Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 19 maggio 2021
Giuseppe Conte
Mancano i camerieri. Ovvio: sono tutti sul sofà, fannulloni! - Silvia Truzzi
Chi se lo fa il sofà? I pelandroni che non hanno voglia di lavorare! Cari lettori, voi non sapete che effetti drammatici ha sull’economia quest’oggetto dei desideri dei fancazzisti di tutto il mondo. Danni incalcolabili. Sentite qua:
“Non si trovano più camerieri e lavoratori per le attività stagionali, per questo alcune attività non riapriranno. Bene, questo è uno dei risultati paradossali dell’introduzione del Reddito di cittadinanza. Se mi dai 700 euro al mese e vado a fare qualche doppio lavoro non ho interesse ad alzami alle sei e ad andare a lavorare in una industria di trasformazione agricola”.
Uno pensa: l’avrà detto Briatore. Invece no, è un pregevole distillato di una delle ultime dirette Facebook del presidente della Campania, Vincenzo De Luca. Come i compagni del Pd si approcciano alle questioni del lavoro non c’è nessuno.
È noto che tra i percettori del Reddito di cittadinanza quelli che arrivano a prendere 700 euro sono pochissimi, ma a parte questo è una bugia malevola dire che le misure di sostegno alla povertà siano un incentivo a non lavorare. Se ne sono accorti perfino negli Stati Uniti, che non sono esattamente la patria dello Stato sociale. Leggiamo sul Corriere che a Stockton, città di 300 mila abitanti della Central Valley agricola della California, l’ex sindaco Michael Tubbs “ha iniziato quasi due anni fa, nel 2019, a versare 500 dollari al mese a 125 famiglie indigenti”, esaminando i loro comportamenti e confrontandoli con quelli di altre famiglie in condizioni analoghe che non avevano ricevuto il sussidio. Risultato: le famiglie hanno usato il denaro in modo costruttivo (37% per acquistare cibo, l’1% per alcolici), riducendo il loro indebitamento e sfruttando meglio le occasioni di lavoro: all’inizio del programma solo il 28% dei beneficiati aveva un lavoro fisso a tempo pieno, alla fine questa quota era salita al 40% mentre il numero delle famiglie che stanno rimborsando i loro debiti è salito dal 52 al 62%. Dice l’ex sindaco: “Il principale risultato del nostro esperimento è la dimostrazione che aiutare i più poveri con distribuzioni di denaro non spinge la gente a lavorare di meno ma di più”. Questi risultati sono analoghi a quelli di esperimenti simili svolti in mezzo mondo. E mentre la pandemia ha cambiato l’atteggiamento dell’opinione pubblica e della politica perfino Oltreoceano (tanto che Biden ha varato programmi di sostegno al ceto medio impoverito dalla crisi), qui ci tocca sentire discorsi irricevibili sulla mancanza di camerieri.
Sussidi sul modello del reddito di cittadinanza sono previsti dalla Costituzione che, all’articolo 38, garantisce non solo gli inabili al lavoro ma anche i cittadini involontariamente disoccupati, infortunati e invalidi. Non è che abbiamo la mania della Costituzione, è che essendo la Costituzione medesima la legge fondamentale della Repubblica, ci pare rilevante che il reddito di cittadinanza abbia il suo fondamento nella norma principe del nostro ordinamento. E anzi: è grave che sia stata attuata con settant’anni di ritardo. Due sentenze sul principio di solidarietà che sta alla radice di questi diritti (la 409 del 1989 e la 75 del 1992) spiegano bene quel che vogliamo dire: “Il principio solidarista è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito insieme ai diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo, dall’articolo 2 come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal costituente”.
Ai tempi del dibattito sul reddito, nel 2018, Lorenza Carlassare spiegò: “L’avverbio ‘normativamente’ sta a significare che non siamo di fronte a un’esortazione generica, ma che la struttura normativa del sistema deve essere ispirata a quel principio. Principio indissolubilmente legato al valore primario su cui si fonda la Costituzione intera: la persona e la sua dignità”.
Capito, Vincè?
IlFQ
Cari giudici di Strasburgo, su B. non avete capito un granché. - Gian Carlo Caselli
Grazie! Grazie signori giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo! Sono stato critico con voi nel caso Contrada e per l’ergastolo ostativo spalancato ai mafiosi. Ma ora no. Avete regalato alla malandata giustizia italiana una boccata d’ossigeno, provvidenziale per sopravvivere ai miasmi delle vicende Palamara e Amara. Perché se voi ci avete messo quasi otto anni per leggere un ricorso, i tempi biblici della giustizia italiana non sono più uno scandalo di cui vergognarsi.
E poi, signori della Corte, mi avete ricordato una faglia del nostro sistema, quella che – a volte inconsapevolmente – può portare ad avere più riguardo per i “galantuomini”, cioè le persone considerate perbene a prescindere, in ragione della posizione sociale ed economica che consente loro di garantirsi costose e agguerrite difese di primissimo livello. Proprio come quella dei magnifici sei (nomi che lasciano basito un povero magistrato in pensione come me) che compongono il collegio difensivo di Silvio Berlusconi. È di lui, infatti, che stiamo parlando, della sua condanna per frode fiscale di quasi otto anni fa, della quale oggi voi, signori Giudici, chiedete all’Italia conto e ragione, formulando una raffica di quesiti che al di là delle vostre intenzioni servono principalmente a seminare dubbi dove non ce ne possono più essere.
Dubbi sintetizzabili nella domanda se il ricorrente Cavaliere abbia avuto un processo equo a opera di un giudice imparziale, indipendente e costituito per legge. Complimenti! Ancora un grazie, ma questa volta a nome di tutti i condannati di questo mondo, posto che non ce n’è quasi nessuno che non sia straconvinto di essere stato vittima di un processo iniquo.
Gira e rigira, i quesiti riesumano la tesi insostenibile del complotto giudiziario contro Berlusconi, evocato per anni con lo studiato sistema di trasformare in verità – a forza di ripeterli – anche i falsi grossolani. Ma un minimo di conoscenza della realtà consente di affermare che soltanto in Italia il fondato e motivato esercizio dell’azione penale nei confronti del capo del governo ha determinato la contestazione in radice del processo, da parte dello stesso leader e della sua maggioranza; con la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (indicati tout court come avversari politici).
Questo è ciò a cui si è assistito nel nostro Paese, in un crescendo che ha visto, oltre all’attacco quotidiano a pubblici ministeri e giudici, l’approvazione di varie leggi ad personam . Tra cui la legge Cirami e il lodo Schifani, utilizzabili rispettivamente per sottrarre il processo al giudice naturale e allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento. Guarda caso, due punti oggetto dei quesiti Cedu.
A stupire, in particolare, è il quesito se l’imputato abbia potuto disporre del tempo necessario a preparare la sua difesa. Non solo perché la pattuglia di avvocati italiani che lo assisteva non era certo di livello inferiore a quella europea. Soprattutto perché di tempo ne è trascorso così tanto che tre dei reati contestati sono caduti in prescrizione!
In ogni caso, tutti i quesiti Cedu riguardano questioni già valutate e respinte da tutti i giudici italiani (di merito e di legittimità). Per cui non riesco proprio a vedere come il governo italiano (chiamato dalla Cedu a presentare la “giustificazione”, neanche fossimo a scuola…) possa affermare cose diverse. Sarebbe un oltraggio al principio della separazione dei poteri. Vero è che la maggioranza dell’attuale governo ha ripescato, anche tra i suoi componenti, il partito di Berlusconi. Ma a tutto c’è un limite…
IlFQ (18/5/2021)
“Bullo, isolato, da arrestare” Stampa e tv linciano Davigo. - Lorenzo Giarelli e Fabio Sparagna
Solo, spregiudicato, nella bufera, da arrestare. Il ritratto che giornali e talk show dedicano a Piercamillo Davigo, il magistrato che ricevette i verbali farlocchi di Piero Amara sulla fantomatica Loggia Ungheria, descrive un pericoloso criminale vittima di se stesso. E poco importa che Davigo non sia neanche indagato: al centro dello scandalo sembra esserci lui e soltanto lui.
Su La7 Non è l’Arena, il programma di Massimo Giletti, picchia da settimane. Domenica scorsa il grande ospite era Sebastiano Ardita, considerato una della vittime di questa faccenda. Con cui Giletti si può sfogare: “Come fa un magistrato che la conosce bene a non vedere che sono inattendibili queste cose?”. Nulla però in confronto alla puntata precedente, quando a fare la morale a Davigo c’era nientemeno che Luca Palamara, già radiato dalla magistratura: “Le informazioni spesso sono utilizzate per colpire gli avversari e questa storia mi sembra si inserisca pienamente in questo crinale”. Lo stesso Palamara ieri sul Foglio ha paragonato il suo caso a quello di Davigo: “Con la differenza che io sono sotto processo”.
Anche a Quarta Repubblica, su Rete4, da tempo va in onda l’inquisizione. Ospite fisso è Piero Sansonetti: “Se quel dossier dice cose vere, è da colpo di Stato. Non lo sappiamo, ma quello che sappiamo è che c’è un membro del Csm che ha inguattato il dossier per un anno”. Poi c’è Carlo Nordio, ex pm di cui si ricorda – a proposito di dossier inguattati – la richiesta di archiviazione per Massimo D’Alema e Achille Occhetto chiusa in un cassetto a Venezia per quattro anni. Oggi Nordio sale in cattedra: “Davigo non ha seguito le procedure che avrebbe dovuto. Quando ho letto le sue risposte sono schizzato sulla sedia”. Con Bruno Vespa in studio, poi, l’occasione è ghiotta per infilarci dentro la condanna a Berlusconi e la giustizia politicizzata: “Ci sono troppe cose che non tornano in quella sentenza”.
Nello studio di DiMartedì ci pensa Alessandro Sallusti a infierire: “Davigo è vittima del suo stesso metodo. Qui ci sono dei comportamenti così ambigui e discutibili che se applicati alla politica o all’impresa sarebbero già partiti gli avvisi di garanzia e forse una carcerazione preventiva”. Anche perché “Davigo ha arrestato per molto meno”, lui che “ha teorizzato la cultura del sospetto”. Insomma “Davigo è indifendibile”, come chiosa Nicola Porro in una diretta Facebook, tanto che “l’unico che difende Davigo è Travaglio”, colui che per Paolo Guzzanti è il “Re Mida al contrario” che “perde uno dopo l’altro i suoi beniamini”.
Gli epiteti per parlare di Davigo, poi, non sono mai mancati, da “Piercavillo” al “Dottor sottile”, fino al “Pieranguillo” sfornato da Alfredo Robledo a Piazzapulita, ma per Carlo Bonini (Repubblica) l’ex pm diventa addirittura il “Cavaliere Nero”, nonché “interprete e custode di una cultura inquisitoria del processo penale” che ne hanno fatto “il campione di un giustizialismo declinato nella sua forma più ideologica”. Libero invece lo bolla come “Pierbirillo”, mentre il Riformista approfitta dell’entrata in scena di Nicola Morra per delineare il quadretto degli “Stanlio e Ollio delle manette”, novelli “Gianni e Pinotto” che vogliono piacere “con l’uso della forza”.
Ma non è solo questione di soprannomi. A tornare al centro del dibattito è l’intera stagione di cui il pm del pool di Mani Pulite fece parte, in quella che ha l’aria di essere una vendetta di chi non vedeva l’ora di un po’ di revisionismo.
È con malcelato sarcasmo che Il Foglio racconta come “stavolta nella bufera ci è finito proprio lui, Davigo, il grande moralizzatore della vita pubblica del Paese”, mentre Guzzanti su Il Riformista incalza ancora: “Dottor Davigo, ci aiuti lei che è come la divina provvidenza: ne sa niente lei?”. E ancora Sallusti, su quello che era il suo Giornale, ironizzava sul “puro Davigo” che “non può sfuggire alla regola che ‘se fai il puro, arriverà qualcuno più puro di te e ti epurerà’”.
Su La Verità Mario Giordano rivolge una lettera beffarda al pm: “Il suo integralismo giacobino ha sempre suscitato in me, insieme a un po’ di sgomento, un’insana attrazione”. Per il già citato Piero Sansonetti, Davigo è addirittura “un piccolo Conte in toga” che forse “non sta tanto bene”, “un bulletto qualunque”. Il Corriere della Sera ironizza sulla proverbiale incorruttibilità del magistrato: “Con quella faccia un po’ così, da Javert padano, quell’espressione un po’ così, da trangugiatore di Maalox, solo un pazzo avrebbe potuto immaginare di corromperlo”.
L’obiettivo delle invettive è via via più chiaro. Maurizio Belpietro su La Verità palesa i non detti: “Da Mani pulite siamo a Toghe rotte. Ci sono voluti 30 anni e tanti orrori giudiziari, ma i problemi irrisolti di quella stagione, con lo strapotere dei pm e il mini-potere della magistratura giudicante, ma soprattutto lo stato di subalternità della difesa, ora sono sotto gli occhi di tutti”. Libero non riesce proprio a trattenersi dal “guardare con mestizia definitiva” al passato: “Sul pool di Mani pulite, sipario”. E così Repubblica può evocare “la terribile nemesi dell’inquisitore nella Colonia penale di Franz Kafka, intrappolato nella macchina che lui stesso aveva realizzato per comminare le pene in modo esemplare e che invece finisce per stritolarlo”. E menomale che questi sono i garantisti.
IlFQ
Vitalizio: nuovo sì del Senato al pregiudicato Formigoni. - Ilaria Proietti
Parlamento - La Camera dice no ai ricorsi, Palazzo Madama fa il contrario.
Roberto Formigoni ha tanto pregato e alla fine ha vinto: riavrà il vitalizio e nessuno potrà più toglierlo. Perché l’organo di appello di Palazzo Madama ha confermato la decisione con cui la giunta presieduta da Giacomo Caliendo già aveva sostenuto che in fondo disciplina e onore non sono requisiti così indispensabili per aver diritto a incassare l’assegno che turba i sonni degli ex parlamentari condannati come lui.
Mica come alla Camera dove il sonno agitato degli ex è diventato incubo: l’ex ministro della Salute Francesco De Lorenzo e tutti gli altri che dal 2015 si sbracciano per riavere il malloppo hanno dovuto arrendersi. La partita è finita: non riavranno il becco di un quattrino a meno che non ottengano dalla giustizia la agognata riabilitazione. Al Senato, invece, nonostante la fedina penale non proprio immacolata, brinderanno a champagne. E magari festeggiaranno con un buon pranzo ai “due Ladroni” proprio come fece Sua Sanità De Lorenzo all’indomani della scarcerazione che i magistrati non gli avevano negato, sicché diceva di meditare il suicidio, ridotto a un osso per via della depressione. E invece eccolo là il giorno dopo al ristorante con buona pace di chi come il Comitato in difesa dei diritti dei detenuti che tanto si era speso per lui da non meritare quella beffa. Ma tant’è: non solo si era ripreso ma poi, passato qualche anno, ha cominciato a professare la propria innocenza alla solita maniera: ha sostenuto che “così facevan tutti” nei ruggenti anni 90 e che le tangenti dalla case farmaceutiche non le aveva certo prese per sé, ma per il bene del partito. E che pur di non dover vendere i pastori del presepe settecentesco per riparare al danno ed essere costretto a vivere alla francescana aveva fatto causa alla Camera che lo aveva privato del vitalizio a 4 mila euro al mese percepiti da oltre un ventennio nonostante i guai con la giustizia.
La Camera va detto è rimasta sorda ai suoi alti lai e pure a quelli dell’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito (che pregustava di rientrare in possesso dell’assegno da 2mila euro e spicci) e degli altri ex che rivolevano pure gli arretrati: niente da fare, dovranno aspettare la stessa sorte del mammasantissima del craxismo che fu Giulio Di Donato per il quale la riabilitazione vale 3.600 euro su cui aveva comunque battagliato lamentando il rischio di finire sotto i ponti.
Per chi come De Lorenzo non è ancora tornato puro come un giglio col casellario giudiziale invece non c’è trippa. Perché come sostiene anche il Collegio di Appello di Montecitorio presieduto da Andrea Colletti di Alternativa c’è, “bisogna assicurare che i trattamenti siano giustificati dalla garanzia di un elevatissimo rigore morale nei soggetti che ne sono beneficiati”. Ne va del prestigio stesso della Camera sì che la delibera che ha chiuso i rubinetti agli ex condannati ha un alto significato che al Senato proprio non vogliono capire: ossia che lo stop al vitalizio per i condannati “soddisfa l’interesse generale a una moralizzazione dell’attività politica al fine di sottrarre l’organo costituzionale a dubbi sull’onorabilità della sua attività e delle sue erogazioni”.
Al Senato tutt’altro spartito: pure di ridare il vitalizio a Roberto Formigoni (finito nelle pesti per aver asservito la propria funzione agli interessi della sanità privata lombarda) o all’altro ex di lusso già presidente di Regione pure lui Ottaviano Del Turco (reo di aver intascato mazzette), hanno usato la clava, cancellando addirittura la regola generale che prevede lo stop ai vitalizi per i condannati più gravi.
“È stato semplicemente applicato un basilare principio di diritto: la pensione serve a sopravvivere e non si può condannare nessuno a vivere di stenti”, commentano gli avvocati di Formigoni, Domenico Menorello e Andrea Scuttari. Oltre al Celeste, continueranno a percepire l’assegno non solo i tangentari, ma pure chi tra gli ex inquilini di Palazzo ha sul groppone una pena per mafia e terrorismo. La decisione ieri sera nell’organo di Appello del Senato: hanno votato a favore del vitalizio ai pregiudicati Lega e Forza Italia. Povera patria.
IlFQ
Un essere speciale. - Marco Travaglio
Francuzzo era così: leggero, soave, delicato, spiritoso, sorprendente, puro, naïf. Come il bambino che urla “il re è nudo!”. Ricordo il suo sincero, candido stupore per la ridicola canea che si era levata quando, al Parlamento europeo, s’era permesso un giudizio sugli abitanti di quello italiano: “Queste troie che stanno in Parlamento farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile. Aprissero un casino”. Apriti cielo. Le solite voci del padrone lo accusarono – pensate un po’ – di sessismo e di antipolitica. Salvini gli diede del “piccolo uomo”. La Boldrini del “disdicevole”. E lui: “Ma io parlavo dei politici, più uomini che donne, che si vendono al miglior offerente. Come li chiami tu, se non troie? Cazzo c’entra il sessismo?”. Per quello, dopo soli cinque mesi, fu cacciato da assessore alla Cultura della sua Sicilia, per ordini superiori dai palazzi e dai colli di Roma: “Ecco, vedi? Sono proprio delle troie, ahah!”.
Nel 2012 gli proponemmo di tenere un blog sul nostro sito. Gli scrisse la nostra Paola Porciello. Lui rispose così: “Cara Paola ecco la mia proposta: 4 brevi pensieri di mistici, splittati in 4 settimane e sempre lo stesso giorno (della settimana). È una scelta ‘contro’, e so bene che vi potrà creare un qualche problema. Mi faccia sapere. f.”.
Ne scrisse sette in tutto, dedicati ai grandi del misticismo e dell’eresia di ogni religione. E nello spazio autobiografico si descrisse così: “Nato parecchi anni fa a Jonia (CT), compositore-cantante e regista. Negli anni 70 con la sua musica di ricerca ha attraversato le avanguardie europee. Alla fine degli anni Settanta passa alla musica di larga comunicazione alternandola a opere classiche”.
Solo lui poteva vendere milioni di dischi con le canzonette (Un’estate al mare per Giuni Russo) e con le “correnti gravitazionali”, le gurdjieffiane “èra del cinghiale bianco” e “alba dentro l’imbrunire”, con “lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco e“il senso del possesso che fu prealessandrino”.
A proposito. Nei concerti non voleva mai cantare Il sentimiento nuevo: “È una cosetta da nulla, lo riempitivo della Voce del padrone, non mi va”. Ma una volta, sapendo che ero tra il pubblico, la infilò nei bis: “Questa è per un mio amico che s’è fissato. Giudicate voi!”.
E solo lui, captando visioni da mondi lontanissimi, poteva predire con un anno d’anticipo (Povera Patria, ’91) l’Italia delle stragi e di Tangentopoli, “schiacciata dagli abusi del potere / di gente infame che non sa cos’è il pudore… / Tra i governanti / quanti perfetti e inutili buffoni… / Ma non vi danno un po’ di dispiacere / quei corpi in terra senza più calore? / Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali? / Nel fango affonda lo stivale dei maiali”.
Da qualche anno, dopo la caduta al Petruzzelli di Bari causata dalla stretta di mano troppo prolungata di un fan sotto il palco, la frattura del femore e l’operazione in anestesia totale, era andato via via svanendo. Il destino l’aveva colpito proprio alla testa. Malattia mai diagnosticata, perché non voleva medici fra i piedi. Nei concerti aveva iniziato a scordarsi i testi e a sbagliare gli attacchi. Un po’ ne rideva e un po’ ne soffriva. Nel 2015 eravamo insieme a Ottoemezzo: rispondeva a Lilli Gruber a monosillabi, beffardo e tranchant nella sua strepitosa essenzialità. “Berlusconi? Non è il mio tipo”, “Salvini? Cambio canale”. L’ultima volta che salì su un palco era quello di Renato Zero, ad Acireale, nel 2017: attaccò La cura in ritardo e ne uscì una versione rara tutta speciale, una specie di Gronchi rosa in musica.
Due anni fa, per il suo 74° compleanno, il fratello Michele e l’agente Franz Cattini riunirono parenti e amici nella sua casa di Milo, alle pendici dell’Etna. Carlo Guaitoli si mise al piano e cantammo un po’ di repertorio. Lui ci guardava felice. E ogni tanto usciva con una battuta, l’aria del bambino che ha fatto una marachella. Ma il suo spirito se n’era già andato da qualche altra parte, nomade in cerca degli angoli della tranquillità. L’altra notte li ha trovati tutti. Ora è finalmente libero.
IlFattoQuotidiano
Fisco, così la riforma fa i conti con cedolare secca e flat tax da record. - Cristiano Dell'Oste e Giovanni Parente
I mercati e gli affitti spingono i prelievi alternativi all’Irpef mentre si prepara il riassetto e il Governo esclude di allinearli al 23%.
Cedolare secca sugli affitti, flat tax per
i lavoratori autonomi e altre imposte sostitutive hanno raggiunto i 22,7
miliardi di gettito per l’Erario. Una cifra record che rende ancora più
delicato il dossier dei regimi fiscali alternativi, in vista della riforma
fiscale annunciata dal Governo di Mario Draghi.
Per ora il premier ha messo pochi paletti, ma chiari. Primo: il sistema fiscale rimarrà «progressivo». Secondo: sarebbe meglio non modificare le imposte una alla volta. Terzo: entro il 31 luglio sarà presentato un disegno di legge delega che terrà conto del lavoro svolto finora dalle commissioni Finanze di Camera e Senato.
Il peso crescente dei regimi sostitutivi.
Nei mesi scorsi, le audizioni davanti a deputati e
senatori si sono concentrate soprattutto sull’Irpef. Ma è chiaro che riformare solamente
questo tributo vorrebbe dire limitarsi a ridisegnare la tassazione per
dipendenti e pensionati. Da questi soggetti, infatti, arriva ormai da anni il
grosso di quella che un tempo era l’imposta “universale” sui redditi delle
persone fisiche. Nasce da qui la previsione che la riforma fiscale – anche se
non dovesse coinvolgere l’Iva e le patrimoniali – finirà come minimo per
coinvolgere i regimi fiscali sostitutivi che hanno via via eroso la base
imponibile della vecchia Irpef.
Per qualcuno, questa previsione è una speranza. Per
altri, un timore. A maggior ragione dopo che il coronavirus ha colpito
duramente l’economia, e in particolare tanti titolari di partita Iva. Si spiega
anche così l’interrogazione presentata il mese scorso da Fratelli d’Italia per
chiedere rassicurazioni sulla sorte della flat tax degli
autonomi: question time a cui il ministero dell’Economia ha
risposto smentendo che ci sia in programma un innalzamento dell’aliquota al 23%
rispetto all’attuale 15% (o 5% per le nuove iniziative economiche). L’allarme
era stato innescato da una frase nell’audizione del direttore generale delle
Finanze, Fabrizia Lapecorella, sulla possibilità di «far convergere le aliquote
proporzionali applicabili alle diverse fonti di reddito alla prima aliquota
dell’Irpef (del 23%, Ndr)». Ma si trattava, appunto, di un’ipotesi
«nell’ambito di un dibattito teorico» sulle prospettive di riforma.
Un elemento molto concreto, invece, è il boom delle
imposte sostitutive. Una miriade di regimi che vanno dalla tassa fissa di 100
euro per i cercatori di tartufi fino alla cedolare del 10% sui premi di
produttività, passando per la trattenuta del 12,5% sugli interessi dei titoli
di Stato. E che nel 2020 hanno fatto registrare il record di entrate.
Gli introiti 2020.
Il record è stato raggiunto grazie ai 2,6 miliardi
dell’imposta sui redditi di capitale e le plusvalenze e agli 1,3 miliardi della
sostitutiva sull’attivo dei fondi pensione: due voci che – come si legge nel
Bollettino delle entrate tributarie – rispecchiano «la performance molto
positiva dei mercati nel corso del 2019» e i rendimenti positivi delle diverse
«forme pensionistiche complementari». Ma sul totale pesa anche la progressiva
crescita delle due sostitutive più popolari di questi anni:
1. la
cedolare secca sugli affitti abitativi, che nel 2020 ha superato i 3 miliardi
di gettito (+4,6% su base annua) e che era stata scelta da 2,4 milioni di
contribuenti già nelle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2019 (le ultime
ad oggi rilevate dalle Statistiche fiscali);
2. la flat
tax degli autonomi, che secondo gli ultimi dati porta nelle casse
pubbliche 1,5 miliardi all’anno, anche se questo importo è largamente
sottostimato perché non considera le ultime adesioni al regime forfettario. I
contribuenti che lo utilizzano ormai sono più di 1,5 milioni e solo nel 2020 il
forfait è stato prescelto da 215.500 nuovi titolari di partita Iva.
Riordino oltre le aliquote.
Di fronte a questi numeri, i sostenitori della
tassazione progressiva si chiedono sempre quanto lo Stato potrebbe incassare in
più se – anziché un’aliquota flat – applicasse il prelievo
Irpef marginale (ad esempio al 27 o 38%). Ma la strada politica per un ritorno
secco all’Irpef pare tutta in salita in questo momento. Il discorso, comunque,
è più complesso anche dal punto di vista economico. Prima di tutto, perché non
è scontato che la base imponibile rimarrebbe identica applicando l’Irpef: anzi,
alcune sostitutive come la cedolare secca nascono con l’obiettivo dichiarato di
ridurre l’evasione. Inoltre, ragionare solo sulle aliquote può essere
fuorviante, perché le sostitutive non consentono di dedurre i costi (come la
cedolare) o li determinano in modo forfettario secondo una percentuale
prestabilita (come la flat tax). E questo – come rileva la Corte
dei conti – è un elemento da non trascurare quando si analizzano questi
meccanismi.
Insomma: un ripensamento – se lo si vorrà attuare –
non dovrebbe fermarsi alle aliquote. Nono solo per evitare bracci di ferro
politici. Ma anche per assecondare il diffuso desiderio dei contribuenti di una
tassazione sugli introiti “effettivi”, molto sentito in tempi di crisi. Va in
questa direzione, ad esempio, la possibilità di non tassare i canoni non
percepiti dal 2020 dopo l’ingiunzione di pagamento, introdotta con la conversione
del Dl Sostegni. Un piccolo passo avanti, in attesa di una riforma più
generale.
IlSole24Ore