domenica 4 luglio 2021

IA, l’Italia ha il suo primo Dottorato nazionale.

 

Promosso dal MUR e coordinato da CNR e Università di Pisa, riunisce 61 università e mette in campo 177 borse di studio. È la prima volta.

Promuovere l'alta formazione sull'intelligenza artificiale, costruire una comunità di giovani ricercatori distribuita su tutto il territorio nazionale che porti innovazione nel mondo della ricerca e in quello dell'industria italiane, creare una vera e propria rete italiana di centri di ricerca su un tema così strategico per il futuro del paese e dell'Europa: sono questi gli obiettivi del primo Dottorato nazionale in intelligenza artificiale.

Il progetto promosso dal MUR e coordinato dal CNR e dall’Università di Pisa, si basa su una rete formata da 5 atenei capofila, da Torino a Napoli passando per Roma e Pisa, che coinvolge 61 università e centri di ricerca sparsi per tutta Italia che ospiteranno la formazione dei dottorandi. Marco Conti, direttore dell’Istituto di Informatica e Telematica di Pisa, è il responsabile scientifico CNR per il progetto di dottorato nazionale.

Sono 177 le borse di studio messe a disposizione per il primo ciclo di questa importantissima operazione formativa: una vasta rete di futuri ricercatori, innovatori e professionisti che al termine dei tre anni di percorso saranno specializzati sia nelle tematiche di punta della ricerca sull'AI che nei settori applicativi, allenati ad avere una visione integrata e articolata dell’ecosistema delle tecnologie e delle soluzioni AI e in grado di affrontare i problemi con un approccio sistemico e multi-disciplinare, sia nel mondo della ricerca che in quello dell’impresa.

Il modello organizzativo sfrutta una struttura coordinata orizzontale/verticale: tutti i dottorandi parteciperanno a esperienze e attività formative multidisciplinari comuni, per poi concentrarsi sull'area di specializzazione scelta. Le cinque aree sono state individuate nei settori strategici di sviluppo e applicazione dell'intelligenza artificiale:

- Salute e scienze della vita, con capofila l'Università Campus Bio-Medico di Roma: intelligenza artificiale, IoT e biorobotics per promuovere la medicina di precisione, una medicina sempre più predittiva, preventiva, personalizzata e partecipativa.

- Agricoltura (agrifood) e ambiente, capofila l'Università degli Studi di Napoli Federico II: l’intelligenza artificiale per fronteggiare le incertezze legate al cambiamento climatico e la variabilità dei fattori che determinano la produzione primaria.

- Sicurezza e cybersecurity, capofila la Sapienza Università di Roma: applicazione delle tecniche di intelligenza artificiale per la sicurezza dei sistemi informatici e la sicurezza delle infrastrutture , la cyber intelligence, la protezione della privacy.

- Industria 4.0, capofila il Politecnico di Torino: robotica, manutenzione preventiva, automatizzazione dei processi, analisi dei dati per migliorare la produzione ed aumentare la competitività.

- Società, capofila l'Università di Pisa: l’intelligenza artificiale e la data science per lo studio della società e della complessità dei fenomeni sociali ed economici quali, ad esempio, la mobilità umana e la dinamica delle città, le migrazioni ed i loro determinanti economici, la formazione e la dinamica delle opinioni e delle conversazioni online, e l’impatto sociale dei sistemi AI.

Marco Conti commenta così l’apertura del bando: “Il dottorato nazionale in Intelligenza Artificiale ha raggiunto l’importante obiettivo di mobilizzare le risorse delle università e degli enti di ricerca nazionali per realizzare uno dei programmi di dottorato sull’intelligenza artificiale più grandi ed ambiziosi a livello mondiale, in grado di formare una generazione di dottori di ricerca per guidare la transizione digitale del Paese.

La struttura a rete basata su cinque hub, con il coordinamento del CNR e dell’Università di Pisa, ha consentito di mettere a sistema le eccellenze del Paese in questo settore e allo stesso tempo di garantire un’ampia copertura del territorio nazionale. Una struttura che rappresenta un modello virtuoso per guidare il rilancio del Paese, attraverso il PNRR, investendo sulle eccellenze ma riducendo allo stesso tempo il digital divide.

Uno dei temi trasversali più importanti per l’intero dottorato è quello della Trustworthy AIl’intelligenza artificiale “degna di fiducia”, l’elemento che caratterizza la strategia dell’Unione Europea per l’AI: i dottorandi seguiranno corsi dedicati a etica, equità, correttezza, sicurezza, giustizia, accettazione sociale dell’intelligenza artificiale, oltre a concentrarsi sullo sviluppo di una AI sostenibile e che possa aiutare la società europea a raggiungere i Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030 dell’ONU.

ANSA

Tassa minima globale: Irlanda, Estonia e Ungheria contro il via libera finale (per ora). - MIchele Pignatelli

 

Il nodo dell'unanimità. Tre paesi non hanno firmato l'intesa Ocse e per una direttiva Ue serve il via libera di tutti gli Stati membri.

All’indomani di quella che Janet Yellen, segretaria al Tesoro Usa, ha definito «una giornata storica per la diplomazia economica», l’intesa sulla tassazione globale minima siglata con il coordinamento dell’Ocse da 130 Paesi su 139 inizia a fare i conti con gli ostacoli che ancora restano per renderla effettiva.

All’appello tra i firmatari mancano 9 Paesi, ma a preoccupare sono soprattutto le tre defezioni europee. Irlanda, Ungheria ed Estonia per il momento hanno detto no al piano, già avallato dal G7, che prevede una corporate tax minima del 15% e una redistribuzione almeno parziale delle tasse pagate dalle multinazionali, allocando parte di quel gettito nei Paesi in cui gli utili vengono effettivamente realizzati.

Irlanda, Ungheria ed Estonia insieme valgono appena il 4% del Pil Ue e il 3,6% della popolazione, ma il loro potere negoziale è amplificato dalle normative comunitarie, che richiedono il varo di una direttiva approvata all’unanimità. E i primi segnali non sono incoraggianti.

L’Ungheria, spina nel fianco Ue.

«La minimum tax globale ostacolerebbe la crescita, l’aliquota del 15% è troppo alta e non dovrebbe essere applicata alle attività economiche reali», ha sentenziato ieri il ministro delle Finanze ungherese Mihaly Varga, salvo poi smorzare i toni dicendosi pronto a continuare colloqui «costruttivi» con i partner Ocse per raggiungere «un accordo appropriato». 

Budapest, con una corporate tax del 9%, ha l’aliquota più bassa nell’Unione europea e l’ha sfruttata per attrarre robusti investimenti nel settore automobilistico e manifatturiero (da Bmw agli impianti per la produzione di batterie); investimenti che hanno trainato la crescita e l’impiego, contribuendo a rafforzare il potere del premier Viktor Orban e offrendogli una solida base di consenso per reggere lo scontro con l’Unione europea sullo Stato di diritto. Non è un caso che Orban qualche giorno fa abbia definito «assurdo» il fatto che «un’organizzazione internazionale si arroghi il diritto di dire quali tasse l’Ungheria può imporre e quali no», tanto più – ha aggiunto - che il Paese «non è un paradiso fiscale», ma attrae imprese che investono veramente e non scelgono l’Ungheria soltanto come sede legale per pagare meno tasse.

L’Irlanda, allievo modello.

Discorso diverso per l’Irlanda, assurta a esempio di politiche virtuose negli anni seguiti alla crisi finanziaria e ai piani di bailout europei e ora ben integrata nelle isituzioni comunitarie, dove tra l’altro detiene, con il ministro delle Finanze, Pascal Donohoe, la presidenza dell’Eurogruppo. Alleanze strategiche e capacità negoziali hanno consentito a Dublino di resistere per anni agli attacchi di quei Paesi – Francia in testa – che l’accusavano di concorrenza sleale per una corporate tax al 12,5% e, ancor di più, per agevolazioni o accordi mirati che hanno favorito l’elusione o consentito alle multinazionali di pagare imposte irrisorie. 

L’attrattività fiscale è stata un fattore chiave per portare a Dublino il quartier generale di colossi come Google, Apple e Facebook e le nuove regole mettono ora in pericolo, secondo le prime stime, due miliardi di euro all’anno di entrate da imposte societarie, anche per effetto della riallocazione del gettito nei Paesi che sono vero mercato delle multinazionali. Così ieri il ministro delle Finanze Donohoe, che già giovedì aveva espresso le riserve irlandesi, ha ribadito la contrarietà di Dublino: «In Irlanda questo – ha detto in un’intervista radiofonica – è un tasto molto sensibile e nel testo che mi è stato presentato non c’erano sufficiente chiarezza e un adeguato riconoscimento di una questione per noi chiave».

Il ministro ha espresso tuttavia ottimismo sul raggiungimento di un’intesa entro l’anno. Ed è probabile che Dublino, con qualche ulteriore concessione, sia pronta a dire sì; anche il mondo del business sembra già preparato alle nuove regole, forte di un appeal basato anche su altri fattori oltre a quello fiscale e su investimenti ormai consolidati nel Paese.

L’Estonia e gli utili detassati.

L’Estonia, da anni in cima alla classifica di competitività fiscale del think tank americano Tax Foundation, ha tra i suoi punti di forza una corporate tax relativamente bassa (oscilla tra il 14 e il 20% degli utili) applicata però solo in caso di dividendi. Non vengono cioè tassati gli utili reinvestiti.

Il Paese baltico si è opposto con decisione alle nuove regole. Il ministero delle Finanze ieri ha diffuso un comunicato in cui sottolinea che il Paese non è pronto «a sostenere completamente» le proposte per una minimum tax globale. Più esplicita (e dura) era stata nei giorni scorsi la ministra delle Finanze Keit Pentus-Rosimannus, che aveva definito la proposta «pericolosa per le imprese, la concorrenza internazionale e la creazione di posti di lavoro».

Verso il via libera del G20.

Nonostante gli ostacoli - tra i quali vanno menzionati anche la necessaria approvazione del Congresso Usa, con i repubblicani pronti a dare battaglia, e il nodo della digital tax, su cui Janet Yellen e la vicepresidente della Commissione Ue, Margrethe Vestager, avranno un colloquio il 6 luglio - all’indomani dell’intesa prevale l’ottimismo, anche considerando che l’hanno siglata Paesi importanti e in dubbio fino all’ultimo, come l’India e la Cina (con le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao).

In attesa dei dettagli tecnici, da mettere a punto ancora in sede Ocse a ottobre, sembra dunque spianata la strada al via libera dei ministri delle Finanze del G20, in programma a Venezia la prossima settimana, priorità della presidenza italiana. «Le notizie che arrivano dall’Ocse - ha confermato il ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco - sono un passo avanti verso l’intesa politica. Siamo fiduciosi sulla possibilità di trovare un accordo a livello G20 sulla struttura di nuove regole per la riallocazione dei profitti delle grandi multinazionali e per la tassazione minima effettiva, che cambierebbero radicalmente l’attuale architettura della fiscalità internazionale».

Intanto, mentre il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, promette di raddoppiare gli sforzi per convincere i Paesi riluttanti, la Commissione Ue mantiene un cauto ottimismo. «Siamo fiduciosi che, mentre si mettono a punto i dettagli, anche gli altri Stati membri possano firmare», ha dichiarato un portavoce.

IlSole24Ore

Sennò? - Marco Travaglio

 

Guai a farsi distrarre troppo dall’ultimo show di Grillo “Te lo do io il M5S” (l’ultima gag è il Comitato dei 7 al posto del Direttorio dei 5) e dal serial “La spallata” del generalissimo Figliuolo (passato dal Cts a Santa Rita da Cascia e da “Un milione di vaccini al giorno a luglio” a “Il piano resta a 500mila” che poi sono meno). Sennò non resta tempo per la sit-com “Casa Letta”, inteso come Enrico. Da quando il Pd entrò nel governo Draghi alleandosi con la Lega, Letta non fa che ripetere che Salvini deve scegliere: o fa quello che gli dice lui, oppure molla il governo. Salvini risponde: “Sennò?” e resta nel governo continuando a fare e a ottenere tutto quel che vuole, mentre il Pd non tocca palla come 5Stelle e Leu. E tutto va avanti come prima. Anzi, se qualcuno fa notare che gli intrusi in questo governo di centrodestra non sono i partiti di centrodestra, ma quelli di centrosinistra, si sente rispondere: zitto, sennò regali Draghi a Salvini (manco fosse un pacco postale). Ergo, l’unico modo per non regalare un premier di centrodestra al centrodestra è approvare le sue politiche di centrodestra senza fiatare, anzi ringraziando e sorridendo. Che è un po’ come dire che Chiellini, nella semifinale degli Europei, deve garantire almeno due autogol nella porta azzurra, sennò regala Morata alla Spagna. Intanto Salvini, per non regalare Orbán alla Meloni, firma con Orbán, Meloni e altri nazionalisti il manifesto antieuropeista perfettamente coerente col programma della Lega, oltreché con quello della Meloni. E Letta riattacca con la tiritera: “Salvini o sta con Draghi o sta con Orbán, stare con entrambi è come tifare per l’Inter e il Milan”.

È il classico sillogismo a cazzo, visto che è proprio Draghi a tifare Inter e Milan, governando con Letta e Salvini. Infatti il manifesto Salvini-Orbán fa infuriare Letta, ma non Draghi. E Salvini, per nulla preoccupato di regalare Draghi a Letta (mission impossible), risponde: “Se non gli sta bene Orbán, Letta esca dal governo”. Infatti anche Letta tifa Inter e Milan. Almeno finché non risponderà ai “sennò?” salviniani con la conclusione di ogni aut aut che si rispetti: “Sennò il Pd esce dal governo”. Ma è proprio questo che spaventa Letta: il fatto che poi, siccome Salvini non ha alcun motivo per non essere Salvini, il Pd dovrebbe uscire per davvero. E non ne ha alcuna intenzione (certi miracoli, tipo stare al governo avendo perso le elezioni, càpitano una volta nella vita, e per il Pd è già la sesta in dieci anni). Anche perché né Salvini né Draghi lo rincorrerebbero. Quindi Letta continuerà a chiedere a Salvini di uscire dal governo e a restare al governo con Salvini, riuscendo persino a farlo apparire più coerente di lui. Sennò rischia di regalare Salvini a Draghi.

ILFQ

Il mistero dello statuto nascosto. - Antonio Padellaro

 

“Mostrare lo Statuto? Se c’è un invito lo farò”: nell’annunciare il prossimo, chissà, disvelamento della famosa “bozza” della discordia, Giuseppe Conte, forse terminati i giorni degli scazzi furiosi con Beppe Grillo (e delle mediazioni grazie preferisco di no) ci riporta al mistero, doloroso o glorioso, fate voi, dove tutto è cominciato.

Ovvero: possibile che nel tempo in cui della privacy c’è rimasto solo il Garante, un normale documento politico come lo Statuto di Conte debba restare blindato, censurato, occultato perché diocenescampieliberi, nessuno deve vedere e sapere? Ma dove siamo, in Corea del Nord? In un mondo equilibrato, il Garante furioso, d’accordo con il leader disarcionato, avrebbe immediatamente reso pubblico il testo. Affinché il Movimento tutto – iscritti, parlamentari, elettori – leggesse e giudicasse. E magari potesse anche esprimersi con un voto, con un sì o con un no. Purtroppo, come tutti i paradisi in terra, pure quello della democrazia diretta non prevede la sconfitta degli elevati, neppure per ipotesi. Al di là di pennacchi, status e di chi comanda cosa, dai pochi frammenti conosciuti si capisce solo che lo Statuto di Conte è stato ritagliato sul profilo dell’odierno elettorato M5S, meno radicale rispetto a quello delle origini.

Secondo un’indagine dell’Istituto Cattaneo, pubblicata sul Domani, si tratta di un voto d’opinione che si è lasciato alle spalle il MoVimento dei Vaffa, ed è pienamente inserito nella dinamica della democrazia parlamentare. “Una transizione che oggi riflette molto di più l’impostazione ‘moderata’ assunta dall’ex capo politico Luigi Di Maio e promossa – nel ruolo di presidente del Consiglio – da Giuseppe Conte piuttosto che l’aggressiva retorica anti-tutti degli esordi”. Lo Statuto è un pezzo di carta che si potrà anche nascondere o stracciare. Più difficile rinchiudere con un chiavistello procedurale il sentimento di milioni di persone.

ILFQ

Detesto le generalizzazioni. - Andrea Scanzi

 

Detesto le generalizzazioni. Per questo mi fa paura chi odia a prescindere le forze dell’ordine. Dentro quelle forze ci sono donne e uomini straordinari. Straordinari. Ne conosco tanti.

Analoga paura, nonché disgusto, mi fanno coloro che difendono a prescindere le forze dell’ordine. Anche le “mele marce”. Anche i violenti. La scuola Diaz, Bolzaneto, Aldrovandi, Cucchi, Uva, Magherini. Eccetera eccetera eccetera.
E se a difendere “sempre” le forze dell’ordine sono politici di peso e di grido, il fatto diviene di gravità inaudita.
Quello che emerge sul carcere di Santa Maria Capua Vetere è aberrante. Mattanze su mattanze. Nelle chat degli agenti penitenziari (lavoro difficilissimo, sia chiaro) si leggono frasi come queste: “Prendiamo chiavi e piccone, abbattiamo i vitelli”, “I ragazzi sanno cosa fare”, “Spero che acchiappano tante di quelle mazzate che domani li trovo tutti ammalati”.
I video sono tremendi e i racconti di più.
“Oggi appartieni a me, sono io che comando, sono lo Stato. Comando io oggi”, avrebbe detto il 6 aprile 2020 un agente ad Antonio, detenuto poi picchiato e sodomizzato con un manganello nella cella 13 della III sezione.
Sono stati 17 gli agenti ad accanirsi su Antonio, identificati poi grazie alle telecamere di sorveglianza che peraltro avevano cercato di manomettere.
Vi riporto questa ricostruzione allucinante: “Antonio è stato accerchiato è colpito ripetutamente a mani nude e coi manganelli. Poi i poliziotti lo hanno trascinato fino all’ingresso delle scale, dove hanno continuato a pestarlo. Le sevizie, di ogni genere, sono andate avanti fino a che un compagno, vedendolo stremato, insanguinato e sofferente, chiese agli agenti un po’ d’acqua per soccorrerlo. “Beviti l’acqua del cesso” gli risposero”.
Terrificante. E ci sono altri racconti analoghi.
Ecco: di fronte a queste mattanze nel nome dello Stato, Salvini (già autore di frasi schifose sulla famiglia Cucchi) e Meloni hanno espresso solidarietà alla forze dell’ordine. Minimizzato “i singoli errori che vanno puniti” (cioè le torture). E dimostrato la solita visione orgogliosamente “fascia” di giustizia. Una posizione moralmente ed eticamente raccapricciante, nonché abominevole.
Come ha scritto Globalist, Salvini e Meloni meriterebbero la cittadinanza onoraria di Guantanamo.

Andrea Scanzi -Fb

sabato 3 luglio 2021

Anche sul fisco ad esultare sono la Lega e Forza Italia. Nel documento finale delle Camere sparisce la patrimoniale (citata nelle bozze). Resta la mini flat tax e spunta l’abolizione dell’Irap cara a Confindustria. - Chiara Brusini

 

Il tema al centro del dibattito globale non è sfiorato dal testo approvato dalla maggioranza (astenuta solo Leu) che dovrà indirizzare il governo Draghi sulla strada della riforma. Il voto finale ha fatto piazza pulita anche dell'ennesimo tentativo di riformare il catasto, rivalutando le case di pregio. In compenso si auspica che l'aliquota sui redditi da capitale venga ridotta dall'attuale 26 al 23%. La Lega esulta insieme a Forza Italia: per Sestino Giacomoni è il segno che il partito di Berlusconi "ha vinto la battaglia culturale iniziata nel 1994".

Tra un’inevitabile citazione di Federico Caffè e un motto di Luigi Einaudi, il documento delle Commissioni Finanze di Camera e Senato propedeutico alla riforma del fisco ignora il proverbiale elefante nella stanza. Cioè la proposta del segretario Pd Enrico Letta di aumentare la tassa di successione sui patrimoni oltre i 5 milioni di euro. La versione finale, approvata due giorni fa con l’astensione della sola Leu (contraria invece Fratelli d’Italia) e frutto di sei mesi di audizioni degli addetti ai lavori, mette nero su bianco che al fisco italiano non serve più progressività: l’obiettivo principale deve essere “quello di favorire un incremento strutturale del tasso di crescita“. La redistribuzione? Meglio pensarci in una fase successiva, quella in cui lo Stato distribuisce benefit e agevolazioni. Così la parola “patrimoniale” è stata eliminata tout court dal testo. In compenso si auspica che l’aliquota sui redditi da capitale venga ridotta dall’attuale 26% a un livello “prossimo all’aliquota applicata al primo scaglione Irpef”, cioè il 23%. E viene pure promossa, al netto della richiesta di alcuni correttivi, la flat tax per gli autonomi con ricavi fino a 65mila euro cara alla Lega. Che esulta insieme a Forza Italia: per Sestino Giacomoni “con il testo approvato di fatto da tutta la maggioranza di salvezza nazionale” il partito di Berlusconi “ha vinto la battaglia culturale iniziata nel 1994. Nel nostro Paese non ci saranno patrimoniali o altre tasse di scopo, perché questo è il momento del ‘meno tasse per tutti'”.

E dire che le bozze la tassa sulle ricchezze la citavano, pur lasciando il paragrafo in bianco e segnalando che era un “nodo politico da sciogliere“. Le forze di maggioranza – ognuna delle quali ora descrive l’atto parlamentare come un proprio evidente successo – l’hanno sciolto nel senso di ignorarlo. Così il tema al centro del dibattito globale su disuguaglianze e redistribuzione post Covid non è nemmeno sfiorato dal testo che dovrà indirizzare il governo Draghi sulla strada dell’annunciata riforma del fisco, attesa sotto forma di ddl delega entro fine luglio. La votazione finale ha fatto piazza pulita pure dell’ennesimo tentativo – se ne parla dal 2014 – di procedere con la riforma del catasto, che avrebbe il probabile effetto di rivalutare le case di pregio che oggi in molti casi pagano meno del dovuto: non è passato l’emendamento dei presidenti delle Commissioni Luigi Marattin (Iv) e Luciano D’Alfonso (Pd) che esplicitava “l’opportunità di inserire nella prossima legge delega un riordino complessivo dei valori catastali, valorizzando il più possibile ruolo e funzioni dei Comuni”. Non a caso si dice “molto contento” Matteo Salvini, che festeggia il risultato di aver mandato “in archivio la tassa patrimoniale di successione o l’aumento dell’Imu che qualcuno aveva proposto”. Oltre a rivendicare che il documento prefigura labolizione dell’Irap” caldeggiata da Confindustria (il gettito andrebbe “riassorbito nei tributi attualmente esistenti), “la riduzione dell’Irpef soprattutto delle aliquote per il ceto medio, la difesa della Flat tax per le partite Iva fino a 65mila euro” e pure “l’inversione dell’onere della prova, che è molto importante per le imprese. Non è il cittadino o l’imprenditore che deve dimostrare all’Agenzia delle entrate la propria innocenza”.

Letta dal canto suo ostenta soddisfazione perché rispetto all’imposta sui redditi il primo obiettivo indicato è l’abbassamento dell’aliquota media effettiva per quelli compresi tra 28.000 e 55.000 euro (che oggi pagano il 38%) e per gli imprenditori si ipotizza la reintroduzione del regime opzionale Iri, nato nel 2017 e abrogato due anni dopo. “Meno tasse per il ceto medio, per chi lavora e per chi fa impresa”, sintetizza il segretario dem, che però oltre alla tassa di successione vede bocciata (è indicata come “opzione meno preferita”) pure l‘aliquota personalizzata alla tedesca che era l’opzione preferita dai dem in favore di un “intervento semplificatore sul combinato disposto di scaglioni, aliquote e detrazioni per tipologia di reddito, incluso l’assorbimento degli interventi del 2014 e del 2020 riguardanti il lavoro dipendente”, vale a dire il bonus 80 euro di Renzi portato a 100 euro lo scorso anno con effetti deleteri sulle aliquote marginali effettive.

La flat tax che il leader Pd dà per morta (“non passa”) esce poi viva e vegeta dalla mediazione tra i partiti: vero è che le Commissioni non fanno cenno all’estensione del regime forfettario fino a 100mila euro di ricavi, prevista a suo tempo dal governo gialloverde, ma mettono nero su bianco che il regime “agevolato e semplificato” deve restare in vigore. Si chiede solo una modifica che riduca l’incentivo a nascondere al fisco i redditi superiori alla soglia massima, consentendo di godere di una aliquota piatta lievemente meno conveniente (20%) nei due anni successivi al superamento del tetto di almeno il 10%. Evitando così il salto dalla tassa piatta alla normale aliquota Irpef. Più dubbia, vista la dimensione del tax gap degli autonomi, la successiva raccomandazione “di accordare in favore del contribuente quale ulteriore misura di accompagnamento la limitazione dei poteri di accertamento dell’Agenzia delle Entrate per il periodo di vigenza dell’opzione”.

Tra auspici di sfoltimento dei prelievi minori e di rimodulazione della tassazione ambientale per raggiungere gli obiettivi del Green deal, cosa resta dunque per il contrasto all’evasione? Il penultimo paragrafo del documento predica la necessità dell’ennesimo Patto fiscale tra Stato e cittadini incentrato su un “cambio di paradigma nei rapporti tra amministrazione fiscale e contribuente”: “Vi è il bisogno di un’evoluzione culturale da ambo le parti: ciascuna di esse deve allo stesso tempo mutare i propri comportamenti in senso virtuoso e abbandonare i pregiudizi nei confronti della “controparte”“. Le priorità allora sono l’estensione dell’obbligo di fatturazione elettronica e la piena digitalizzazione del fisco, lo “scambio tra digitalizzazione e riduzione degli adempimenti per i professionisti, imprese e intermediari” (si afferma che va anche “valutato attentamente” il meccanismo del cosiddetto reverse charge“, cioè il versamento dell’Iva non a chi venda ma direttamente all’erario, che pure ha consentito un buon recupero di evasione) e “l’interoperabilità delle banche dati” nel rispetto della Privacy. Qui però iniziano i distinguo, dalla necessità che il contribuente sia messo a conoscenza dei dati in possesso dell’amministrazione alla richiesta che l’ente impositore abbia “l’onere di dimostrare che l’incrocio tra i dati è corretto e di motivare puntualmente la risposta in merito agli argomenti difensivi presentati dal contribuente”.

Infine, i componenti delle Commissioni ritengono auspicabile pure “superare le residue forme ancora presenti di attività di controllo basate sulla ricostruzione presuntiva di reddito o ricavi” come il redditometro, di cui pure il ministero dell’Economia ha appena elaborato una nuova veste (il decreto è ora in consultazione), nei casi in cui con i dati sia possibile ricostruire puntualmente l’imponibile. Solo due righe sulla riscossione, di cui il governo dovrebbe a breve presentare una proposta di riforma ad hoc: il Parlamento si limita a immaginare una “rivoluzione manageriale in grado di superare l’approccio meramente formale e virare verso una gestione del processo produttivo interamente concentrata su efficienza ed efficacia“.

ILFQ

Si prega di non disturbare. - Marco Travaglio

 

Sarà il caldo, saranno gli effetti cerebrali del Covid, ma ormai si ha l’impressione che la terra non ruoti più attorno al sole, ma a Draghi. Qualunque evento dell’orbe terracqueo non viene più giudicato per ciò che significa in sé, ma per gli effetti che potrebbe avere sul governo Draghi. Che è l’unico metro di misura e di giudizio. Manco facesse capoluogo. Chi fino a sei mesi fa fomentava l’instabilità a tutti i costi, tifando per la caduta del governo precedente in piena pandemia, campagna vaccinale e scrittura del Pnrr, inventando fake news e pretesti ridicoli per giustificare il Conticidio, s’è convertito al dogma della stabilità a ogni costo. Non importa più ciò che fa o non fa il governo: l’unica cosa che conta è che nulla possa disturbarlo. Ricordate i titoloni su Salvini fascista? Ora, anche mentre firma patti con Le Pen&Orbán e difende i massacratori di S. Maria Capua Vetere, è un sincero democratico solo perché sta con Draghi. Che è come il Dash: lava così bianco che più bianco non si può. I due principali quotidiani di destra, Repubblica e il Giornale, accusano per i pestaggi in carcere nientemeno che l’ex ministro Bonafede: “Li ignorò”, “Sapeva tutto”, titolano, salvo poi precisare negli articoli che non poteva sapere nulla perché l’indagine della Procura era segreta anche per lui (tralascio il comico Riformatorio, che dà la colpa a me).

Anche sui 5Stelle, l’unica cosa che conta non è se vince Conte o Grillo, ma che continuino a portare l’acqua con le orecchie a Draghi, possibilmente carponi. Infatti Di Maio, sempre dipinto come un bibitaro, viene esaltato come uno statista dalle cheerleader draghiane tipo Stefano Folli, nella speranza che garantisca al premier i voti grillini, ovviamente gratis. Polito el Drito iscrive praticamente alle Br chi osa criticare gli economisti di ultradestra tecnocratica in un governo a maggioranza di centrosinistra. E i giornaloni fanno a gara a spegnere con gl’idranti qualunque vagito di dissenso dalla linea destroide del governo, col decisivo argomento che sennò “si regala Draghi alla destra”. Cioè: uno fa un governo di centrodestra al posto di uno di centrosinistra, ne smantella a una a una le riforme, dà i ministeri chiave a politici e tecnici di centrodestra, deride e cestina le proposte di M5S, Pd e Leu, si circonda di economisti di centrodestra, ricordandosi del centrosinistra solo quando deve chiedere i voti, e chi fa notare la contraddizione deve tacere per non “regalarlo alla destra”, come se non le si fosse regalato già lui da un pezzo. Ma, per quanto bizzarro, il ricatto funziona, persino su di noi. L’altro weekend, mentre andavo al mare, mi tormentavo: ma non starò regalando Draghi alla destra? Poi per fortuna non è successo niente. Ma ci è calato poco.

ILFQ