domenica 19 settembre 2021

Settimana decisiva per il fisco, la riforma del catasto sarà 'mini'. - Michele Esposito

 

Trincea Lega-Fi, 'stop tasse'. A giorni via alla cabina di regia per il Pnrr.

Archiviato, o quasi, l'epocale dossier sull'obbligo del Green Pass a tutti i lavoratori, per il premier Mario Draghi si apre, di fatto, la fase due del suo governo. E si apre nel segno della polemica su uno dei temi più caldi dell'autunno: la riforma del fisco.

Sulla delega, nei prossimi giorni, il Mef e Palazzo Chigi accelereranno dopo le cautele delle ultime settimane visto che la riforma, nel cronoprogramma iniziale del Pnrr, era indicativamente prevista prima della pausa estiva. Ma il tema è spinoso, i partiti ribollono e la amministrative del 3 e 4 ottobre rendono ogni intesa in maggioranza più faticosa.

L'ipotesi, spiegano fonti di governo, è che l'esecutivo metta in campo una riforma inizialmente più '"light" a partire dal tema più divisivo: il catasto. L'intenzione di Draghi e dell'esecutivo sarebbe quella di fare solo un primo passo sul catasto, nella riforma del fisco. Inserendo nella delega dei principi ispiratori che si limitino ad indicare la direzione verso la quale l'esecutivo vuole andare su un tema, quello del valore degli immobili, che attende una riforma dal 1989.

Anche sui tempi il premier è incline ad esercitare una certa prudenza. Stando agli ultimi aggiornamenti il Consiglio dei ministri della prossima settimana sarà chiamato a varare, certamente, il decreto da 3,5 miliardi contro il caro-bollette.
La riforma del fisco, probabilmente, finirà sul tavolo di Palazzo Chigi ma non è improbabile che il via libera del Cdm arrivi solo nella settimana successiva. Allo stesso tempo Draghi non ha alcuna intenzione di rinviare sine die il dossier.
I "guardiani" del Next Generation Eu, a Bruxelles, restano vigili e entro la fine dell'anno arriveranno le pagelle europee su questa iniziale fase d'attuazione del Pnrr italiano.

Il centrodestra, nel frattempo, scalpita. Casus belli la rivalutazione dei valori catastali che, fino a qualche giorno fa, il governo aveva pensato di inserire nella riforma. Due, innanzitutto, i rischi da evitare: un nettissimo aumento dell'Imu sulla seconda casa e un gonfiamento dell'Isee. "Per aumentare le tasse basta un Monti qualunque, non sta né in cielo né in terra aumentare quelle sulla casa", avverte un Matteo Salvini che, dopo l'ok al super Green Pass, difficilmente incasserebbe una riforma del fisco a lui indigesta. Anche perché, questa volta, il leader della Lega vede al suo fianco tutto il suo partito ed anche Forza Italia. "Quando si parla di riforma del catasto non vorrei che la sinistra pensasse di infilare nuovi balzelli sugli immobili", avverte il coordinatore azzurro Antonio Tajani. "Non è il momento di patrimoniale mascherate", gli fa eco Anna Maria Bernini. E anche la titolare degli Affari Regionali Maria Stella Gelmini chiede un supplemento di riflessione: "se riforma del catasto deve essere, deve avvenire a parità di gettito".

Il Pd, per ora, mantiene un basso profilo mentre Leu, con Federico Fornaro, insiste sull' "ineludibilità" della riforma.
"Chi oggi non vuole toccare nulla, in realtà, difende l'indifendibile: case del centro di Roma ad esempio che hanno un valore catastale inferiore ad abitazioni dell'estrema periferia della città", avverte il capogruppo alla Camera. Il M5s, con il viceministro al Mef Laura Castelli si concentra su altri aspetti della delega. "Sarà incentrata sulla riduzione della pressione fiscale, soprattutto per il ceto medio e su un processo di digitalizzazione e di semplificazione che guardi agli autonomi", spiega.

Draghi, nei prossimi giorni prenderà in mano il dossier e allo stesso tempo, avvierà anche la cabina di regia per il coordinamento e il monitoraggio del Pnrr, con il coinvolgimento degli enti locali. E solo dopo - presumibilmente all'inizio di ottobre - toccherà alla concorrenza. Ma la strada delle riforme non si ferma. "Lo Stato e la macchina amministrativa della Repubblica hanno molte debolezze. E' necessario uno sforzo collettivo per la riparazione della macchina dello Stato", spiega il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli.  

ANSA

Notizia: che fare? - Marco Travaglio


Fioccano le interpretazioni sulla decisione del Fatto di pubblicare i verbali dell’avvocato Piero Amara sulle decine di presunti affiliati alla presunta Loggia Ungheria. Una manina anonima ce li recapitò, senza firme in calce, il 29 ottobre 2020 e noi denunciammo subito quel reato alla Procura di Milano. Che ora accusa l’ex segretaria di Davigo di essere la titolare della manina. E ha depositato gran parte dei verbali a fine indagine. Noi 11 mesi fa non li avevamo pubblicati per tre motivi: Amara è un noto fabbricante di indagini fasulle e quei verbali senza firme potevano essere apocrifi o taroccati; anche se fossero stati autentici, non sapendo chi ce li inviava né perché, non volevamo farci usare in torbide manovre al buio; e comunque, senz’alcun riscontro sulla presunta loggia, ci saremmo esposti a una raffica di querele da parte dei personaggi citati. Ora invece li pubblichiamo perché s’è accertato che erano autentici; perché, col deposito, il segreto è caduto; perché 5 Procure hanno iniziato a separare il grano dal loglio; perché l’opinione pubblica, dopo averne sentito parlare per mesi, ha capito che si tratta delle parole di un soggetto ambiguissimo e nessuno le prende per oro colato; perché quel cadavere nel ripostiglio comincia a puzzare e a emettere miasmi, perfetti per ricatti e veleni, che si stroncano in un solo modo: pubblicando tutto. L’interesse della notizia ormai riguarda sia il vero sia il falso, visto che tutti gli accusati sono personaggi pubblici: se le accuse sono vere, bisogna conoscerle; se sono false, occorre domandarsi perché e per conto di chi sono state lanciate.

Così si ragiona in un giornale vero, che dà le notizie e per giunta si chiama Fatto. Di qui lo sgomento dei non-giornali. Sallusti titola su Libero: “Fango nel ventilatore”. E spiega che “ognuno tiene famiglia” (lui addirittura due: Berlusconi e Angelucci, mentre ci sfugge la nostra) e ora c’è una “faida tra famiglie rivali”. In basso, ma molto in basso, Filippo Chatouche Facci ci dà dei “passacarte” che “han messo nel ventilatore la peggior merda”. Poi volti pagina e scopri che Libero copia parola per parola la nostra “merda” e la mette nel suo ventilatore, con sopraffina coerenza (e coprofilia). Sul Riformatorio, il povero Sansonetti ha un attacco di labirintite: dopo averci accusati per mesi di non pubblicare, ora ci accusa di pubblicare per consumare “la vendetta di Davigo” contro Greco (mai citati, nessuno dei due, nei verbali). Poi, già che c’è, la consuma pure lui copiando paro paro il nostro scoop. L’unica cosa che non viene proprio in mente ai non-colleghi dei non-giornali è che il Fatto dia le notizie per dare le notizie: in tanti anni di onorate non-carriere, non ne hanno mai vista una.

ILFQ

“Renzi ha sabotato un’alleanza di vera sinistra. Per conto terzi”. - Silvia Truzzi

 

Nel suo ultimo manuale (Conversazioni sulla Costituzione, Cedam) Lorenza Carlassare scrive che se si assume l’implicito che solo alcuni abbiano le capacità per governare, viene messa in discussione l’idea stessa di democrazia.

Professoressa, il “governo dei sapienti” da Platone in poi è spesso stato riproposto: perché?

È una concezione autoritaria del potere. Non bisogna andare molto indietro nel tempo per ritrovarla nella nostra storia. Secondo Alfredo Rocco, padre del codice penale nonché ministro Guardasigilli di Mussolini, lo Stato fascista supera la democrazia perché si riserva “di far decidere i problemi essenziali della vita dello Stato a coloro che hanno la possibilità d’intenderli, sollevandosi sopra la considerazione degli interessi contingenti degli individui”. L’idea dell’infallibilità di un capo fa paura: per fortuna se il “capo” è Draghi non corriamo alcun pericolo. La concezione acritica del potere però è in sé estremamente pericolosa.

Si parla del governo dei migliori: chi sono?

Proviamo a ragionare al contrario. Ovviamente nessuno auspica un “governo dei peggiori”: ne abbiamo visti in passato di peggiori, per esempio dal punto di vista della condotta non sempre specchiata, della mancanza di disciplina e onore e perfino della fedina penale macchiata! È giusto, per certi versi perfino ovvio, che si cerchino per i ruoli chiave persone che abbiano capacità e conoscenze. La competenza è indispensabile: personalmente non metterei al ministero dell’Università e della Ricerca una persona che non ha nemmeno la licenza superiore come avvenne non molti anni fa. Però pensare che esista un’élite destinata a governare le masse rompe l’idea di uguaglianza su cui si fonda la democrazia costituzionale.

E poi: chi seleziona i migliori? Sulla base di quali criteri?

Questo è il punto cruciale che spiega bene perché la democrazia non ha alternative. Oggi ci troviamo in una situazione particolare causata dall’estrema debolezza del sistema politico. La crisi della rappresentanza dipende anche da leggi elettorali che in qualche modo hanno sottratto o attenuato la possibilità per i cittadini di scegliere i propri eletti, selezionati dai leader dei partiti in base a convenienze e fedeltà. Prima i partiti avevano un radicamento sociale importante e concorrevano alla preparazione della classe politica, formando il personale parlamentare e di governo. Adesso si bada solo al consenso, qui e ora.

Lei crede alla tecnica che non ha colore politico?

Non esistono decisioni neutre: tutte le decisioni sono politiche. Questa crisi è stata alimentata da un soggetto che ha un nome e un cognome, Matteo Renzi, che ha agito per sé e io credo anche per conto terzi: in troppi erano preoccupati dal possibile consolidamento di un’alleanza 5Stelle-Pd per timore di uno scivolamento a sinistra del Paese. Basta vedere come si affannano nel chiedere che le risorse non vengano sprecate nei sussidi. Ma non si tratta di “sprecare”: la Costituzione prevede l’intervento dello Stato in caso di disoccupazione involontaria e anche il diritto a una retribuzione che garantisca al lavoratore una vita dignitosa.

Aboliranno il reddito di cittadinanza?

Non credo che la Consulta lo permetterà. La giurisprudenza della Corte negli ultimi tempi ha ben chiarito che la Corte stessa può sindacare le scelte del legislatore in ordine all’allocazione delle risorse alla luce di principi fondamentali come quelli di uguaglianza e solidarietà. Se si oltrepassa la soglia del principio di ragionevolezza nell’abolire misure di solidarietà sociale in momenti in cui crescono disoccupazione e povertà, la Corte potrebbe intervenire.

Cosa pensa del governo di tutti o quasi tutti?

Che è impossibile. Ogni decisione è politica: accontenta e scontenta qualcuno, tocca interessi spesso contrastanti, favorendone alcuni e sfavorendone altri quindi non credo che partiti con posizioni diametralmente opposte possano mettersi d’accordo su ogni decisione. Non penso che possa essere efficiente un esecutivo sostenuto da tutti; mi piacerebbe, in questo difficile momento, ma mi sembra complicato. Sarebbe essenziale delimitare un’area politica di sostegno e giovarsi delle astensioni di chi non si oppone.

ILFQ 11.2.2021

CARLASSARE , “MATTARELLA BIS? UN’ANOMALIA COME DRAGHI AL COLLE”. - Silvia Truzzi

 

Ancora prima che il mandato del Presidente Mattarella entrasse nel semestre bianco, si è cominciato a parlare dell’ineludibilità di un suo bis. Per capire se davvero siamo in una situazione di impasse istituzionale, abbiamo chiesto lumi a Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale all’Università di Padova. Che in premessa dice: “Mattarella è stato un ottimo presidente. E teoricamente io sarei felice di vederlo restare al suo posto, soprattutto pensando ai nomi che circolano per la sua successione. Da Casini a Berlusconi: non voglio nemmeno pensarci. Queste però sono considerazioni politiche. Ci sono argomenti di metodo contrari, e naturalmente nessuno riguarda la persona del Presidente”.

Professoressa, facciamo un salto indietro nel tempo. Come si è arrivati in Costituente a definire il settennato?

Molto presto, già nell’ottobre 1947, un emendamento proponeva un mandato di sei anni, con possibilità di rielezione. Un altro emendamento prevedeva la durata di sette anni, con divieto di rielezione. La non rieleggibilità dunque è stata ventilata, se ne è discusso, ma non è passata. Nitti invece voleva un mandato di quattro anni, richiamando il sistema americano. Ma negli Stati Uniti, è stato osservato, il Presidente non è solo capo dello Stato ma anche capo del governo: una circostanza che esige un continuo confronto con la volontà popolare. La cosa importante era differenziare la durata del mandato parlamentare rispetto a quello, più lungo, del Presidente per garantire continuità e stabilità. Questo significa svincolare il Capo dello Stato dalle Camere da cui deriva. È un organo di garanzia. La Corte lo definisce con queste precise parole: “Un organo estraneo a quello che viene definito indirizzo politico governativo”. Il ruolo del Presidente, che non è espressione dalla maggioranza, è neutrale.

Anche le modalità del voto vanno in questo senso?

Certo: sia lo scrutinio segreto sia la maggioranza qualificata servono a impedire alla maggioranza di eleggere da sola il Presidente. L’obiettivo è quello dell’imparzialità. La rielezione non urta di per sé contro questi principi. Ma, come è stato notato durante il dibattito in Costituente, sette anni sono molti, 14 sarebbero un’enormità.

Ecco: lasciare, com’è accaduto con il secondo mandato del presidente Napolitano, la decisione sul quando dimettersi all’arbitrio dell’interessato non è questione da poco.

Non è possibile che un organo resti in carica “a piacere”, perché la stabilità delle istituzioni dipende anche dalla precostituzione dei tempi. L’obiettivo dei Costituenti era svincolare il Capo dello Stato dalle contingenze politiche: il secondo mandato va nell’opposta direzione. E credo che il presidente Mattarella si voglia sottrarre proprio in ossequio a questi principi.

Sarebbe poi la seconda volta, consecutiva.

Non si può far entrare in vigore la regola del secondo mandato per via consuetudinaria. Sarebbe una forzatura costituzionale. Purtroppo siamo di fronte a una serie di anomalie istituzionali.

Molti opinionisti presentano questa situazione come l’unica alternativa possibile.

Non è pensabile: in democrazia c’è sempre un’alternativa. L’impasse nasce dalla crisi dei partiti, ormai senza peso politico e identità. Ciò che rende allarmante la situazione è la progressiva incapacità delle forze politiche di assumersi le proprie responsabilità istituzionali. In questo clima, i partiti sono sempre più delegittimati e deboli, ma attenzione perché i partiti sono il tramite attraverso cui si attua la democrazia rappresentativa. Senza di loro nessun sistema democratico può funzionare. Ed è una crisi ormai cronicizzata che si trascina da decenni.

I più importanti giornali scrivono che Mario Draghi dovrebbe restare anche oltre la fine della legislatura, perché lo vogliono i mercati e l’Europa. Tra un po’ diranno che il voto è superfluo?

Per fortuna non siamo arrivati a esiti così spaventosi. Molti, com’è noto, da vario tempo parlano addirittura di post-democrazia considerando fra gli altri fattori il peso crescente dell’economia e dei mercati nella vita degli Stati.

La corsa per il Colle è diventata nel dibattito pubblico “una partita a due” tra Mattarella e Draghi: di un prolungamento del mandato dell’attuale inquilino del Colle abbiamo già parlato. Ma anche la seconda ipotesi – un trasloco diretto da Palazzo Chigi al Quirinale – non è priva di incognite. Sarebbe una prima volta: anche in questo caso saremmo davanti a un’anomalia istituzionale?

Il passaggio diretto dalla Presidenza del Consiglio – di solito ricoperta da un esponente della maggioranza, scelto appunto per la sua posizione politica – alla Presidenza della Repubblica, che dev’essere caratterizzata invece dall’imparzialità, ha come rischio inevitabile la politicizzazione di quest’ultima. Di solito, sottolineo. Rischio che appare oggi poco consistente data la posizione di Draghi, posto alla guida del governo per ragioni molteplici e complesse, e comunque estranee da una qualificazione politica. Non si può però dire che la ‘politica’ sia stata del tutto estranea alla vicenda complessiva. Troppo forte era il desiderio di alcuni di togliere di mezzo Conte e le sue aperture sociali: anche l’elevato consenso dei cittadini nei suoi confronti li preoccupava. È comunque pericolosa l’idea di avvicinare due ruoli – il capo del governo e il capo dello Stato – che svolgono funzioni costituzionalmente tanto diverse.

ILFQ 12.9.2021

Bergoglio nemico di donne e gay. - Cinzia Sciuto



Nelle recenti dichiarazioni il pontefice ribadisce la linea della Chiesa: l’aborto è omicidio e il matrimonio è solo fra uomo e donna.

Quando papa Bergoglio è in alta quota perde i freni inibitori che a terra lo fanno essere prudente e circospetto, e si lascia andare a dichiarazioni sperando forse che rimangano fra le nuvole. E invece le sue parole atterrano con lui. E sono parole pesanti che smentiscono ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, la vulgata del papa “progressista”. Certo, per scoprire cosa ha detto bisogna leggere i giornali giusti: l’AvvenireLiberoil Foglio. Già, perché la Repubblica e il Corriere della Sera, comprensibilmente in imbarazzo giacché da anni strombazzano la narrazione del papa progressista, titolano sulla parte più innocua del discorso del papa, quella sul cardinale Burke, novax finito in terapia intensiva.

E allora, rivolgiamoci alla fonte più autorevole per vedere invece le cose più significative che ha detto il papa. Il titolo dell’Avvenire non può essere più chiaro: “Il Papa: l’aborto è omicidio. Il matrimonio solo tra uomo e donna”. E riporta le testuali parola di Bergoglio: “L’aborto è più che un problema, è un omicidio. Chi fa un aborto uccide. Nei libri di embriologia alla terza settimana del concepimento tutti gli organi sono già formati. È una vita umana e va rispettata. Principio chiaro. E a chi non lo capisce farei due domande: è giusto uccidere una vita umana per risolvere un problema? È giusto affittare un sicario per risolvere un problema? Scientificamente è una vita umana. E per questo la Chiesa è così dura su questo argomento, perché se accettasse questo, è come se accettasse l’omicidio quotidiano”.

La storia del sicario (che sarebbe il medico che fa abortire una donna) è già stata usata da questo papa, niente di nuovo dunque. E il richiamo alla scienza è francamente del tutto strumentale: la scienza descrive un percorso biologico che inizia con l’incontro di due gameti e si conclude con la nascita di un bambino. Introdurre discontinuità in questo percorso è una scelta etica che va compiuta alla luce di diverse considerazioni (a partire dalla tutela della salute e della autonomia di chi una vita umana piena e compiuta lo è già, ossia la donna che la vita umana in formazione porta in grembo). Le parole del papa, pronunciate a pochi giorni dall’approvazione di una agghiacciante legge sull’aborto in Texas, che di fatto rende illegale l’aborto in qualunque circostanza (incluso stupro e incesto) oltre la sesta settimana (quando una donna spesso non sa neanche di essere incinta), chiariscono ancora una volta come la libertà, l’autodeterminazione e la libertà delle donne non abbiano posto nella dottrina della Chiesa.

Quanto al matrimonio, ecco le parole del papa: “Il matrimonio è un sacramento e la Chiesa non ha il potere di cambiare i sacramenti così come il Signore li ha istituiti. Ma ci sono leggi che cercano di aiutare la situazione di tanta gente di orientamento sessuale diverso. È importante che vengano aiutati, ma senza imporre cose che per la loro natura nella Chiesa non vanno. Se una coppia omosessuale vuole condurre la vita insieme, gli Stati hanno possibilità civilmente di sostenerli, di dargli sicurezza di eredità, di salute. I francesi hanno una legge su questo non solo per gli omosessuali, ma per tutti coloro che vogliono associarsi, ad esempio tre vedove che vogliono vivere insieme. Ma il matrimonio è matrimonio, è l’unione tra un uomo e una donna”. Il ragionamento di Bergoglio è ineccepibile sul piano dottrinale: per la Chiesa il matrimonio è un sacramento ed è possibile solo fra uomo e donna. Bene. Peccato che al papa sfugga che il matrimonio prima di essere un sacramento è un istituto civile ed è lo Stato, non la Chiesa, a stabilirne le caratteristiche. Non si vede dunque per quale motivo lo Stato non dovrebbe aprire il suo istituto agli omosessuali, come già in altri Paesi, lasciando naturalmente la Chiesa libera di celebrare il matrimonio religioso fra chi vuole lei. La confusione sul punto, specie in Italia, è alimentata anche dal fatto che nel nostro Paese i due istituti – il matrimonio civile e quello religioso – sono distinti sul piano del diritto, ma spesso coincidono sul piano temporale. Grazie al matrimonio concordatario, infatti, i preti sono investiti del ruolo di ufficiali civili e di norma in Italia contestualmente al matrimonio religioso (cattolico) viene celebrato quello civile. Val la pena ribadire che questa è un’anomalia che riguarda solo alcuni Paesi, fra cui l’Italia appunto. In altri Stati i due istituti rimangono separati e il matrimonio civile viene celebrato nelle sedi civili, di fronte a funzionari civili, di norma prima dell’eventuale rito religioso. Che agli occhi dello Stato, dunque, non ha nessun valore.

Chi sostiene la vulgata del papa progressista di fronte a queste posizioni palesemente reazionarie di solito risponde che ok è vero, Bergoglio è un tantinello conservatore sul fronte dei diritti civili, ma vuoi mettere sui diritti sociali? Chi è che ormai difende i diritti dei lavoratori? Chi è che si schiera in difesa della madre terra? Su questo punto due brevi osservazioni: la prima è che la distinzione fra cosiddetti diritti “civili” e “sociali” fa acqua da tutte le parti. Una donna lavoratrice che di fronte a una gravidanza indesiderata non sa cosa fare dovrebbe essere tutelata nella sua interezza: come lavoratrice senza l’incubo di sentirsi sotto ricatto e come donna pienamente in grado di decidere sul proprio corpo e sulla propria vita. La seconda osservazione è che il presunto progressismo sociale di Bergoglio è esso stesso una grande illusione. Come ha argomentato Marco Marzano, “su questo terreno la Chiesa si limita infatti ad auspicare che nella società non si producano conflitti insanabili, che i ricchi siano capaci di misericordia per i poveri, che le classi e i gruppi sociali convivano in armonia e senza troppe lacerazioni, che le persone non si impegnino così tanto a fare affari al punto di dimenticarsi di Cristo e soprattutto della sua sposa”. Soprattutto continua Marzano, “questo non è mai il terreno delle scomuniche o delle condanne esplicite”, come invece accade quando a essere in gioco sono i cosiddetti temi etici. Qui la Chiesa è pronta a scendere in campo con tutta la sua forza. E ne ha ben diritto, sia chiaro. Che sia però anche chiaro che, per chi ha a cuore i diritti (senza aggettivi), si tratta di un’avversaria.

(credit foto ANSA / Tiziana FABI / POOL / AFP)

MicroMega

sabato 18 settembre 2021

Bernabè perepè. - Marco Travaglio

 

Il senso dell’umorismo è raro. Ma quello del ridicolo è introvabile. È quanto ha voluto dimostrare giovedì a Ottoemezzo Franco Bernabè, ex amministratore di tutto, nominato dall’amico Draghi alla presidenza di Acciaierie d’Italia. Altrimenti, alle domande sul premier che l’ha nominato, si sarebbe schermito per il conflitto d’interessi; o, se proprio avesse voluto rispondere, avrebbe evitato l’aureola portatile; o, se proprio gli fosse scappata l’aureola, l’avrebbe accompagnata con una timida critica, magari marginale, che so, al colore della cravatta di Draghi. Invece no. Parlando del Super Green Pass di Super Mario, ha premesso che “sicuramente l’Italia è uno dei Paesi che ha affrontato meglio l’emergenza Covid”. Ma non quando l’emergenza era davvero emergenza e nacque il Recovery (c’era un altro premier che la damnatio memoriae vieta di nominarlo): il meglio è ora grazie a Draghi. Bernabè cita l’immunologo americano Fauci, facendogli dire che ora “siamo i leader internazionali”. In realtà Fauci ha detto: “L’Italia è stata uno dei Paesi colpiti dal Covid più severamente e prima degli Usa e da voi abbiamo imparato molto”. E chi c’era quando fummo colpiti? Sempre il premier che non si può nominare.

Il seguito del manager nominato da Draghi che parla di Draghi è impagabile: “Il fatto che Draghi fosse assente alla conferenza stampa sul Green Pass sottolinea simbolicamente che ha vinto l’Italia. In fondo abbiamo vinto gli Europei, abbiamo fatto il pieno di medaglie alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi, ora Fauci ci dice che siamo i leader internazionali… L’Italia esce vincitrice a livello internazionale… è entrata in un periodo di eccezionale positività. Con l’uscita della Merkel e i problemi degli Usa, avere una persona riconosciuta a livello mondiale per autorevolezza e credibilità farà tornare gli investimenti”. Purtroppo – e qui Bernabè s’incupisce un po’ – “la comunicazione del governo è abbastanza efficace, ma c’è una cacofonia su giornali e tv che non aiuta a chiarire le idee alla gente”. Già: questi giornali sono sempre lì a cercare il pelo nell’uovo pur di mettere in cattiva luce la sua Luce, incuranti dei rigori parati e tirati e delle medaglie vinte. E non basta: “Purtroppo la politica affronta tutto in negativo, il dibattito politico è sulla negatività e non sulla positività”. Giusto: basta con la guerriglia urbana in Parlamento contro il governo, basta con le imboscate dei ministri al premier, basta con i tupamaros dei giornali e dei talk pregiudizialmente antidraghiani: possibile che in Draghi non trovino mai nulla di buono? Eppure almeno un colpo di genio l’ha avuto: nominare Bernabè. E, se ha nominato un genio, dev’essere un genio anche lui. Non ce lo meritiamo, ecco.

ILFQ

Stato-mafia, il bis delle condanne è in salita. - Marco Lillo

 

Secondo grado. Dell’Utri ed ex Ros sperano.

Tra pochi giorni la Corte di assise di appello di Palermo dovrà decidere se la sentenza di primo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia del 20 aprile 2018 vada confermata o annullata. Il processo iniziato nel 2012 ha visto alla sbarra insieme i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti durante il processo), il medico mafioso Antonino Cinà e l’allora comandante del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri, Angelo Subranni, l’ex vicecomandante Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno più l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri.

In primo grado Bagarella si è visto infliggere ben 28 anni; Cinà, Dell’Utri, Mori e Subranni dodici anni; De Donno otto anni e Giovanni Brusca è stato salvato dalla prescrizione. Massimo Ciancimino è stato condannato per calunnia a otto anni. Nel processo parallelo l’ex ministro Dc Calogero Mannino, con il rito abbreviato, è stato assolto con sentenza confermata in appello e definitiva nel 2020.

I sostituti procuratori generali che sostengono l’accusa in appello (Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, guidati dal procuratore generale Roberto Scarpinato) dopo lo stop su Mannino hanno chiesto comunque la conferma delle condanne per gli altri imputati.

Il reato Minaccia a corpo polito dello Stato.

Il reato contestato non è la trattativa in sé ma la minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, prevista dall’articolo 338 del codice penale. Il tema non è quindi se prima i carabinieri e poi Dell’Utri abbiano trattato con la mafia, ma se abbiano turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati nel periodo 1992-1994.

Le domande cui dovrà rispondere la Corte di Assise di Appello sono in sostanza due: la minaccia allo Stato attuata con le stragi è stata veicolata dai carabinieri del Ros e poi da Marcello Dell’Utri alle istituzioni? Le presunte ‘trattative’, che vedono come protagonisti da un lato i carabinieri e Dell’Utri e dall’altro gli emissari della mafia, configurano un reato? I carabinieri del Ros – Subranni, Mori e De Donno – sono stati condannati per l’innesco della Trattativa con don Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci mentre Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia, è stato condannato per le pressioni veicolate al governo Berlusconi nel 1994.

La sentenza di appello è attesa a partire dal 21 settembre. Le possibilità teoriche sono tre: conferma della condanna per tutti; assoluzione per tutti; oppure condanna per il primo segmento della Trattativa e non per il secondo o viceversa. La Corte potrebbe cioè assolvere solo Dell’Utri e condannare Mori, Subranni e De Donno. Oppure potrebbe condannare solo Dell’Utri. Più difficile ipotizzare uno ‘smembramento’ del destino dei tre ex carabinieri.

Il presidente della Corte di assise di appello è Angelo Pellino, ricordato come il presidente della Corte di Trapani che nel 2014 ha condannato i boss per l’uccisione di Mauro Rostagno.

Giudice a latere è Vittorio Anania, che ha indossato la sua prima toga, prestatagli da un collega, al picchetto d’onore per le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Difficile fare previsioni, ma la strada verso la conferma della condanna è in salita. L’ostacolo più grande è il giudicato definitivo della Cassazione che assolve l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per gli stessi fatti.

I due processi, quello con il rito abbreviato contro Mannino e quello ordinario contro tutti gli altri imputati, hanno avuto esiti diversi su fatti praticamente uguali. E questa non è una buona notizia per l’accusa.

Mannino assolto definitivamente nel 2020.

Infatti la Procura generale capeggiata da Roberto Scarpinato ha cercato senza successo di ottenere dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale la possibilità di ribaltare l’appello perso contro Mannino. Invano. Dopo la riforma del 2017, quando c’è una doppia assoluzione, il ricorso al terzo grado è inammissibile. La questione di legittimità costituzionale di questa norma è stata rigettata. Risultato: per la giustizia italiana Mannino è innocente e non ha attivato la Trattativa per salvarsi la vita contattando il generale Subranni. Non ha mai aiutato Cosa Nostra. Anzi l’ha combattuta. Il verdetto definitivo su Mannino bolla la tesi della Procura generale (sostenuta dagli stessi pm oggi nell’altro processo) così: “Non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

La strada per la conferma della condanna è dunque un vicolo stretto e tortuoso. Quando nel 2018 furono condannati Subranni e compagni, c’era già l’assoluzione del 2015 del primo grado di Mannino. La Corte d’assise d’appello ora per confermare la condanna però dovrà saltare un muro più alto. L’assoluzione di primo grado per Mannino è diventato un giudicato. Dopo l’assoluzione di Mannino, la Corte d’assise scavalcò quel verdetto di primo grado così: “Al Subranni, invero, deve ricondursi l’ideazione della trattativa con i vertici mafiosi da cui ebbe a scaturire la minaccia rivolta da questi al governo della Repubblica. Subranni, infatti, ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta (…) in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa Nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”.

Per la sentenza di primo grado, Mori e De Donno avrebbero quasi confessato la ‘trattativa’ nel 1998 quando testimoniarono al processo di Firenze sulle stragi continentali.

La Corte li ha condannati anche sulla base delle loro parole perché l’iniziativa di andare a parlare nel 1992 con il mafioso Vito Ciancimino era tesa “non già come preteso dagli imputati allo sviluppo investigativo di indagini dirette a identificare i responsabili della strage di Capaci e a catturare i grandi latitanti di Cosa Nostra, ma all’intendimento di ristabilire in un certo senso una “normalità” di rapporti con gli esponenti dell’associazione mafiosa, e cioè quella “coabitazione” (…), di modo da far salva la vita a coloro che temevano di essere travolti dalla furia mafiosa (in primis l’On. Mannino che, come si è già detto, in tal senso aveva sensibilizzato l’amico Subranni)”.

Un anno dopo, la Corte di appello del processo Mannino ha confermato l’assoluzione dell’ex ministro nella sentenza ormai definitiva firmata dalla presidente Adriana Piras che fa a pezzi questa tesi. Il Ros avrebbe fatto “un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria comunicata da Mori e De Donno al loro diretto superiore gerarchico che allora era il generale Subranni (…) realizzata attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino (…) tale operazione si proponeva attraverso la sollecitazione a un’attività di infiltrazione di Vito Ciancimino in Cosa Nostra, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il precipuo fine della cattura di Totò Riina”.

Insomma nessun input politico di Mannino. Nessuna trattativa finalizzata a far finire le stragi in cambio di benefici a Cosa Nostra. Solo un tentativo di arrestare Riina con la soffiata di Ciancimino in cambio di benefici individuali a don Vito.

Addirittura, sempre per la sentenza di appello che assolve Mannino, non sarebbe provato nemmeno che il mancato rinnovo nel novembre 1993 di circa 300 decreti di isolamento carcerario al 41-bis fosse dettato dal cedimento alla minaccia stragista.

Questa lettura minimalista è rigettata dalla sentenza firmata dal presidente Alfredo Montalto nel 2018 secondo la quale nell’azione del Ros di Mario Mori c’era “il chiaro invito a Ciancimino (…) a prestare la propria opera per recapitare ai vertici mafiosi un messaggio di apertura al dialogo (“Ma non si può parlare con questa gente?”) finalizzato a “normalizzare” l’anomalia creatasi a seguito dell’uccisione di Salvo Lima e della prevedibile e prevista uccisione di altri politici oltre che della vendetta che aveva travolto il Dott. Falcone, nel rapporto di secolare coabitazione tra mafia e Istituzioni di modo da far cessare la totale contrapposizione (il “muro contro muro”) che, evidentemente, a Mori (e a Subranni che lo aveva incaricato), rispetto alla ‘coabitazione’, appariva invece innaturale”.

I pm a maggio depositata la memoria sull’ex ministro.

La Corte di assise di appello ora dovrà scegliere tra queste due opposte tesi. I sostituti procuratori generali Fici e Barbiera hanno depositato a maggio una memoria di 78 pagine in 21 punti che contesta le omissioni e l’illogicità nella motivazione della sentenza Mannino e la mancata assunzione di prove asseritamente decisive. In testa le testimonianze dei collaboratori Francesco Onorato e Giovanni Brusca. E poi il travisamento della testimonianza di Agnese Borsellino sulle confidenze ricevute dal marito poco prima della strage di via D’Amelio sul generale Subranni. La Corte d’assise di appello potrebbe opporre il giudicato assolutorio su Mannino oppure potrebbe rivalutare quei fatti e darne diversa lettura.

Forse solo la sorte processuale di Marcello Dell’Utri potrebbe essere più facilmente slegata da quella di Mannino e dei carabinieri. Dell’Utri in fondo è stato assolto già in primo grado per la prima fase della Trattativa ed è stato condannato solo per il suo ruolo di ‘mediatore’ nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia nel 1994. Secondo i giudici di primo grado, avrebbe incontrato Vittorio Mangano due volte nel 1994 per parlare delle modifiche legislative delle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al governo Berlusconi, a suon di bombe.

Nella ricostruzione della Corte di assise, i mandanti di quell’iniziativa di Mangano sarebbero stati i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. A raccontare le confidenze ricevute sugli incontri sul lago di Como dallo stesso Mangano è stato un collaboratore di giustizia vicino a Mangano, Salvatore Cucuzza, poi morto.

Nel precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro Dell’Utri però Cucuzza non era stato ritenuto attendibile sul punto. Tanto che in quella sentenza, divenuta definitiva nel 2014, Dell’Utri è stato condannato sì, ma per i suoi rapporti con Cosa Nostra solo fino al 1992. Mentre è stato assolto per il periodo successivo.

I giudici del processo sulla Trattativa hanno però superato l’ostacolo di quel giudicato favorevole all’ex senatore con elementi nuovi. Si sono così convinti che Cucuzza dica il vero: per la Corte di Assise, Mangano incontrò Dell’Utri, percepì la minaccia e la riferì a Berlusconi. “Il destinatario finale della “pressione” o dei “tentativi di pressione”, e cioè Berlusconi, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”. Certo, manca un testimone diretto della trasmissione della minaccia a Berlusconi, mai indagato. La Corte d’assise ammette che “si tratta di una prova indiretta”. Ora bisognerà vedere se quella prova basterà anche in appello.

ILFQ