lunedì 5 aprile 2021

Alfano, Minniti & C. I ministri di Renzi, casta che lavora. - Lorenzo Giarelli

 

La sintesi più efficace viene da Giovanni Paglia, componente della segreteria nazionale di Sinistra Italiana: “Alfano è a capo del primo gruppo della sanità privata, Padoan si appresta a presiedere Unicredit, Minniti fa il promoter di Leonardo e ora De Vincenti va a lavorare per i Benetton. Tutti ex ministri o sottosegretari: viene quasi da pensare che il governo Renzi sia stato un ufficio di collocamento”.

La metafora funziona perché in effetti, quattro anni e mezzo dopo il referendum che mise fine all’esecutivo di Matteo Renzi, non è solo il senatore semplice di Rignano ad aver trovato fortuna fuori dai Palazzi della politica – in cui però l’ex premier tiene ancora un piede e mezzo dentro – ma anche parecchi dei suoi vecchi compagni di strada. Certo, nessun altro ha un posto come membro stipendiato di un board saudita benedetto dal principe Bin Salman, ma sono comunque tutti ben piazzati, anche grazie alle competenze e alle relazioni personali maturate durante quegli anni di governo.

Affari Banche, aerei e ospedali lombardi.

L’ultimo caso è quello di Claudio De Vincenti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Matteo poi promosso ministro alla Coesione territoriale da Paolo Gentiloni, che prenderà il posto del defunto Antonio Catricalà come presidente di Aeroporti di Roma (Adr), la società controllata dalla famiglia Benetton che gestisce gli scali di Ciampino e Fiumicino.

Nel 2018 De Vincenti aveva fallito il ritorno in Parlamento, sconfitto in malo modo nel collegio uninominale di Sassuolo, dove il centrosinistra arrivò terzo dietro sia al centrodestra che al Movimento 5 Stelle. Occupandosi di aeroporti, per l’esponente del Pd sarà anche un ritorno all’antico: quando Massimo D’Alema era a Palazzo Chigi – parliamo della fine del secolo scorso – De Vincenti coordinava il Nars, la struttura del ministero del Tesoro che regola i servizi di pubblica utilità. Tutti motivi per cui adesso potrà mettersi alle spalle l’ultima delusione elettorale, come per altro avevano già fatto altri colleghi dell’epopea renziana.

A indicare la via ci pensò Angelino Alfano. Già nel luglio 2019, l’ex ministro dell’Interno (con Gentiloni sarebbe passato agli Esteri) si fece convincere dall’allettante proposta del Gruppo San Donato, il colosso della famiglia Rotelli che domina la sanità privata lombarda e che gli offrì la presidenza della holding. Anche Alfano, come De Vincenti, era fuori da Montecitorio dal 2018, quando decise di non ricandidarsi.

La stessa cosa non si può dire per due ex ministri renziani approdati di recente ad altre carriere, scelte a scapito del posto in Parlamento. Pier Carlo Padoan ha infatti lasciato il seggio in quota Pd: a ottobre Unicredit lo ha designato componente del Consiglio di amministrazione e presto verrà formalizzata la sua nomina a presidente dell’Istituto. Un incarico per cui gli torneranno parecchio utili gli anni di esperienza da ministro dell’Economia, ben quattro tra il 2014 e il 2018, prima con Renzi e poi con Gentiloni. In Unicredit infatti potrebbe trovarsi a gestire la fusione con il Montepaschi, la banca che da ministro ha nazionalizzato nel 2017 e a cui il suo ex ministero garantirà una cospicua dote pubblica.

Allo stesso modo, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti farà tesoro del periodo al governo ora che dovrà dirigere la fondazione Med-Or, creatura del gigante della difesa e dell’aerospazio Leonardo (la ex Finmeccanica). E se di Minniti si ricordano soprattutto le fatiche nel contrasto all’immigrazione dal Nord Africa e nelle relazioni con la Libia, parte di quei temi torneranno centrali nella sua attività, dato che l’obiettivo di Med-Or è quello di costruire “un ponte” attraverso cui “far circolare idee, programmi e progetti concreti” nel settore della difesa e della tecnologia con i Paesi esteri “dal Mediterraneo allargato fin sotto il Sahara, fino al Medio ed Estremo Oriente”.

Se poi Minniti dovesse aver nostalgia degli anni al governo, potrà sempre farsi un giro nei corridoi di Leonardo, dove potrebbe incrociare una sua vecchia conoscenza dei Consigli dei ministri renziani. Da maggio 2020 infatti Federica Guidi fa parte del cda dell’azienda, dove è giunta quattro anni dopo aver lasciato lo Sviluppo Economico a causa dell’inchiesta sul progetto Tempa Rossa: non indagata, l’ex ministra fu intercettata mentre parlava con il compagno (archiviato dopo l’inchiesta) di un imminente emendamento che avrebbe riguardato anche gli interessi industriali dell’uomo. Finita l’esperienza al ministero, la Guidi ha anche potuto recuperare il posto in Ducati Energie (dove è vice-presidente esecutivo) e in Gmg Group, dove siede nel Consiglio di amministrazione.

Onu Agricoltura e scuola tra Nazioni Unite ed Europa.

Un po’ diversi, ma certo non meno prestigiosi, i percorsi di Maurizio Martina e Stefania Giannini. Il primo, dopo quattro anni trascorsi alle Politiche Agricole e uno, particolarmente travagliato, da segretario reggente del Pd, a gennaio di quest’anno è stato nominato vicedirettore generale aggiunto della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura.

E all’Onu lavora da un pezzo anche Stefania Giannini, che con Renzi fu ministra dell’Istruzione fino al 2016. Dopo una lunga carriera universitaria e gli anni al governo, oggi la Giannini è vicedirettrice dell’Unesco, la nota agenzia che promuove “la pace e la comprensione” tra le Nazioni, ente in cui l’ex ministra ha la delega all’Istruzione.

Posizione da cui, anche in virtù dei mesi fianco a fianco al governo, potrà forse dare qualche consiglio a Federica Mogherini, ministra degli Esteri con Renzi e da settembre 2020 rettrice del Collegio d’Europa, l’Istituto di alta formazione in studi europei con sede a Bruges e a Varsavia e finanziato dall’Unione.

IlFattoQuotidiano

Il nipote dello zio…. - Gianfranco Zucchelli

 

Il nipote dello zio….ovvero colui che ha detto che la Raggi è un problema per Roma.
Il nipote dello zio, ha fondato nel 2005, insieme a Angelino ALFANO la fondazione Vedrò, dal nome di una ridente cittadina trentina chiamata DRO, vicina al lago di Garda. Ne facevano parte diversi politici tra i quali: RENZI, LORENZIN, ORLANDO, De GIROLAMO, ma anche magistrati, imprenditori, artisti.
La fondazione godeva di finanziamenti annuali pari a 800 (ottocento) mila euro. Chi finanziava la fondazione? Tra gli altri, Autostrade per l’Italia (BENETTON), Lottomatica/Sisal (gioco d’azzardo) e Giovanni MAZZACURATI (Consorzio Venezia Nuova, quella del MO.S.E. e lo sperpero miliardario) e poi SKY, NESTLE’, GOOGLE, ENI, ENEL, FINMECCANICA.
In data 18 luglio 2013, il senatore 5 stelle MORRA, in Parlamento chiede trasparenza sui fondi ricevuti dalla fondazione.
Il nipote dello zio, prima ancora di diventare presidente del consiglio, andava predicando che bisognava ampliare le privatizzazioni soprattutto con ENI, ENEL, FINMECCANICA, riducendo la proprietà pubblica.
E’ diventato presidente del consiglio, poi sappiamo quello che è successo. Ha dovuto lasciare il governo e la politica perché l’attuale 2%, che allora veleggiava con un consenso popolare bulgaro, gli ha detto “stai, sereno, perché andrò al governo solo tramite elezioni”. Poi invece……
Questo signore s’è trasferito a Parigi, dove ha insegnato fino a qualche giorno fa.
E' stato chiamato d’urgenza da un P.D. in difficoltà.
Adesso il messia del P.D. (in questo periodo vanno di moda coloro che sanno camminare sulle acque, vedi DRAGHI, chiamato per “salvare l’Italia, CONTE, chiamato al capezzale dei 5 stelle) vuol dialogare non solo con CONTE, FRATOIANNI, ma anche con colui che lo ha silurato, e con quell’altro 3% che ancora non ho capito che mestiere faccia e cosa vuol fare da grande, anche se si è candidato a sindaco di ROMA, contro la RAGGI.
Dicevo questo fenomeno venuto d’oltralpe, dialoga con tutti, ma non con colei che ha smantellato un sistema di corruzione che ha strangolato la città di Roma e i suoi cittadini, che ha rimesso i conti pubblici in ordine, che ha fronteggiato a viso aperto i clan sinti Casamonica/Spada, oltre a fare pulizia nelle cooperative che gestivano i migranti, con a capo BUZZI/CARMINATI, che foraggiavano politici di ogni ordine e grado esclusi i 5 stelle.
Se questo è il genio col quale il prof. CONTE dovrà confrontarsi per trovare un’alleanza politica, beh……no grazie. Mai con chi farà accordi con il 2%, col 3 % e soprattutto denigra lo scricciolo romano.
Non so quali materie abbia insegnato in quel di Parigi il nuovo fenomeno piddino, ma molto probabilmente dovrebbe andare a lezione da un avvocato di nome Virginia RAGGI, per capire come si amministra una cosa pubblica con competenza, trasparenza e onestà.
Naturalmente le lezioni dello scricciolo romano, sono “a gratis”…..forse è il caso di approfittarne. E’ un’occasione irripetibile.

Gianfranco Zucchelli su fb

Oltre 70 morti nelle inondazioni in Indonesia.

 

I dispersi sono circa 42.

Oltre 70 persone sono morte e dozzine sono ancora disperse dopo che inondazioni improvvise e frane hanno colpito l'Indonesia e il vicino Timor orientale.
"Ci sono 55 morti, ma questo numero è del tutto provvisorio e cambierà sicuramente, mentre circa 42 persone sono ancora disperse", ha detto all'emittente MetroTV Raditya Djati, portavoce dell'agenzia indonesiana per la gestione dei disastri.

Altri 16 corpi erano già stati trovati.

ANSA
La terra si ribella, ma se la prende con i più deboli.

Mafia: 'tradito' da pranzo di Pasqua, fermato boss. -

 

In cella nuovo capo clan Pagliarelli,era scappato in Brasile.


(ANSA) - PALERMO, 05 APR - Il pranzo di Pasqua con la famiglia è stato fatale a Giuseppe Calvaruso, ritenuto capo del mandamento mafioso palermitano di Pagliarelli che da tempo si era trasferito in Brasile e che era tornato a Palermo per i giorni di festa per poi partire per l'America. I carabinieri del comando provinciale, nel corso dell'operazione Brevis, lo hanno fermato mentre era con la sua famiglia per festeggiare la Pasqua.

Con lui sono finiti in manette Giovanni Caruso, 50 anni, Silvestre Maniscalco, 41 anni, Francesco Paolo Bagnasco, 44 anni, Giovanni Spanò, 59 anni, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, lesioni personali, sequestro di persona, fittizia intestazione di beni, tutti reati aggravati dal metodo e dalle modalità mafiose.

Il provvedimento è stato emesso dai pm Federica La Chioma e Dario Scaletta, coordinati dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. 

Per i carabinieri, Calvaruso sarebbe diventato il reggente del "mandamento" mafioso di Pagliarelli dopo l'arresto del boss Settimo Mineo, finito in cella due anni fa. Calvaruso da qualche tempo si era trasferito in Brasile delegando ai suoi fedelissimi la gestione gli affari delle "famiglie" a lui subordinate. Il suo diretto referente, durante la permanenza in Brasile, sarebbe stato Giovanni Caruso.

Prima di lasciare l'Italia, il capomafia avrebbe mantenuto, attraverso riunioni e incontri anche in luoghi riservati, un costante collegamento con i vertici dei mandamenti mafiosi di Porta Nuova, Noce, Villabate, Belmonte Mezzagno per la trattazione di affari. Nel ruolo di capo avrebbe risolto le controversie fra gli "affiliati", assicurato "l'ordine pubblico" sul territorio, ad esempio prendendo parte a un violento pestaggio agli autori di alcune rapine non autorizzate da Cosa nostra. Come emerso in un dialogo intercettato con Caruso, Calvaruso avrebbe assicurato il mantenimento in carcere dei detenuti appartenenti alle famiglie mafiose del mandamento e gestito, grazie a prestanomi, il controllo di attività economiche dentro e fuori il territorio di sua competenza.

Commercianti e imprenditori si rivolgevano a Cosa nostra per ottenere autorizzazioni per l'apertura di attività commerciali o per risolvere liti e controversie: l'organizzazione mafiosa, secondo gli investigatori, avrebbe assunto, secondo una consolidata tradizione, una patologica funzione supplente rispetto alle istituzioni dello Stato. Emerge dall'inchiesta della dda di Palermo che oggi ha portato al fermo di boss e gregari della famiglia mafiosa di Pagliarelli. Al clan sarebbe stato chiesto di individuare e punire gli autori di rapine commesse senza il benestare del clan, trovare e restituire ai proprietari un'auto rubata, autorizzare l'apertura di nuovi esercizi commerciali.

Le indagini hanno ricostruito il pestaggio di un rapinatore che avrebbe commesso due colpi non autorizzati dalla famiglia mafiosa. Il titolare di una rivendita di detersivi, dopo due rapine subite nell'arco di 5 giorni, si sarebbe rivolto agli uomini di Cosa nostra per identificare i responsabili e tornare in possesso dei soldi rubati. L'imprenditore avrebbe chiesto l'intervento di Giovanni Caruso, tra i fermati, a cui avrebbe consegnato le immagini girate dal sistema di video-sorveglianza durante le rapine subite il 29 agosto e il 3 settembre del 2019. I rapinatori sono stati individuati dalla cosca e l'ideatore dei colpi è stato attirato in un garage, e pestato a sangue anche alla presenza del boss Giuseppe Calvaruso. Caruso, inoltre sarebbe stato contattato da un altro commerciante per ritrovare una Lancia Y rubata.

Calvaruso avrebbe accumulato ingenti capitali che avrebbe reinvestito nel settore edile e della ristorazione. Per evitare il sequestro dei beni avrebbe creato una fitta rete di prestanomi a lui fedeli per cercare di tutelare il suo patrimonio. I militari parlano di "notevole abitudine imprenditoriale del capo mandamento" che andava a caccia di flussi di capitali provenienti da investitori esteri. In particolare Calvaruso avrebbe fatto affari con un cittadino di Singapore interessato a investire grossi capitali nel settore edile e turistico-alberghiero in Sicilia. L'inchiesta ha svelato anche una serie di estorsioni finalizzate a costringere i proprietari di immobili in ristrutturazione a rivolgersi per i lavori alle ditte edili di fatto di proprietà di Calvaruso.

ANSA

domenica 4 aprile 2021

Ehi, dici a noi? - Marco Travaglio

 

Un tempo, se ricordavi le condanne di un politico, ti beccavi del “giustizialista” dal Giornale&C.. Ora te lo becchi dal Giornale&C., ma anche, in stereo, da Repubblica. È capitato a Di Battista, reo di notare che i renziani chiedono alla Rai il bavaglio per Scanzi, mai indagato, e non per le orde di pregiudicati e imputati per gravi reati che pontificano come gigli di campo. Apriti cielo. Sallusti sul Giornale e Cappellini su Rep sono insorti come un sol uomo, riproducendo su carta le larghe intese di governo. Sallusti, a suo modo, è financo divertente. Invece Cappellini, offeso perché i talk “pagano Scanzi per fare l’opinionista” e lui no, ci rifila un bignami di storia del giustizialismo, noioso quasi quanto lui. Un frullato di storie e persone diverse per deplorare chi detesta i corrotti anziché esaltarli: un vizio tipicamente “reazionario”, che però purtroppo “nasce a sinistra” fin da quando il Pci, invece di colludere con le Br, “sperimenta il collateralismo con le procure” (testuale). Poi c’è Tangentopoli, “col tifo per i pm del pool di Milano” anziché per i ladri. Segue una raffica di slogan copiati paro paro dal catalogo berlusconiano: “avviso di garanzia come condanna anticipata, carcerazione preventiva per estorcere confessioni, difesa in minorità rispetto all’accusa e presunzione di colpevolezza teorizzata da Davigo, star di un giustizialismo colorato nel frattempo di grillismo”. A quel punto, “nelle tribune della sinistra o sedicente tale”, arriva il “nuovo Zdanov”, cioè il sottoscritto, in compagnia dei putribondi “Santoro, Di Pietro e Funari”, e “l’Unità di Furio Colombo” mi “elesse commentatore principe” (anziché eleggervi, che so, un Cappellini). E poi “il girotondino Flores d’Arcais” e quel facinoroso di Asor Rosa, al grido di “più Ddr per tutti”.

Ora, se non andiamo errati, Asor Rosa scrive su Repubblica fin dalla fondazione. E Flores dirigeva MicroMega per il gruppo Repubblica-Espresso, mentre l’Espresso di Rinaldi rivaleggiava con Repubblica di Scalfari e Mauro nel pubblicare i verbali di Mani Pulite, i memoriali dell’Ariosto, le 10 Domande a B. su Noemi ecc. Da quelle stesse colonne, Cappellini ci spiega che il suo giornale ha sbagliato tutto per 40 anni finché, reduce dal Riformista, dal Messaggero e da Mediaset, arrivò lui. Possibile, per carità: ma non si vede perché lo venga a dire a noi. Onde evitare che completi la storia del giustizialismo con la seconda puntata sul gruppo Repubblica-Espresso, ci appelliamo ai casting dei talk, anche del mattino presto o della sera tardi: offrite due spicci pure a Cappellini. Non più perché non venga, ma perché venga. Sì, è vero, il motto di Montanelli era “Un solo padrone: il lettore”. E il suo è “Un solo lettore: il padrone”. Ma fate un’opera buona. Sennò riattacca il pippone.

IlFattoQuotidiano

Buona Pasqua a tutti.

 


sabato 3 aprile 2021

RECOVERY FUND/INVESTIRE SUL SUD COME LA GERMANIA FECE SULL’EST. - Isaia Sales

 

In Europa, a partire dal secondo dopoguerra, ci sono stati solo due imponenti tentativi di recupero di vaste aree sottosviluppate all’interno della stessa nazione. Si tratta del Sud d’Italia (dal 1950 in poi) e della Germania dell’Est (dal 1990 ad oggi). I tentativi hanno interessato una consistente fetta di popolazione, 16 milioni e mezzo di abitanti nell’Est (un quinto dell’intera popolazione tedesca) e 20 milioni nel Sud (un terzo di quella italiana); molto estesa la superficie territoriale coinvolta (il 30% in Germania, il 41% in Italia). Anche altre nazioni europee hanno messo in piedi politiche specifiche per territori arretrati, ma nessuna di esse ha riguardato territori così ampi, così geograficamente compatti, con un tale numero di abitanti e così cospicue risorse investite.

I risultati di queste due straordinarie esperienze sono in genere valutati dagli studiosi e dai commentatori politici con giudizi radicalmente opposti: si passa dall’uso disinvolto della parola “fallimento” a quella enfatica di “miracolo”; per alcuni si tratta del più vasto spreco di denaro pubblico mentre per altri del più efficace intervento statale nella storia dei rispettivi Paesi. Formulare, dunque, un giudizio basato sui dati economici e finanziari non è facile: mentre conosciamo le cifre investite per l’Italia meridionale, non ci sono ancora cifre del tutto condivise su quanto effettivamente si è finora speso nella Germania dell’Est.

Gli investimenti. Per il Sud d’Italia le cifre sono queste: in cinquantotto anni, cioè dall’avvio della Cassa del Mezzogiorno nel 1950 al 2008 (cioè fino all’inizio della crisi economica globale che ha chiuso definitivamente qualsiasi politica pubblica per il Sud lasciandola solo all’utilizzo del fondi europei di coesione) sono stati investiti 342,5 miliardi di euro. In Germania Est si è investito in 30 anni quasi 5 volte in più di quello che si è speso in circa 60 anni nel Sud d’Italia, cioè tra i 1500 e i 2000 miliardi di euro. Nelle regioni orientali tedesche 70 miliardi di euro in media all’anno, nel Mezzogiorno 6 miliardi l’anno. La Germania ha investito nel suo “Mezzogiorno” (cioè nelle regioni che prima della riunificazione facevano parte di un altro Stato, la RDT) tra il 4 e il 5% dell’intero suo Pil, una cifra enorme, fatta di ingentissime risorse statali (procurate con emissione di titoli di Stato e attraverso la fiscalità generale con una tassazione ad hoc di tutti i redditi dei tedeschi) e da investimenti esteri per 1.257 miliardi di euro.

Nel Sud d’Italia invece, per tutto il periodo del cosiddetto “Intervento straordinario” non si è mai superato la soglia dell’1% del Pil. Chiusa la Cassa per il Mezzogiorno (la struttura speciale che guidò l’intervento pubblico nei territori meridionali) la percentuale è scesa ulteriormente.

Il confronto Vediamo ora i risultati in termini di reddito pro capite. Nel 1989 il Pil per abitante della Germania Est era la metà di quello della Germania Ovest (addirittura un terzo, secondo altre fonti), nel 2009 era salito a due terzi, nel 2018 al 75,1%. Certo, non l’eliminazione del divario come aveva promesso Helmut Kohl, ma comunque un balzo in avanti di almeno 25 punti. Un risultato ancora più significativo perché inizialmente la scelta discutibile di smantellare l’apparato industriale e privatizzarlo comportò una spaventosa disoccupazione di massa e l’emigrazione di 1 milione e ottocentomila persone dall’Est all’Ovest. Ancora oggi la disoccupazione è più alta ad Est, così come i salari sono inferiori in media del 20%, lo spopolamento di alcune aree è vistoso, il peso delle esportazioni è fortemente squilibrato tra le due aree e il malcontento tra la popolazione è elevato (come dimostra il sostegno a formazioni naziste in un territorio ex comunista!). Ma basta fare un confronto con il Sud d’Italia per comprendere come si tratti comunque di risultati notevoli: prima della pandemia, cioè nel 2019, il prodotto per abitante nel Mezzogiorno italiano è stato pari al 55,1% rispetto a quello del Centro-Nord, quasi 20 punti in meno della differenza che intercorre oggi tra le due aree tedesche. Il tasso di disoccupazione, sempre nel 2019, è stato del 17,6% nel Sud e del 6,9% nell’Est tedesco; la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) è stata del 45,5% nel Sud, e solo dell’8,6% negli ex Lander dell’Est.

L’economia dietro la politica. La riunificazione tedesca è indubbiamente un evento epocale, tra le più difficili e complesse operazioni di pace del Novecento. La Germania ha per due volte riunificato territori in cui si parlava la stessa lingua e ci si sentiva accomunati dalla stessa storia e dalla stessa cultura: una prima volta nel 1871 e la seconda a fine Novecento. Alcuni studiosi ritengono che l’unità nazionale sia un valore che trascende la logica economica, un’aspirazione che travalica qualsiasi contabilità dei costi, un sacrificio da sopportare in cambio di una soddisfazione civile e “morale”: unire territori diversi è politicamente entusiasmante, ma economicamente devastante. D’altra parte come non ricordare il salasso che costò al bilancio del regno sabaudo la spesa per unificare l’Italia (in gran parte per sostenere le guerre). Ma non è affatto così. Dietro un disegno politico c’è sempre una convenienza economica, soprattutto se il disegno è davvero ambizioso e sostenuto da forti motivazioni pratiche oltre che ideali. Nel caso dell’unità raggiunta dall’Italia e dalla Germania a dieci anni di distanza l’una dall’altra, in ritardo rispetto alle altre nazioni europee, fu determinante la necessità del capitalismo dei rispettivi Paesi di allargare il mercato a dimensioni sufficienti a reggere le ambizioni nazionali. L’unità politica corrispondeva ad una esigenza anche economica. Ma anche le riunificazioni possono avere lo stesso miscuglio di aspirazioni politiche e di valutazioni economiche.

La lezione tedesca. La Germania sta lì davanti ai nostri occhi a provarcelo contro ogni ragionevole dubbio. Perché mai in Italia una reale convergenza tra due aree così differenti, quali sono il Nord e il Sud del Paese, viene percepita invece come un danno o un pericolo? Non ha bisogno anche l’Italia di una sua effettiva riunificazione? E può essere quello tedesco un modello? Diversi studiosi hanno delle perplessità su questo punto, anzi ritengono che si sia trattato di una vera e propria “annessione” più che una riunificazione, confermando il parere che diede già nel 1990 Gunter Grass. In ogni caso, si tratta di uno dei tentativi più coraggiosi, più originali, più dispendiosi fatti in Europa per ridurre le distanze tra realtà territoriali che, per varie ragioni storiche, si erano trovate separate e diversamente sviluppate.

Tre lezioni per l’Italia. Che insegnamenti se ne possono trarre per il dibattito politico ed economico in Italia? 

1) Ogni divario tra diverse parti di uno stesso Paese è superabile, e lo si può fare (se lo si vuole) in pochi decenni anche partendo da situazioni peggiori di quelle che ci sono in Italia tra Nord e Sud. Avvicinare due territori diversamente sviluppati (in un lasso di tempo ragionevole) è un obiettivo assolutamente alla portata di qualsiasi nazione ben motivata. È una strategia che appartiene alla politica e non all’utopia. In economia e in politica non esistono situazioni irrecuperabili. 

2) Il ritardo economico non è un fatto antropologico, non appartiene alla razza, all’indole, al carattere, al clima, non è uno stigma morale. Sembra assurdo doverlo ripetere, ma la Germania dimostra come il vantaggio di un’area non si possa spiegare e giustificare con l’arretratezza antropologica dell’altra. Infatti fino al 1949, cioè all’atto formale della divisione della Germania in due entità statali distinte, quella occupata dai sovietici e quella occupata dalle truppe alleate, i Lander orientali erano la parte più sviluppata, facevano parte nel passato della “grande Prussia”, una delle realtà industriali più avanzate d’Europa. Nel 1937 i territori che poi diventeranno la Germania dell’Est avevano il reddito per abitante più alto in Europa, superiore del 27% rispetto ai territori della Germania dell’Ovest, con la presenza di imprese modernissime nel campo della meccanica di precisione, dell’ottica, della chimica e della produzione aereonautica. Dunque, sono le vicende storiche, gli accadimenti politici, le scelte strategiche che possono modificare radicalmente l’economia e la vita di un territorio e la sua collocazione nelle vicende generali di una nazione. I popoli non sono immobili, né tantomeno i territori. 3) Non è vero che i soldi spesi nelle aree più arretrate sono uno spreco, una perdita secca per lo Stato e per i territori più ricchi. Colmare i divari economici è una operazione che si ripaga ampiamente, è un affare per tutti e non un sacrificio. D’altra parte ciò si è dimostrato vero anche in Italia: il periodo in cui il nostro Paese è cresciuto a tassi elevatissimi (1950/1980) corrisponde al periodo in cui decollava anche il Sud grazie agli investimenti della Cassa del Mezzogiorno. Recuperando una parte meno sviluppata, la ricchezza investita si trasforma in ricchezza generale.

Un esperimento keynesiano. La Germania di oggi è di gran lunga la nazione europea economicamente più ricca di quanto lo fosse nel 1989, prima della riunificazione e prima dei grandi investimenti nell’Est. Anzi nel 1989 l’economia tedesca stava attraversando un periodo di stagnazione e di difficoltà. Si è trattato, dunque, di una particolare sperimentazione di politiche keynesiane territoriali. I benefici generali sono stati nettamente superiori ai costi investiti. Se negli anni 1980/1989 la crescita complessiva della Germania Ovest era stata in media dell’1,8%, negli anni successivi alla riunificazioni si sfiorarono tassi di crescita molto alti, un più 4,5% nel solo 1990 e un più 3,2 per cento nel 1991. L’economia tedesca ricevette dall’unificazione e dai massicci investimenti all’Est uno straordinario stimolo di crescita che le permise di proiettarsi tra le prime potenze industriali e commerciali del mondo, assurgendo a un ruolo geopolitico inimmaginabile a pochi decenni dalla sconfitta della seconda guerra mondiale. Certo, la Germania non è l’Italia, il Sud non è l’Est tedesco. E in Italia il divario territoriale dura da 160 anni. Ma il Mezzogiorno ha conosciuto anch’ esso un suo periodo d’oro. Si è verificato tra il 1950 e il 1973. In quel ventennio il Pil meridionale registrò il più alto tasso di crescita dal 1861 in poi. Nel 1973 il Pil pro capite del Sud arrivò al 60,5 di quello del Centro-Nord (quasi otto punti in più rispetto al 1950, quando era fermo al 52,9) un risultato mai più raggiunto negli anni successivi. I progetti di investimenti nella prima fase erano rigorosi, i tecnici di alto livello. Poi ci fu una degenerazione clientelare, e dalla crisi petrolifera del 1973 l’Italia decise progressivamente di lasciar perdere.

Il passato che insegna. Il trentennio d’oro dell’Italia , quello culminato con il boom economico, si realizzò principalmente perché il Sud fu parte integrante delle strategie di sviluppo della nazione, con la sua manodopera emigrata che rese possibile il balzo industriale del Nord (ben 2 milioni e mezzo di meridionali emigrarono tra il 1955 e il 1975), con la costruzione di infrastrutture che fecero uscire dal Medioevo intere comunità, con l’allargamento della sua base industriale e agricola, con la piena partecipazione alla società dei consumi di una parte consistente della sua popolazione, con la scolarizzazione di massa che permise a diverse generazioni di cambiare radicalmente il mestiere dei padri.

Il Sud fu tra gli anni cinquanta e la prima metà degli anni settanta del Novecento parte attiva della ricostruzione nazionale. Senza gli investimenti nel Sud, l’Italia sarebbe rimasta una piccola nazione, ininfluente sullo scenario internazionale, come tutto sommato lo era stato nel corso della sua storia precedente, dal 1861 in poi. Fu in quel periodo, cioè nella ricostruzione del secondo dopoguerra, che il Sud divenne fino in fondo parte dell’Italia, quando nei fatti concorse al suo sviluppo economico e se ne avvantaggiò.

Un’altra obiezione che si può fare a quanto finora sostenuto è che in Italia non ci sono le risorse e le condizioni politiche e finanziarie per fare quello che si è fatto in Germania. Eppure qualcosa sembra rendere possibile ciò che fino a qualche tempo fa sembrava impossibile. Cospicue risorse pubbliche arriveranno dall’Europa come arrivarono nel secondo dopoguerra dai prestiti americani e internazionali.

Fu grazie a quei prestiti che si avviò una politica straordinaria per il Mezzogiorno e fu quella politica che diede una svolta all’economia italiana. Quanti soldi investiti nel Sud sono ritornati all’economia del Nord? Molti. La Svimez ha calcolato che per ogni euro investito nel Sud 40 centesimi tornano all’economia del Centro-Nord in termini di beni e servizi per le imprese settentrionali; al contrario, per ogni euro investito nel settentrione solo 6 centesimi ritornano nel meridione.

D’altra parte in quell’epoca a spingere per massicci investimenti al Sud c’erano uno statista come Alcide De Gasperi (trentino) e un grande banchiere come Domenico Menichella (pugliese) e tanti tecnici settentrionali appassionati delle terre meridionali. A Menichella in gran parte si deve il miracolo economico italiano. Egli fu anche il fondatore della Svimez nel 1946. E fu lui ad ideare la Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 utilizzando i prestiti in dollari della Banca Mondiale destinati agli investimenti nelle aree depresse del mondo.

Una nuova occasione Draghi ha davanti a sé la possibilità di ripetere un nuovo miracolo economico. Non si potrà certo replicare il modello della Cassa per il Mezzogiorno, ma la nazione ha bisogno di una strategia che inglobi il suo Sud.

D’altra parte le risorse europee sono tante proprio perché assegnate sulla base delle difficoltà economiche delle regioni meridionali. L’Italia non ce la farà a riprendersi riattivando un solo motore produttivo; ha la possibilità di accenderne un secondo che renderà più veloce ed efficiente il primo. Far crescere il Sud è un affare per l’economia italiana. L’occasione si ripresenta. Come nel secondo dopoguerra, come in Germania.

Libertàgiustizia da La Repubblica