nelle nostre, della ‘teoria Bush’ sono sotto gli occhi di tutti. Ma non di quelli di Ferrara. Che, pare capire (“con una violenza incomparabilmente superiore”), non sarebbe alieno da gettare qualche atomica sul “mondo della violenza e dell’odio”.
Mi piacerebbe anche capire come “l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace” si concili, per fare un esempio recente, con le armi che Trump si appresta a fornire nella misura di 120 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, secondo l’accordo firmato l’altro giorno a Riad.
Questo totalitarismo della violenza, dell’odio, dell’orrore non appartiene solo agli jihadisti, appartiene anche a noi. Anzi siamo stati proprio noi, ubbriacati e resi irresponsabili dalla nostra apparente superiorità militare, a provocarlo.
Insolita decisione dei leader di Stati Uniti e Germania. Concluso il vertice con i Paesi africani sul tema delle migrazioni. Nuova riunione dei Grandi Sette fino alle 15. Prime indiscrezioni sul dossier: stallo sul clima, "più tempo agli Usa" per prendere decisione sull'accordo di Parigi. TAORMINA - Quello di oggi è il secondo e ultimo giorno di quello che è stato definito "il G7 più impegnativo degli ultimi anni". Dopo la prima giornata di vertice, conclusasi con l'accordo sul terrorismo, restano ancora divergenze tra i leader riguardo al clima, alla questione migranti e al commercio internazionale. Secondo le prime indiscrezioni sul dossier finale del G7, è stata raggiunta un'intesa comune sul nodo della lotta al protezionismo. Stallo invece sul rispetto degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici: agli Stati Uniti è stato concesso più tempo per prendere una decisione.
Il vertice con i Paesi africani. Il programma di inizio mattina prevedeva all'hotel San Domenico a Taormina una sessione "outreach" dedicata al tema delle grandi migrazioni. Presenti i leader di Tunisia, Niger, Nigeria, Kenya ed Etiopia, alcune organizzazioni internazionali, il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale. Assente la premier britannica Theresa May, ripartita ieri pomeriggio per seguire da vicino le indagini sulla strage avvenuta lunedì a Manchester. Al termine del vertice, foto di gruppo in giardino, prima dell'inizio del nuovo vertice tra i 'Sette Grandi'.
Ad aprire i lavori il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni: "Quest'anno abbiamo messo al centro di questa sessione aperta i rapporti con l'Africa. Già Taormina e la Sicilia dicono quanto è importante per noi il rapporto con l'Africa, ci troviamo nel cuore del Mediterraneo e oggi la discussione si concentra sull'esigenza di partnership a tutto campo tra G7, organismi internazionali e Paesi africani". Il premier ha aggiunto che "oltre all'innovazione della produttività", all'Africa servono "infrastrutture di qualità e investimenti per lo sviluppo del capitale umano", per poi ricordare che il prossimo G20, in programma il 7 e 8 luglio in Germania, "avrà una linea di continuità con l'incontro di oggi, dedicando attenzione particolare all'Africa e all'attrazione degli investimenti". Il primo ministro italiano ha sottolineato come l'agenda del G7 debba dialogare "con quella per lo sviluppo per l'Africa, l'agenda 2063, che è un caposaldo strategico per lo sviluppo del Continente".
E al termine della sessione estesa ai leader dei Paesi africani è arrivato un postdi Donald Trump su Twitter: "Un grande meeting del G7 oggi. Molte importantissime questioni in discussione. In cima alla lista naturalmente il terrorismo". Il presidente americano ha anche comunicato che "molti Paesi della Nato sono stati d'accordo ad aumentare il loro contributo considerevolmente, come dovrebbero. Se il denaro comincerà ad essere versato la Nato sarà molto più forte".
Niente conferenza stampa finale per Trump e Merkel. A sorpresa, la cancelliera tedesca e il presidente americano non parleranno al termine della seconda giornata di lavori del G7. Merkel avrà solo un breve colloquio con i giornalisti tedeschi e non con la stampa internazionale. Trump invece lascerà Taormina dopo il pranzo di lavoro con gli altri leader, per recarsi alla base di Sigonella, dove parlerà in quello che secondo il suo portavoce Sean Spicer "non sarà solo un messaggio alle truppe" Usa. Poi l'imbarco sull'Air Force One che lo riporterà con la first lady Melania a Washington. Al suo posto, parleranno con la stampa il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale H.R. McMaster, ed il direttore del Consiglio economico, Gary Cohn.
Decisioni insolite, che sottolineano il gelo tra i due leader dopo le polemiche emerse ieri in seguito ad alcune dichiarazioni di Trump, che ha definito i tedeschi "molto cattivi" sul commercio internazionale. Si terranno invece regolarmente le conferenze del premier italiano Paolo Gentiloni alle 15, e a seguire, salvo cambiamenti di programma, quelle del presidente francese Emmanuel Macron, del premier giapponese Shinzo Abe e del premier canadese Justin Trudeau.
Commercio internazionale. Il tema del commercio internazionale risulta essere "ancora una questione aperta". Il nodo riguarda la decisione di includere o meno nel documento finale una condanna ad "ogni forma di protezionismo". Ma da quanto emerge, gli Stati Uniti, pur continuando a prediligere la strada degli accordi bilaterali, avrebbero accettato che nel comunicato finale sia inserita l'espressione "lotta al protezionismo". Un traguardo che, secondo fonti diplomatiche, è un grande successo della presidenza italiana e del G7 nel suo insieme.
Clima. Secondo quanto trapela da alcune fonti al G7, dopo "un confronto franco e onesto" sulla questione del clima ci sarà "un'unica dichiarazione a sette" al termine del vertice, nella quale i sei altri partner si impegneranno "a lasciare più tempo agli Stati Uniti per prendere una decisione sull'accordo di Parigi". Una presa d'atto dello stallo sul tema del rispetto dell'accordo sui cambiamenti climatici. I Paesi europei, sostenuti da Giappone e Canada, si sono impegnati a fondo per spiegare agli Usa le ragioni "non solo ambientali, ma anche economiche" che spingono a favore dell'accordo di Parigi.
Migranti. Il tema è ancora in discussione nella riunione di oggi, ma da quanto trapela da Taormina c'è consenso sulla formulazione degli impegni sui migranti nel comunicato finale dei Sette. Non vi sarà tuttavia un documento separato, allegato al comunicato, contenente un piano per la gestione dei flussi migratori.
Caso Russia-Ucraina. All'ordine del giorno anche una discussione sulla crisi tra Russia e Ucraina: nel dossier finale i Sette Grandi si impegneranno a prendere "ulteriori azioni" nei confronti della Russia, se non rispetta gli accordi di Minsk sull'Ucraina. Sulla necessità di non levare le sanzioni a Mosca ci sarebbe quindi anche l'accordo degli Usa.
Tensione a Giardini Naxos. Proprio mentre a Taormina i leader saranno impegnati nelle conferenze stampa finali, nella vicina Giardini Naxos è previsto un corteo "no summit", in cui sono attese più di tremila persone. Un'ordinanza del sindaco Lo Turco ha previsto per oggi la chiusura di negozi, scuole e uffici. Tuttavia, molte attività sono chiuse già da ieri per timore di scontri tra i manifestanti e le forze dell'ordine. I commercianti della zona hanno realizzato barriere in legno e alluminio a protezione delle proprie vetrine. http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/27/news/taormina_g7_secondo_giorno-166531413/
G7? Più che di G7 io parlerei del G1+6...: gli USA + gli altri.
Grande confusione, pertanto, su "protezionismo" e "clima", uniche certezze, invece, sulle sanzioni alla Russia.
Gentiloni: "..all'Africa servono "infrastrutture di qualità e investimenti per lo sviluppo del capitale umano.."
Questi personaggi alquanto bizzarri, son bravi a stabilire ciò che serve alle altre popolazioni, mentre sono pessimi amministratori delle popolazioni che sono stati chiamati a governare.
Paradossi e dintorni.
"Niente conferenza stampa finale per la Merkel."
Ha, ha, ha....La Merkel non si fida dei nostri giornalisti...neanche io mi fiderei...
"Trump, invece, lascerà Taormina per recarsi alla base di Sigonella."
Il prof Cerulli Irelli all'HuffPost: "Andava interpretata diversamente, ma le leggi siano scritte in modo più chiaro."
"Non ho parole, ed è meglio...". È con il tweet delle 9.37 di Dario Franceschini che iniziano le tensioni tra il Governo e giudici amministrativi. Ed è con il post su Facebook a mezzogiorno del segretario Pd Matteo Renzi che le tensioni si trasformano in uno scontro tra politica e magistratura. Dopo la decisione del Tar del Lazio di bocciare le nomine di cinque direttori di musei avvenute per effetto della riforma targata Franceschini è partito, puntuale, il treno delle dichiarazioni politiche. Con il segretario dem Matteo Renzi che ha di fatto indossato l'elmetto: "Non abbiamo sbagliato perché abbiamo provato a cambiare i musei: abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar". Tar nel mirino, tanto che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ne chiede una 'riforma'. "Andrebbero cambiati, senza demonizzarli, precisando meglio qual è l'ambito di competenza della politica e quello del tribunale amministrativo che spesso entra nel merito di scelte che dovrebbero essere della politica", ha dichiarato a L'Aria che Tira.
Con due sentenze, la 6170/2017 e la 6171/2017, i giudici laziali hanno bocciato cinque nomine di direttori di musei avvenute sulla base della riforma dei voluta da Dario Franceschini, sotto il governo Renzi, con il decreto legge 83/2014. Tre le motivazioni: criteri "magmatici" di valutazione dei candidati con riduzione a sole tre classi di merito (A, B e C), prove orali di una selezione pubblica svolte a porte chiuse, in alcuni casi via Skype. E un pasticcio, più lessicale che meramente giuridico, sull'assegnazione di incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione a candidati di origine straniera.
Un duro colpo per il Governo e, di riflesso, per il Pd di Matteo Renzi che proprio sul tema della cultura ha impostato larga parte della sua narrazione e che rivendica, non da oggi, la crescita di visitatori nei musei italiani degli ultimi anni. "Il fatto che il Tar del Lazio annulli la nostra decisione merita il rispetto istituzionale che si deve alla giustizia amministrativa ma conferma - una volta di più - che non possiamo più essere una repubblica fondata sul cavillo e sul ricorso", ha attaccato il segretario dem.
Gli attacchi serrati del Pd alla magistratura amministrativa non potevano passare sotto silenzio dei diretti interessati. "Le istituzioni rispettino i magistrati, chiamati semplicemente ad applicare le leggi, spesso poco chiare se non incomprensibili. La nomina di dirigenti pubblici stranieri (chiamati a esercitare poteri) è vietata nel nostro ordinamento. Se si vogliono aprire la porte all'Europa - e noi siamo d'accordo - bisogna cambiare le norme, non i Tar", ha dichiarato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi (Anma) Fabio Mattei.
"I concorsi - ha aggiunto Luca Cestaro, segretario generale Anma - per definizione sono pubblici. Un concorso il cui colloquio avviene via skype con candidati collegati magari dall'Australia e senza possibilita' di assistervi - com'è capitato ad alcuni candidati alla direzione dei musei - semplicemente non è un concorso. E' una conversazione privata, senza alcuna garanzia sulla trasparenza della procedura".
Posizione più cauta quella assunta dal professore Vincenzo Cerulli Irelli, esperto di diritto amministrativo: "È evidente che il decreto era volto a favorire l'adeguamento a standard internazionali nella gestione dei musei, in questo senso credo che il Tar abbia interpretato male la riforma Franceschini. L'intento era proprio quello di svecchiare questo Paese", ha commentato all'HuffPost. "Quanto alla questione degli orali a porte chiuse, qui è evidente l'errore procedurale: i concorsi si fanno a porte aperte. Tuttavia mi sembra esagerato che venga chiesto di riformare i Tar: come tutti i giudici a volte fanno bene, a volte male. Anzi, a me sembra che i Tar funzionino meglio di altri giudici. Di certo le norme vanno interpretate in base alla ratio e agli obiettivi che si danno. Certo, il decreto poteva essere scritto in maniera più chiara, ma io l'avrei interpretata diversamente dal Tar", ha concluso Cerulli Irelli.
Secondo i giudici del Lazio l'assegnazione della direzione dei musei, che si configura come incarico di livello dirigenziale, a cittadini stranieri non è esplicitata nel testo del decreto. In altre parole, la riforma Franceschini, per come è scritta, non deroga al divieto di assegnazione di incarichi dirigenziali a cittadini non italiani come regolato dal decreto legislativo 165/2001: "Le disposizioni speciali introdotte dall'art. 14, comma 2-bis, del d.l. 84/2014, convertito in l. 106/2014, non si sono spinte fino a modificare o derogare l'art. 38 d.lgs. 165/2001", si legge nella sentenza. Tradotto: se nel decreto fosse stato chiaramente superato il divieto stabilito dalla legge che regola le modalità di assegnazione di incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni, quali sono le figure di direttori di museo come stabilito dalla riforma Franceschini, le nomine in oggetto sarebbero state valide a tutti gli effetti.
"Deve quindi affermarsi che il bando della selezione qui oggetto di contenzioso non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani in quanto nessuna norma derogatoria consentiva al MIBACT di reclutare dirigenti pubblici al di fuori delle indicazioni, tassative, espresse dall'art. 38 d.lgs. 165/2001", scrive sempre il Tar. E questo perché, si legge, "l'articolo 38 [..] non è citato". E l'entità e la portata della deroga in questione "va circoscritta al numero dei conferimenti di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all'amministrazione", in quanto è chiaro, "anche sotto il profilo di semplice analisi lessicale", che la riforma dei musei impatta esclusivamente sull'articolo 19 della norma di riferimento che regola la percentuale di personale di livello dirigenziale nelle pubbliche amministrazioni.
Quanto al fatto che alcune prove orali si siano svolte a porte chiuse, il giudice amministrativo rileva che "secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, al fine di assicurare il rispetto dei principi di trasparenza e parità di trattamento tra i candidati di una selezione pubblica [...]) occorre che durante le prove orali sia assicurato il libero ingresso al locale, ove esse si tengono, a chiunque voglia assistervi e, quindi, non soltanto a terzi estranei, ma anche e soprattutto ai candidati, sia che abbiano già sostenuto il colloquio, sia che non vi siano stati ancora sottoposti [...] al fine di verificare di persona il corretto operare della commissione". Tradotto: i concorsi pubblici sono tutti a porte aperte per motivi di ovvia trasparenza. E non su Skype, come invece è accaduto per i candidati Stefano Carboni e Flaminia Gennari Santori, residenti in Australia il primo e in Usa la seconda.
Infine il Tar del Lazio contesta le tre classi di giudizio dei candidati ammessi al colloquio con la Commissione: valutazione contraddistinta con tre lettere (A per i punteggi da 15 a 20 punti, B per i punteggi da 11 a 14 e C per i candidati meritevoli di 10 punti). "Come è noto, in punto di diritto, il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni o chiarimenti", scrive il Tar. E infatti, nel caso in questione la "magmatica riconduzione" dei 20 punti alle tre classi di valutazione "non consente di comprendere il reale punteggio attribuito a ciascun candidato, anche in ordine al criterio di graduazione di ogni singolo punto dei 20 da assegnare all'andamento della prova orale, a conclusione del colloquio sostenuto".
Dopo la prima edizione del 2015, l’osservatorio civico Openpolis torna a censire queste strutture nel dossier "Cogito ergo sum", non solo aggiornando i numeri ma soprattutto indagando il fitto network di collegamenti fra le circa cento strutture analizzate: “Collegamenti che non si limitano ai think tank, ma che si allargano anche a istituzioni pubbliche.”
Ne fanno parte ministri, sottosegretari, ex premier. Alcuni nomi sono ricorrenti, come nel caso dell’ex ministro Giulio Tremonti, dell’ex premier Giuliano Amato e di Franco Bassanini, più volte ministro e sottosegretario nonché attuale consigliere del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Cosa hanno in come questi politici? L’appartenenza a think tank, fondazioni e associazioni politiche, la cui crescita è ormai una realtà consolidata, fatta di una rete di legami, nomine, finanziamenti. C’è chi fa parte di più di una organizzazione e chi deve a quel ruolo anche un incarico istituzionale. Sei di queste realtà hanno al loro interno almeno due componenti dell’attuale esecutivo: dai ministri Graziano Delrio, Valeria Fedeli, Marianna Madia e Maurizio Martina (ma anche altri) al sottosegretario Maria Elena Boschi. Nel giro di due anni queste strutture sono passate da 65 a più di cento. Dopo la prima edizione del 2015, l’osservatorio civico Openpolis torna a censire queste strutture nel dossier ‘Cogito ergo sum’, non solo aggiornando i numeri ma soprattutto indagando il fitto network di collegamenti fra le circa cento strutture analizzate. “Collegamenti – si spiega nel rapporto – che non si limitano ai think tank, ma che si allargano anche a istituzioni pubbliche”. Dalle nomine di amministratori di aziende partecipate, ai casi di spoil system, fino a finanziamenti e bandi ministeriali. Nel frattempo, per colmare il vuoto normativo intorno a think tank e fondazioni politiche, nella XVII legislatura sono stati presentati vari disegni di legge, eppure i due testi presentati alla Camera e i due presentati al Senato sono tutti fermi alle Commissioni parlamentari.
QUALCHE DATO SUL FENOMENO –Il 52,94% delle strutture censite nascono come luogo di aggregazione politica o come componente di partito, ma negli ultimi anni si è assistito a un vero e proprio boom di queste organizzazioni, per il 93% nate dopo il 2000. I 3.026 incarichi rilevati sono ricoperti da 2.520 persone. Openpolis è riuscito a ricostruire la professione di 1.765 (il 70,04%) di loro: a fare da padrone sono i politici (592) e gli accademici (584), seguiti a distanza dagli imprenditori e dirigenti (215). Ma quando si analizzano i singoli incarichi, si scopre che delle 985 persone con incarichi dirigenziali o di rappresentanza per cui è stato possibile rintracciare la professione, il 51,88% sono politici, percentuale che sale al 67,77% nelle strutture nate per fare aggregazione politica o come componente di partito. Il 34,31% dei think tank, fondazioni e associazioni politiche sono collegate al centrosinistra mentre il 22,55% al centrodestra. A seguire le strutture di centro o liberali (il 14,71%) e quelle bipartisan (il 13,73%). Molto dietro quello di sinistra (6,86%) e di destra (5,88%). Rispetto al censimento del 2015, rientrano nell’analisi per la prima volta entità vicine al Movimento 5 stelle: Think tank group, e l’Associazione Gianroberto Casaleggio. Sul fronte trasparenza, sono 93 le organizzazioni che hanno dei canali di comunicazione attivi: il 46,25% pubblica sul sito internet lo statuto dell’associazione o fondazione. Molto pochi infatti i bilanci presenti, solamente 10 (10,75%), e ancora di meno (solo 6, il 6,45%) le strutture che decidono di pubblicare l’elenco di finanziatori e soci.
NOMINE, FINANZIAMENTI E LEGAMI TRA POLITICA E THINK TANK –Come sottolinea Openpolis “tre fenomeni emergono quando si incrociano i dati dei think tank con la sfera pubblica”. Il primo riguarda casi di spoil system: persone che fanno parte di queste strutture assieme a un determinato politico con un incarico pubblico che vengono nominate come capo del gabinetto o della segreteria particolare. L’osservatorio cita il caso di Pietro Paolo Giampellegrini, tra i fondatori della Fondazione Change, presieduta da Giovanni Toti (Forza Italia) e nominato segretario generale della giunta regionale ligure, presieduta dallo stesso Toti. Poi ci sono i finanziatori di una determinata fondazione guidata da un determinato politico, che vengono nominati in strutture pubbliche di cui è responsabile quello stesso politico. È il caso di Alberto Bianchi, presidente e finanziatore della Fondazione Open, attualmente coinvolto nell’inchiesta Consip che nel maggio del 2014 è stato nominato nel Cda di Enel dal governo Renzi. Infine l’osservatorio ha registrato casi in cui “una persona appartenente ad un think tank vicino a una determinata area politica viene nominata in un organo pubblico esecutivo (come una giunta comunale) guidato da quella stessa area politica”. Massimo Colomban, tra i fondatori e massimi esponenti nel 2015 del Think Tank Group, organizzazione che vede al suo interno numerosi membri del M5s, è stato nominato nel settembre scorso assessore alle partecipate del comune di Roma dal sindaco Virginia Raggi. Si tratta di tre esempi, ma i casi sono diversi.
I MEMBRI ‘CONDIVISI’ E IL LEGAME CON IL GOVERNO – Fra le 93 organizzazioni per cui è stato possibile ricostruire un’anagrafica, 70 hanno almeno un membro condiviso con altre realtà (il 77%), mentre 19 hanno almeno 10 dei componenti anche in altre organizzazioni. In cima alla classifica Italianieuropei (con 32 membri) di Massimo D’Alema,Fondazione Italia Usa (23) presieduta dal giornalista Roberto Mostarda, Astrid (22) di Franco Bassanini, ex ministro e consigliere del premier e Aspen Institute Italia (21) dell’ex premier Giuliano Amato. Un altro tassello importante è il legame tra queste strutture e il governo: sono 19 quelle con al loro interno membri appartenenti anche al governo Gentiloni, ma sei di queste spiccano per la presenza di almeno due componenti: la Fondazione Nilde Iotti (il sottosegretario per i rapporto con il Parlamento Sesa Amici e i ministri Graziano Delrio, Valeria Fedeli e Marianna Madia), Italianieuropei (i ministri Claudio De Vincenti, Marianna Madia, Maurizio Martina, Pier Carlo Padoan), Centro studi politica internazionale (i sottosegretari Vincenzo Amendola e Sandro Gozi e il viceministro agli Esteri Mario Giro), Astrid (il sottosegretario Gianclaudio Bressa e il ministro Claudio De Vincenti), Equality Italia (il sottosegretario Benedetto Della Vedova e il ministro Roberta Pinotti), Open (il sottosegretario Maria Elena Boschi e il ministro Luca Lotti).
Un collegamento non da poco dato che i ministeri possono erogare contributi, sussidi e sovvenzioni a soggetti privati. “Finanziamenti mirati a premiare specifici progetti – si legge nel rapporto – o più in generale il tipo di attività svolto da associazioni e fondazioni”. Di fatto, tra le oltre cento strutture censite, tredici fra il 2014 al 2017 hanno ricevuto un qualche tipo di contributo economico fra i ministeri monitorati (Esteri, Istruzione, Cultura, Ambiente e Presidenza del consiglio). Guidano la fondazione istituto Gramsci, la fondazione sviluppo sostenibile e la fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII. “Esborsi leciti e dovuti – sottolinea il rapporto – ma che è giusto monitorare in casi specifici: la Fondazione De Gasperi, presieduta da Angelino Alfano, ha ricevuto nel 2016 20mila euro dal ministero degli Affari esteri, dicastero attualmente presieduto dallo stesso Alfano”.
LA RETE DI COLLEGAMENTI – Sono tredici le persone che hanno un qualche tipo di legame con almeno quattro strutture: fra loro troviamo politici, ex ministri, docenti universitari e amministratori di aziende pubbliche. Salvatore Biasco (docente ed ex deputato), Angelo Maria Petroni (docente, ed ex Cda Rai) e Giulio Tremonti (senatore, ex vice premier e ministro) sono i più ricorrenti con 5 membership diverse. Significativi anche i collegamenti tra le organizzazioni. Le più radicate nel network sono Fondazione Italia Usa, Italianieuropei, Aspen Institute Italia, Astrid e Italia decide. Non solo hanno il numero più alto di membri in altre strutture, ma anche quello di realtà ad esse collegate. Le 5 organizzazioni sono unite da 23 persone che, con incarichi diversi, sono presenti in almeno 2 di esse. Giuliano Amato, Franco Bassanini, Marta Dassù (cda Finmeccanica/Leonardo ed ex sottosegretario e viceministro esteri), Angelo Maria Petroni (docente ed ex membro cda Rai) e l’ex vicepremier Giulio Tremonti hanno un incarico in tre delle cinque strutture. Una delle poche organizzazioni che pubblica l’elenco dei propri finanziatori è la Fondazione Open, vicina all’ex premier Matteo Renzi. Attraverso i suoi finanziatori la fondazione Open è collegata ad altre 10 realtà.
Strage a Manchester, dove un kamikaze si è fatto esplodere al concerto di Ariana Grande, idolo dei teenager, in una arena affollatissima di giovanissimi e di genitori: almeno 22 morti, 59 feriti e 12 dispersi. Ci sono anche bambini tra le vittime. Un 23enne è stato arrestato a Chorlton in connessione con l'attacco terroristico di ieri sera. (ansa) ******
L'attentato a Manchester, oltre che addolorarmi, mi porta anche a riflettere e a domandarmi: perchè gli attentati sono diretti sempre verso la gente comune? Perchè mai verso chi comanda? Quello di Manchester, in particolare, potrebbe avere il significato di ritorsione mirata a vendicare i bambini siriani uccisi dai bombardamenti inglesi. E tutti gli altri? Possibile che le guerre volute e ordinate dai potenti causino come risultato le vendette di chi le subisce contro le popolazioni che non hanno alcun potere su decisioni così cruente? Sono convinta che se gli attentati venissero fatti contro i potenti di turno, questi ultimi si esimerebbero dal fare guerre. Credo, pertanto, che gli atti di terrorismo siano l'ennesima coercizione perpetrata da chi vuole comandare e mettere a tacere quelle poche voci ribelli.
Chomsky docet:
2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni. Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia il pubblico a richiedere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
Dalle offese di Carnevale agli attacchi in diretta televisiva fino all'ultima provocazione di Berlusconi. A 25 anni dalla strage di Capaci ecco i nomi di chi ha provato in tutti i modi a rendere difficile l'esistenza del magistrato palermitano. Come Lino Jannuzzi che ai tempi della Superprocura definiva lui e De Gennaro "i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Una coppia la cui strategia ha approdato al più completo fallimento".
C’è chi non si è pentito delle offese lanciate persino quando l’avevano già assassinato, ma anche chi ha chiesto scusa. Chi ha fatto delle scelte poi rivelatesi errate e adesso porta in tribunale i giornali che le ricordano, chi non ha mai più commentato certe critiche lanciate a favor di telecamera e chi invece nega persino le sue stesse parole. Sono i nemici di Giovanni Falcone, quelli che lo hanno osteggiato in vita rendendogli impossibile l’esistenza. Una categoria che non viene mai – o quasi mai – citata nelle decine di eventi organizzati ogni anno per commemorare il giudice palermitano. “I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia epurtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Un quarto di secolo dopo quel maledetto 23 maggio del 1992, tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che negli anni sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi di cui sono piene le cronache degli ultimi anni e che soltanto nell’isola dei paradossi poteva andare in scena.
I nemici di Falcone –Confusa tra mille riflessi è stata anche la figura stessa di Falcone: la storia del giudice più trombato d’Italia, per citare la sorella Maria, è stata trasformata – spesso dai suoi stessi detrattori – in quella perfetta del magistrato appoggiato da tutti lungo la sua intera esistenza . Venticinque anni dopo la sua morte, il ricordo del magistrato siciliano e è finito annacquatoda fiumi di retorica: oggi sembra quasi che Falcone sia stato in vita un uomo amato da tutti, mai attaccato o ostacolato da nessuno. E pazienza se i fatti siano andati in maniera diversa. D’altra parte la figura del giudice palermitano viene usata oggi come una sorta di santino: un nome da citare per dare solidità a qualsiasi tipo di ragionamento o di ragionatore. Solo per fare un esempio, rivendica di aver conosciuto Falcone persino quello che è considerato il capo dei capi di Mafia capitale. “Una volta mi accollarono un reato in Sicilia (il delitto di Piersanti Mattarella ndr), presi l’avvocato e andai da Falcone, il giudice Falcone a Palermo”, dice in un’intercettazione Massimo Carminati. “Ma Falcone lo hai conosciuto di persona te?”, gli chiedono i suoi compari, come racconta il giornalista Lirio Abbate. “Mi ha interrogato. Persona intelligentissima, si vedeva proprio, aveva l’intelligenza che che gli sprizzava dagli occhi. Era anche una persona amabile nei modi”, risponde il Cecato dando vita a un dialogo grottesco.
L'ultima provocazione di Silvio: citarlo come esempio.
Dell'Utri - Berlusconi
Sono al limite dell’imbarazzo, invece, le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi.”Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”, ha detto l’ex cavaliere, intervistato dal Foglio. Chi magari pensava che il magistrato simbolo per Berlusconi dovesse somigliare al corrotto Vittorio Metta è dunque rimasto deluso. Ma l’ex premier ha addirittura rilanciato: “Al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Il magistrato siciliano purtroppo non può replicare. In alternativa avrebbe respinto al mittente qualsiasi connessione con la ex Cirielli, il lodo Alfano, e la depenalizzazione del falso in bilancio, solo per citare qualche “idea sulla giustizia” di Forza Italia, partito fondato da Marcello Dell’Utri, detenuto a Rebibbia dopo la condanna in via definitiva per concorso esterno. Vale la pena di ricordare che Berlusconi – tra le altre cose – è stato lungamente indagato come mandante a volto coperto delle stragi del 1992 e 1993. “So che ci sono fermenti di procure che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93, ’94: follia pura. Quello che mi fa male è che c’è chi sta cospirando contro di noi“, disse invece il leader di Forza Italia da presidente del consiglio in carica, quando la procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino.
L'Ammazzasentenze che lo offendeva anche da morto.
Corrado Carnevale
D’altra parte è sempre uno dei governi di Berlusconi che nel 2003 inserì un comma in Finanziaria per concedere al giudice Corrado Carnevale di essere reintegrato, recuperando gli anni di contributi pensionistici persi a causa delle inchieste a suo carico. Carnevale era stato lo storico presidente della prima corte di Cassazione che nel 1992 avrebbe dovuto giudicare le sentenze del primo Maxi processo a Cosa nostra. Per il gran numero di annullamenti decisi negli anni precedenti si era guadagnato un soprannome evocativo: l’Ammazzasentenze. Ed è per evitare di ammazzare pure gli ergastoli del primo Maxi processo che Falcone – nel frattempo approdato alla direzione degli Affari Penali del ministero della Giustizia – ottenne l’applicazione di un criterio di rotazione per i casi di mafia approdati alla Suprema corte. Carnevale non la prese bene. “I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone: perché i morti li rispetto, ma certi morti no“, diceva in una conversazione l’8 marzo del 1994, a meno di due anni dalla strage di Capaci. Un’intercettazione in cui il giudice non risparmia neanche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. “Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso“, dirà senza un minimo di compassione per la coppia appena assassinata da Cosa nostra.
Il risentimento dell’Ammazzasentenze –Quando il 10 novembre dello stesso anno gli investigatori gli danno lettura di quelle conversazioni, l’Ammazzasentenze confida: “Devo ammettere che io ho avuto del risentimento nei confronti del dottor Falcone”. Gli chiedono: “Neppure dopo la morte di Falcone si è placato quel suo grave risentimento?”. “No, devo ammettere di no”. Processato per concorso esterno, Carnevale è stato assolto in primo grado, condannato in appello a sei anni, prosciolto definitivamente in Cassazione. Dopo l’assoluzione torna a fare il giudice della corte di Cassazione, pensa di ricandidarsi come presidente della prima sezione ma lascia perdere. Poteva rimanere in servizio fino al 2015, ma decide di andare in pensione nel 2013 quando ha ormai 83 anni. Alcuni mesi dopo va a testimoniare al processo Capaci bis – quello nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza – e dice incredibilmente: “Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo”. Ai giornalisti del Foglio e del Giornale che lo vanno a trovare a casa per intervistarlo invece racconta: “La casta a cui appartengo fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia“.
Geraci e il voto al Csm che gli preferì Meli.
Ha azzerato praticamente gli interventi mediatici Vincenzo Geraci, altro nome che ha un ruolo nella carriera di Giovanni Falcone, perché insieme al magistrato siciliano era presente ai primi interrogatori di Tommaso Buscetta. Anni dopo Geraci è tra i consiglieri del Csm che la sera del 19 gennaio del 1988 bocciano la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Era lo stesso posto ricoperto da Antonino Caponnetto, l’inventore del pool antimafia: sembrava scontato che la successione toccasse a Falcone. “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore”, dirà Geraci annunciando il suo sostegno alla candidatura dell’anziano Antonino Meli: di mafia sapeva poco o nulla ma era stato internato dai tedeschi. Venne nominato consigliere istruttore con 14 voti a favore, 10 contrari (tra i quali Gian Carlo Caselli) e 5 astenuti.
“Un giuda ci ha traditi” –“Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli”, si sfogherà Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992. Borsellino non indicherà mai chi fosse quel Giuda: venne ucciso, infatti, meno di tre settimane dopo quell’intervento. Molti anni dopo, quindi, quando il giornalista Rino Giacalone tirerà in ballo Geraci, quest’ultimo lo querelerà per diffamazione. Oggi Geraci è procuratore generale aggiunto della Cassazione: in pratica è il vice di Pasquale Ciccolo, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.
Il Corvo senza nome – Sempre per rimanere nel campo delle toghe non si può non citare il famoso caso del Corvo di Palermo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno: addirittura di averlo chiamato a Palermo per mandarlo a caccia dei boss del clan dei corleonesi. Accusato di essere il Corvo fu il giudice Alberto Di Pisa, condannato in primo grado a un anno a sei mesi e poi assolto definitivamente nel 1993. L’identità del Corvo non sarà mai individuata mentre tra i detrattori di Falcone si possono annoverare anche personaggi estranei alla magistratura. A cominciare magari da semplici e normali privati cittadini.
Quando i vicini di casa non lo volevano.
“Spostate i magistrati in periferia” – La Palermo in cui ha vissuto Giovanni Falcone era molto diversa dalla Palermo che si è svegliata dopo quello che i mafiosi battezzarono come l’Attentatuni. Un esempio? Una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia negli anni ’80. A scriverla è una donna che abita nelle vicinanze del condominio in cui Falcone fa ritorno ogni sera, blindato dalle auto della scorta. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Parole che fanno un certo effetto. Soprattutto oggi che l’albero Falcone – nei pressi dell’abitazione del magistrato – sarà invaso da persone arrivate a Palermo da tutta Italia.
L’attacco in diretta tv –Le cose per Falcone non andavano meglio quando accettava di partecipare a qualche trasmissione televisiva. Nota, anzi notissima, è la puntata che Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano in tandem alla memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso nell’agosto del 1991. In studio tra gli ospiti c’è il giudice palermitano, attaccato più volte in quell’occasione da personaggi che avranno storie future completamente diverse. “Falcone ha dichiarato che è notorio che l’onorevole Salvo Lima utilizzava la macchina degli esattori Salvo”, è l’intervento – in collegamento da Palermo – di Leoluca Orlando. “C’era bisogno che lo dicessi io perché si sapesse dei rapporti tra i Salvo e i Lima”, risponde Falcone, raccogliendo la replica dell’allora leader della Rete. “Ecco un’ulteriore conferma“, dice in diretta televisiva Orlando, che in pratica accusava Falcone di non aver perseguito volontariamente l’europarlamentare della Dc. Quelle accuse a Falcone saranno rinfacciata per anni al primo cittadino palermitano, il quale chiederà poi scusa per le sue parole. Quella trasmissione, però, è passata alla storia anche per l’intervento di Totò Cuffaro. “Ho assistito ad una volgare aggressione alla classe migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male di dieci anni delitti”, è una parte dello sfogo del futuro governatore della Sicilia, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Per il video di quell’intervento – intitolato su youtube “Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone” – l’ex presidente siciliano ha querelato Antonio Di Pietro, che lo aveva postato sul suo blog: il tribunale gli ha dato ragione.
"Falcone, chi la protegge?". L'attacco di giornali e tv .
“Giovanni vattene da Roma” – Ese oggi tutti concordano nel valutare come un salto di qualità nella lotta alla mafia il passaggio di Falcone a Roma per dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, così non era in quel 1992. “Secondo me Falcone farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali, perché l’aria non gli fa bene proprio“, disse l’avvocato Alfredo Galasso nella stessa puntata del Maurizio Costanzo Show, nota per l’esordio televisivo di Cuffaro. “Questo mi sembra scarso senso dello Stato. Al ministero di Grazia e Giustizia ci sono posti espressamente previsti per i magistrati”, fu la replica di Falcone, attaccato spesso per il suo trasferimento a Roma anche in altre salotti televisivi. “Noi abbiamo imparato a conoscerla quando viveva barricato laggiù e forse l’abbiamo un po’ mitizzata. Adesso che sta al ministero e che scrive editoriali sulla Stampa, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ deluso negli ultimi tempi ma sicuramente è cambiato: lei lo sa? Ne è consapevole?”, gli chiede il 12 gennaio del 1992 Corrado Augias durante una puntata di Telefono Giallo. Una trasmissione che passa alla storia soprattutto per la domanda posta da una componente del pubblico. “Lei – chiederà una donna a Falcone – dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?” La reazione del magistrato è amara: “Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
I veleni di Jannuzzi: attacco al Maxi e alla Dna.
Lino Jannuzzi
Critiche asprissime arriveranno a Falcone nello stesso periodo anche sulla stampa. È il momento in cui il magistrato sicilianoè candidato a dirigere la cosiddetta Superprocura (cioè la procura nazionale antimafia) e il poliziotto Gianni De Gennaro la Dia. Lino Jannuzzi, però, sul Giornale di Napoli li indicherà come i “maggiori responsabili della debacle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento. Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. Jannuzzi in seguito sarà senatore di Forza Italia per ben due legislature. In precedenza, tra l’altro – lo ricorda Caselli sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa – erano stati altri due futuri parlamentari di centrodestra ad attaccare Falcone dalle colonne del Giornale e del Giornale di Sicilia: Ombretta Fumagalli Carulli e Guido Lo Porto. Nei loro articoli il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme, un meccanismo spacciato come giuridico”, mentre i procedimenti genericamente contro Cosa nostra vengono bollati come “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”.
“Un mediocre pubblicista” –Gli opinionisti non saranno teneri neanche quando Falcone darà alle stampe un libro – Cose di Cosa nostra – scritto alla fine del 1991 insieme a Marcelle Padovani. “Scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”, scriverà Sandro Viola in un’editoriale durissimo pubblicato da Repubblica il 9 gennaio del 1992. “A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre particolari illuminazioni: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista“, sarà la chiusa di quell’articolo, che oggi è quasi introvabile online. Come i nemici di Falcone: attivissimi quando il giudice era vivo, evaporati dopo il botto di Capaci. E in qualche caso diventati amici intimi del magistrato assassinato. Ma – ovviamente – soltanto post mortem.