venerdì 28 agosto 2020

Ecco perché ai partiti piace il Mes. - Gaetano Pedullà

NICOLA ZINGARETTI

Incurante del fatto che meno si sente più recupera consensi, il segretario del Pd Nicola Zingaretti è tornato a farsi vivo per chiedere al Governo, tra le altre cose, di prendere i soldi del Mes sanitario, cioè il fondo messo a disposizione dall’Europa apparentemente a condizioni di favore. Senza tornare per l’ennesima volta sulle evidenti insidie di questo pessimo strumento, da cui non a caso tutti i Paesi con problemi di sanità pubblica persino peggiori dei nostri si tengono alla larga, dobbiamo riconoscere che pochi possono parlare di sanità quanto Zingaretti, visto che guida una Regione, il Lazio, dove gli ospedali sono stati commissariati per anni a causa di un debito mostruoso, e che pertanto sono stati pesantemente ridimensionati, quando non del tutto chiusi.
Un disastro esploso all’epoca di un governatore precedente, Francesco Storace, del Centrodestra, nell’epoca in cui proprio quella parte politica rivendicava di voler trattare alla pari la sanità pubblica e quella privata, con la conseguenza di svuotare le casse alle Asl e far lievitare gli utili dei colossi delle cliniche. Quando poi arrivò la mannaia sulla spesa, il pubblico fu costretto a massacrare le strutture sanitarie decentrate e la medicina del territorio (con le conseguenze che abbiamo visto anche nella gestione del Covid), mentre ai privati non è stato torto un capello, tanto che tuttora restituiscono il favore alla classe politica che li ha beneficiati assumendone a vario titolo i vecchi leader.
Per chi vuol vedere dove altri fanno finta di nulla, a Roma Storace fa il vicedirettore del Tempo, giornale di proprietà della famiglia Angelucci, casualmente a capo di decine di cliniche in mezza Italia, mentre nella Milano di Formigoni, transitato a fine carriera nel Nuovo Centrodestra Ncd, l’ex segretario di quello stesso partito, Angelino Alfano, è presidente del Gruppo ospedaliero Rotelli, una delle maggiori holding sanitarie del Paese. Dopo aver fatto i danni che sappiamo, non stupisce che questa politica voglia appiopparci anche il Mes.

Conte è già in linea col futuro. Il via libera alla rete unica ha un valore eccezionale. - Gaetano Pedullà

GIUSEPPE CONTE

Chi dice che Giuseppe Conte e il suo Governo giallorosso tirano solo a campare, si segni che ieri è stato raggiunto un obiettivo paragonabile per importanza alla straordinaria gestione della pandemia o al mare di soldi strappati in Europa col Recovery Fund. Il via libera alla rete unica della telefonia, cioè alla costruzione dell’autostrada digitale che porterà la fibra e internet veloce nelle nostre case, ha un valore eccezionale. Soprattutto perché sarà a controllo pubblico.
Dopo l’aria e l’acqua, l’accesso al web diventerà nel tempo il bisogno principale, molto più di quanto non sia già adesso. Anche per questo era penoso che l’Italia fosse ancora al palo nella costruzione della più importante infrastruttura immateriale. Di strada, a dire il vero, se ne stava facendo da una parte con Tim e dall’altra con Open Fiber (società di proprietà di Enel e Cdp), col risultato però di duplicare i costi e procedere lentamente, sapendo sin dall’inizio che così si sarebbe coperto l’intero Paese solo tra molti anni.
I governi di destra, a cui interessavano solo le televisioni del principale, e quelli di sinistra, che non erano riusciti ad andare oltre l’insufficiente idea di Open Fiber, ci hanno condannato, insomma, a un’imperdonabile attesa, mentre in tutto il mondo i servizi internet sono da tempo più accessibili e avanzati. Ci voleva dunque Conte, e la spinta più di tutti di Beppe Grillo e del ministro Patuanelli, per mettere insieme i due grandi player (ai quali si è già aggiunto Tiscali) e aprire all’Italia questa porta del futuro.

Rete unica, ha vinto Tim. Ecco l’accordo con Cdp. - Marco Palombi

Rete unica, ha vinto Tim. Ecco l’accordo con Cdp

A Chigi. Ieri il via libera giallorosa.
Per ora hanno vinto l’ad Luigi Gubitosi e i molti e molto variegati azionisti di Tim: il progetto Fibercop – una nuova società della rete – va avanti nelle modalità desiderate dall’ex monopolista, col sostegno unanime di governo e maggioranza (emerso ieri in un apposito vertice), dell’opposizione e pure dei sindacati. L’unanimità “giallorosa” non era peraltro un fatto scontato visto che i 5Stelle e un pezzo del Pd – a differenza di Roberto Gualtieri – erano sempre stati a favore di una nuova società a forte controllo pubblico che, fin dall’azionariato, garantisse imparzialità a tutti gli operatori. Così il cerino resta in mano a Enel, che possiede a metà l’altra azienda della rete, Open Fiber: il suo socio al 50%, la pubblica Cassa depositi e prestiti, è ormai pienamente coinvolto nell’operazione Fibercop (e d’altra parte Cdp si trova nell’imbarazzante situazione di essere anche il secondo azionista di Tim col 9,9%). Se la Borsa vale come indicatore: ieri Tim è salita di nuovo (+3,4%), Enel è scesa (-2,3%).
Ripartiamo dall’inizio. Risale agli anni Novanta la sciagurata privatizzazione di Telecom, venduta con tutta l’infrastruttura, che ci consegna oggi un’azienda con assai meno ricavi e molti più debiti di un tempo: ne hanno risentito in particolar modo gli investimenti. Com’è noto, la messa a terra della fibra in Italia è molto indietro e lo è da tempo. In uno dei suoi momenti di fantasia, l’allora premier Matteo Renzi decise che sarebbe stata Enel a cablare tutto lo Stivale: Francesco Starace, che era ed è l’amministratore delegato, si mise all’opera con Cassa depositi creando appunto Open Fiber (OF). I risultati sono rivedibili: molti soldi spesi, bilanci debolucci, ritardi inauditi, un futuro radioso sempre a venire. E ora ci sono due società a forte presenza pubblica, due progetti in concorrenza e ancora ritardi.
La società della rete. Se ne parla da oltre dieci anni e molto insistentemente dacché esiste OF. Perché non se n’è fatto nulla finora? Questione di soldi, in sostanza. Tim non può perdere la rete, che vale a bilancio 15 miliardi e garantisce con le banche gran parte dei suoi molti debiti: è dunque favorevole, ma solo se conserverà il 50% più un’azione. Opzione appoggiata da Gualtieri per un motivo semplice: se non si fa così, Tim non può reggere. Una grossa mano a Gubitosi, in questo senso, l’ha data l’offerta del fondo Usa Kkr: 1,8 miliardi di euro per acquisire il 38% della rete secondaria di Tim, ossia quella in rame e fibra che dall’armadietto in strada entra nelle case (valutazione totale: 7,7 miliardi). È su questa base – e grazie a un accordo con Fastweb – che si creerà FiberCop, la società in cui si prepara a investire Cdp.
Ora che succede. Dopo il via libera unanime arrivato al capo di Cdp Fabrizio Palermo in una riunione ieri a Palazzo Chigi (presenti Conte, molti ministri ed esponenti di tutti i partiti di maggioranza), lunedì il cda di Tim darà vita all’operazione FiberCop e discuterà del Memorandum of understanding con Cassa depositi. I dettagli finanziari vanno ancora definiti, ma la sostanza è che la pubblica Cdp si prepara a entrare in FiberCop conferendo la sua metà di OF (e forse anche con soldi); Tim conferirà a sua volta anche la rete primaria (quella che va dalla centrale agli armadietti). Alla fine l’ex monopolista dovrebbe restare con la maggioranza assoluta, Kkr e Cdp col 18% a testa, il resto diviso tra Fastweb, che parte col 4,4%, e altri investitori (ieri Tim ha stretto un pre-accordo con Tiscali che potrebbe preludere all’ingresso nel capitale di FiberCop).
La mediazione Gualtieri. Per convincere i colleghi il ministro ha detto due cose: questo è un primo passo per una futura società pubblica della rete (e così ha sedato i grillini), Tim avrà la proprietà, ma non il comando. Secondo quanto spiegato ieri da Palermo a Palazzo Chigi, funzionerà così: non regole definite nello Statuto, ma un patto di sindacato tra Tim e Cdp che preveda un presidente con deleghe forti scelto dalla Cassa, il gradimento della stessa società pubblica sull’ad e la prima linea del management. Ovviamente il tutto funziona se Gubitosi si impegna a fare gli investimenti che servono e magari se Cdp entra nel cda di Tim.
E ora Enel? Dovrà dire cosa vuol fare. I problemi, intrecciati, sono di due ordini: di soldi e reputazionali. Starace si è impuntato nel pretendere una supervalutazione di Open Fiber, che serve a riconoscere la bontà della sua iniziativa e garantirebbe a Enel di fare una plusvalenza su un investimento finora non oculato. Il fondo australiano Macquarie, secondo gli interessati, alla fine della due diligence in corso riconoscerà che OF vale 7 miliardi di euro, il doppio di quanto la valuta Tim. Problema: Starace, manager di un’azienda sostanzialmente pubblica, vorrà bloccare un’operazione che ha il sostegno di governo, maggioranza e opposizione?

Referendum, la giravolta dei parlamentari. - Tommaso Rodano

Referendum, la giravolta dei parlamentari

Onorevoli conversioni. In aula a favore, alle urne no. A Montecitorio il taglio passò quasi all’unanimità. Ora tanti politici cambiano idea. E qualcuno sfrutta l’occasione per far ballare il governo.

Se non altro Roberto Giachetti l’aveva detto subito, in un meraviglioso caso di dissociazione da se stesso: “Voto il taglio dei parlamentari, ma un minuto dopo raccoglierò le firme per cancellarlo con un referendum”. Molti colleghi l’hanno seguito in ritardo: in aula hanno pigiato il tasto del “sì”, alle urne voteranno il contrario. Hanno ottimi argomenti, che però si erano dimenticati in Parlamento, dove la legge era passata con un plebiscito assoluto: 553 favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti. Ora si scoprono gli avversari della riforma in tutti i partiti. Addirittura 4 grillini: Andrea Colletti, Elisa Siragusa, Andrea Vallascas e Maria Lapia. E poi Giorgio Mulè, Deborah Bergamini, Osvaldo Napoli (Forza Italia), Matteo Orfini, Fausto Raciti, Laura Boldrini (Pd), Nicola Fratoianni (LeU). Molti altri esegeti del No – come il leghista Borghi – in aula si rifugiarono dietro una missione per non metterci la faccia. Poi ci sono quelli sempre in bilico, che aspettano di capire la strategia più proficua. Come Italia Viva (“Evitiamo di personalizzare”, ironizza Ettore Rosato). Persino il ministro Lorenzo Guerini fa melina e aspetta la direzione del Pd (per verificare che ci sia un accordo sulla legge elettorale). A sinistra pure c’è imbarazzo, Pier Luigi Bersani teme “il trappolone” al governo Conte: “Su un tema così controverso ogni opinione in famiglia è legittima e va rispettata. Io, assieme a molti altri a sinistra, ho sempre proposto la riduzione dei parlamentari”.

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Pronto il catalogo che racconta la storia di 90.000 galassie.


La distribuzione nel cielo delle 90.000 galassie osservate grazie al telescopio Lamost. (fonte: N. R. Napolitano/R. Li) © Ansa





























La distribuzione nel cielo delle 90.000 galassie osservate grazie al telescopio Lamost. (fonte: N. R. Napolitano/R. Li).

Utile per lo studio della misteriosa materia oscura.

Pronto il catalogo cosmico che ricostruisce la storia di 90.000 galassie grazie al movimento delle loro stelle. Utile per lo studio della misteriosa materia oscura che forma circa un quarto del cosmo, il catalogo è pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society dal gruppo internazionale di astronomi, coordinato da Nicola Napolitano, dell’Università cinese Sun Yat-sen di Zhuhai. Tra gli autori anche i ricercatori italiani dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf).
Le galassie identificate nel catalogo si trovano nell’emisfero Nord e sono distanti fino a 5 miliardi di anni luce dal Sistema Solare. Si tratta, spiegano gli esperti, del “primo catalogo della distribuzione delle velocità delle stelle all’interno di decine di migliaia di galassie”. Lo studio è basato sui dati raccolti dal telescopio cinese Lamost (Large sky Area Multi-Object Fiber Spectroscopic Telescope).
Questi risultati, spiega Napolitano, potranno “fornire informazioni importanti sulla struttura ed evoluzione delle galassie e sul loro contenuto di materia oscura. Se esiste la materia oscura, allora le stelle devono muoversi più velocemente per bilanciare l’attrazione gravitazionale generata da questa componente misteriosa del cosmo. Conoscere questa informazione per un elevato numero di galassie - conclude l’astrofisico - è fondamentale per studiarle con un occhio unico”.

Scoperto nesso tra terremoti Appennino e CO2 nelle falde.



A 4 anni dal sisma Amatrice attende la ricostruzione.

Lo studio ha preso in esame dati geochimici e geofisici raccolti dal 2009 al 2018, inclusi quelli relativi ai grandi terremoti dell'Aquila, di Amatrice e Norcia.

C'è un legame tra i terremoti che scuotono l'Appennino e la presenza di anidride carbonica nelle falde: i campionamenti fatti negli ultimi dieci anni mostrano infatti che la CO2 raggiunge la sua massima concentrazione in occasione di intensa attività sismica. La scoperta è pubblicata sulla rivista Science Advances dall'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e dall'Università di Perugia. "Dai dati emerge una correlazione tra i due fenomeni, ma non sappiamo ancora se la CO2 è un segnale che annuncia il sisma: per verificarlo si tenterà un monitoraggio continuo nel tempo", spiega Carlo Cardellini dell'Università di Perugia.
Lo studio ha preso in esame dati geochimici e geofisici raccolti dal 2009 al 2018, inclusi quelli relativi ai grandi terremoti dell'Aquila, di Amatrice e Norcia.
"Per quanto le relazioni temporali tra il verificarsi di un evento sismico e il rilascio di CO2 siano ancora da approfondire - precisa Giovanni Chiodini dell'Ingv - in questo studio ipotizziamo che l'evoluzione della sismicità nella zona appenninica sia modulata dalla risalita del gas che deriva dalla fusione di porzioni di placca che si immergono nel mantello".
Questa produzione continua di anidride carbonica in profondità e su larga scala favorisce la formazione nella crosta terrestre di serbatoi ad alta pressione. "La sismicità nelle catene montuose - aggiungono i ricercatori dell'Ingv Francesca Di Luccio e Guido Ventura - potrebbe essere correlata alla depressurizzazione di questi serbatoi e al conseguente rilascio di fluidi che, a loro volta, attivano le faglie responsabili dei terremoti".

Chiamate la neuro. - Marco Travaglio

La Congiura dei Pazzi
Brutalmente violentata dai Briatore Boys nella saga estiva della Prostata Smeralda, la Logica cercava un po’ di ristoro su una questione puramente matematica: la riduzione dei membri del Parlamento italiano, fra i più pletorici del mondo, che ora rischia di diventare un po’ più moderno ed efficiente. Purtroppo anche lì la Logica prende botte da orbi dai fronti del No e del Ni, che paiono usciti dalle serate più alcoliche del Billionaire. Per dimostrare il falso, e cioè che col Sì avremmo il Parlamento meno rappresentativo al mondo, si sommano le mele alle pere: si paragona il nostro Senato (elettivo e paritario con la Camera) alle Camere alte di altri Paesi (non elette e con meno poteri). Chi poi nel 2016 contestava – giustamente – la controriforma Renzi-Boschi perché sfasciava un terzo della Costituzione e pretendeva un Sì o un No secco a un blocco di misure eterogenee, poche sagge (meno senatori, via il Cnel) e molte demenziali (l’abolizione dell’elettività dei senatori, un iter legislativo vieppiù complicato e un combinato disposto con l’Italicum che premiava il governo a scapito del Parlamento), ora contesta il Sì per la ragione opposta: per tagliare i parlamentari, si tagliano solo i parlamentari, cambiando solo 2 articoli della Carta, senza “riforme organiche”. E meno male, viste le schifezze organiche in circolazione.
Poi c’è chi misura il peso dei parlamentari dal numero: più sono, più contano. Una barzelletta: l’eletto è tanto più autorevole e autonomo quanti più elettori rappresenta. E chi teme che il Parlamento esca screditato dovrebbe spiegare come ne uscirebbe dalla bocciatura popolare di un’autoriforma da esso stesso votata 4 volte con maggioranze oceaniche: rilegittimato o delegittimato? La comica finale è l’appello di Zingaretti a Conte perché si schieri sulla riforma elettorale e alla maggioranza perché la voti almeno in una Camera prima del referendum. Oh bella: non s’era detto, quando B. cambiò la legge elettorale ad personam e a colpi di maggioranza (Porcellum), che quella è materia parlamentare e il governo non deve impicciarsi perché le regole del gioco si decidono insieme e il Parlamento è sovrano? E come si fa a votare la legge elettorale prima di sapere quanti saranno gli eletti? Si lasciano in bianco le caselle col numero dei collegi di Camera e Senato e si riempiono dopo il 21? O si dà per approvata la legge costituzionale prima che i cittadini la votino? Si fa come l’Innominabile che nel 2015 varò l’Italicum per la sola Camera nella speranza che il referendum del 2016 abolisse l’elettività dei senatori e, dopo la vittoria del No, lasciò scoperto il Senato finché la Consulta rase al suolo la porcata? Ma soprattutto: quando arriva l’ambulanza?