sabato 2 aprile 2022

Via gli imballaggi in plastica per la frutta, tasse su confezioni monouso, vuoto a rendere: così si muovono i paesi Ue. E l’Italia resta a guardare. - Luisa Gaita

 

CARRELLI DI PLASTICA, LA NOSTRA CAMPAGNA CON GREENPEACE - L'adozione maldestra della direttiva Ue per l’Italia è l’ennesima occasione mancata, dopo la lunga serie di rinvii della plastic tax e, in generale, l’adozione di norme sbilanciate verso la sostituzione degli articoli monouso con articoli (sempre monouso) fatti di materiali alternativi. Per non parlare del tema del riuso. Ecco una panoramica su ciò che fanno gli altri Paesi Ue e su ciò che non ha fatto Roma.

Come si sta preparando il nostro Paese agli effetti sul fronte energetico della guerra in Ucraina? Nessuno ha ancora pensato a una cosa semplice: eliminare gli sprechi. Questa campagna de Ilfattoquotidiano.it e Greenpeace punta a dimostrare l’inutilità dell’enorme consumo quotidiano di plastica in Italia. E quindi dei suoi (sempre più alti) costi di produzione. Oltre a quelli ambientali.

Da gennaio 2022 in Francia è vietato l’utilizzo di involucri di plastica per la vendita di circa 30 tipi di frutta e verdura. Una norma dall’effetto tangibile sul carrello della spesa, sulla pattumiera a casa e sulle montagne di imballaggi che non è detto arrivino mai alla differenziata e al riciclo. In Spagna si va nella stessa direzione e il Senato ha appena approvato il progetto di legge sui rifiuti e i suoli contaminati, che recepisce nell’ordinamento nazionale la Direttiva sul monouso. Lo fa in ritardo, ma pone particolare attenzione alla riduzione degli imballaggi, oltre che al riutilizzo dei contenitori per alimenti e bevande e alla promozione dell’uso dell’acqua potabile. Anche Austria e Germania continuano a scommettere sul riutilizzo, con la prima che è diventata il primo paese europeo ad attuare obiettivi vincolanti. Alcuni Stati mettono in campo azioni incisive focalizzando meglio di altri il problema legato alla plastica, ossia la sua produzione fuori controllo. C’è chi lo fa approfittando del recepimento della direttiva sulla plastica monouso (la SUP, Single Use Plastic), c’è chi prova a superarla e c’è chi non riesce neppure a seguire la strada tracciata dalla norma europea che, comunque, presenta già i suoi limiti. Perché la SUP vieta alcuni prodotti monouso, ma non interviene in modo efficace su imballaggi e altre tipologie di plastiche usa e getta. In assenza di un quadro normativo globale di riferimento, quindi, ogni Paese fa da sé. L’Italia non riesce a stare al passo e arranca un po’ su tutto: dal recepimento della SUP alla mancanza di norme che puntino al riutilizzo tanto raccomandato dall’Unione europea, ma a cui si preferisce la sostituzione di articoli in plastica con alternative sempre monouso.

Lo scivolone sulla direttiva Sup, che alcuni Paesi superano – Nonostante ci siano ancora cinque Paesi europei che non hanno ancora recepito la direttiva del 2019 (Lussemburgo, Slovenia, Cipro, Polonia ed Estonia), questo resta un terreno scivoloso per l’Italia. Roma rischia la procedura d’infrazione dopo l’entrata in vigore (il 14 gennaio 2022, con oltre sei mesi di ritardo) del decreto legislativo che recepisce la SUP. In modo non corretto a sentire la Commissione Ue, che ha bocciato le deroghe al divieto di vendere, tra le altre cose, posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati e agitatori per bevande. La norma italiana, infatti, esclude dal divieto i prodotti dotati di rivestimento in plastica con un peso inferiore al 10% dell’intero prodotto e, per quelli destinati a entrare in contatto con gli alimenti, consente di ricorrere ad alternative in plastica biodegradabile e compostabile. In direzione opposta l’Irlanda, che nella sua strategia nazionale si impegna a estendere il divieto di vendita degli articoli indicati nella direttiva anche ad altri prodotti, come salviette umidificate, articoli da bagno in plastica monouso per hotel e utilizzati per il confezionamento di zucchero e condimenti. La Germania, che si era già mossa nel 2019 con la legge sugli imballaggi (VerpackG) modificata nel 2021, ha introdotto nel proprio ordinamento i divieti imposti dalla SUP e ha lavorato a ulteriori misure per ridurre il consumo di imballaggi in plastica monouso.

Le altre occasioni mancate in Italia – Per l’Italia è l’ennesima occasione mancata, dopo la lunga serie di rinvii della plastic tax e, in generale, l’adozione di norme sbilanciate verso la sostituzione degli articoli monouso in plastica tradizionale con articoli (sempre monouso) fatti di materiali alternativi, come la plastica compostabile. Sul fronte del riuso, asse portante dell’imminente revisione della direttiva comunitaria sul packaging, nel 2019 è stata introdotta la possibilità, per i consumatori, di utilizzare i propri contenitori riutilizzabili per l’acquisto di prodotti alimentari. Una pratica tuttora poco diffusa, anche per effetto della pandemia che avrebbe richiesto, invece, la predisposizione di prassi igienico-sanitarie nei settori coinvolti. Solo a settembre 2021, inoltre, è stato disposto il decreto attuativo del ‘bonus antiplastica’, il contributo a fondo perduto di 5mila euro che dovrebbe aiutare ad aprire nuovi negozi per la vendita esclusiva di prodotti sfusi o ad attrezzare spazi ad hoc anche all’interno dei supermercati, dedicati alla vendita di prodotti alimentari e detergenti sfusi o alla spina. Erano stati stanziati 40 milioni di euro (per il 2020 e il 2021), in attesa del decreto del Ministero della Transizione Ecologica, d’intesa con il Ministro dello Sviluppo Economico che avrebbe dovuto definire, entro il 15 dicembre 2019, le modalità per l’ottenimento del contributo. Mentre l’attesa bloccava l’accesso ai fondi, si è continuato però a spendere risorse per i compattatori, gli impianti ‘mangiaplastica’ che tra qualche anno, secondo le indicazioni del Parlamento (e dell’Ue), non dovrebbero servire più. Altri Paesi, invece, hanno utilizzato proprio il recepimento della direttiva SUP per andare oltre, come raccontato già ad aprile 2021 da uno studio redatto per conto di Greenpeace Italia dall’ingegnere Paolo Azzurro, consulente tecnico in materia di rifiuti ed economia circolare, che ha esaminato le azioni intraprese dall’Italia e dagli altri Paesi.

In Francia niente plastica per frutta e verdura  Va oltre certamente Parigi. Il 30 gennaio 2020 il Parlamento francese ha approvato il testo del progetto di legge sui rifiuti e l’economia circolare, la Legge Antispreco, a cui ha fatto seguito un decreto ad hoc su riduzione, riutilizzo e riciclaggio. E se finora il 37% dei prodotti ortofrutticoli è stato venduto con l’imballaggio, il governo Macron stima di risparmiare circa un miliardo di imballaggi all’anno con il divieto, scattato a gennaio 2022, di utilizzare involucri di plastica per la vendita di circa 30 tipi di frutta e verdura (su confezioni che pesano meno di un chilo e mezzo). Nella lista, mele, pere, arance, clementine, kiwi, mandarini, limoni, pompelmi, prugne, meloni, ananas, mango, frutto della passione, cachi, ma anche porri, zucchine, melanzane, peperoni, cetrioli, patate e carote, pomodori tondi, cipolle e rape, cavoli, cavolfiori, zucca, pastinaca, ravanello, topinambur, ortaggi a radice. Sono previste esenzioni per la frutta tagliata e trasformata e soglie di tolleranza fino al 2026 per i prodotti più delicati.

Le tre ‘R’ di Parigi – Ma Parigi ha anche fissato un target nazionale per l’eliminazione degli imballaggi in plastica monouso entro il 2040, stanziando 40 milioni di euro per investimenti sul riutilizzo per il 2021-2022 come parte del suo fondo per l’economia circolare. Il governo si è posto obiettivi di riduzione, riutilizzo e riciclo per periodi consecutivi di 5 anni. Per il riutilizzo di tutte le tipologie di imballaggi immessi sul mercato il target è del 5% entro il 2023 e del 10% entro il 2027. Sul fronte riduzione si punta al -20% già per il 2025. E se dal 2020 tutti gli esercizi dove si somministrano alimenti e bevande non possono mettere a disposizione tazze, bicchieri e piatti usa e getta in plastica per il consumo sul posto, dal 2023 questo divieto sarà esteso a tutte le opzioni monouso (non solo a quelle in plastica), con l’obbligo di impiegare quelle riutilizzabili. Misure specifiche, invece, per le bottiglie in PET (polietilene tereftalato) per liquidi alimentari: per arrivare a dimezzare entro il 2030 il numero di bottiglie in plastica monouso per bevande immesse sul mercato (con target di riciclo del 77% entro il 2025 e del 90% entro il 2029) da gennaio 2022 gli edifici pubblici devono avere almeno una fonte di acqua potabile collegata alla rete accessibile al pubblico e anche le attività di ristorazione e i locali di somministrazione di bevande devono dare ai consumatori la possibilità di richiedere acqua potabile gratuita.

La Spagna segue l’esempio – In Spagna ha fatto molto discutere anche la misura contenuta nella bozza del Regio Decreto spagnolo sugli imballaggi e sui rifiuti con la previsione che, dal 2023, nelle attività commerciali al dettaglio (indipendentemente dalla loro dimensione) frutta e verdura confezionate in lotti di peso inferiore a un chilo e mezzo non siano più vendute in imballaggi di plastica. Il compito di stilare la lista di prodotti a rischio deterioramento (esclusi, quindi, dal divieto) all’Agenzia spagnola per la sicurezza alimentare e la nutrizione. Il progetto di legge appena approvato dal Senato prevede che, entro il 1° gennaio 2023, i rivenditori di generi alimentari la cui superficie sia pari o superiore a 400 metri quadrati destineranno almeno il 20% della propria superficie di vendita all’offerta di prodotti presentati senza imballaggio primario, compresa la vendita sfusa o attraverso imballaggi riutilizzabili. Tutti gli esercizi alimentari che vendono prodotti freschi e bevande, nonché cibi cotti, dovranno accettare l’uso di contenitori riutilizzabili, che potranno essere rifiutati dal commerciante se sono sporchi o non idonei. Viene, inoltre, introdotta una tassa speciale sui contenitori di plastica non riutilizzabili (con aliquota a 0,45 euro al chilogrammo).

Dall’Austria alla Germania: gli altri Paesi che scommettono sul riuso – In Portogallo, a partire dal 2030, il 30% del packaging dovrà essere riutilizzabile. A novembre 2021, però, è stata l’Austria il primo paese europeo ad attuare obiettivi di riutilizzo vincolanti e applicabili, imponendo nella legge sulla gestione dei rifiuti una quota di riutilizzo delle bevande del 25% entro il 2025. I supermercati sono obbligati a fornire almeno il 15% di birra e acqua (il 10% per bevande analcoliche, succhi e latte) in imballaggi riutilizzabili. In Germania, invece, un recente emendamento alla legge sugli imballaggi prevede, dal 2023, l’obbligo per ristoranti, bistrot e caffè (con alcune esenzioni) di mettere a disposizione dei consumatori alimenti e bevande anche in contenitori riutilizzabili, sia per il consumo sul posto che da asporto. Questi contenitori verranno consegnati ai clienti a fronte di un deposito cauzionale (DRS, Deposit Return Systems), che li spinga alla restituzione. Da quest’anno, inoltre, il sistema di deposito su cauzione tedesco sarà esteso progressivamente a tutte le bottiglie per bevande in plastica monouso, a prescindere dal tipo di bevanda contenuta.

Il vuoto a rendere – D’altronde per gli esperti il cosiddetto ‘vuoto a rendere’ è l’unico strumento che potrà consentire ai Paesi europei di raggiungere gli ambiziosi obiettivi europei imposti dal pacchetto Economia circolare e, in particolare, proprio dalla direttiva SUP, che impone un tasso di raccolta del 90% per le bottiglie di plastica per bevande entro il 2029 (con un obiettivo di raccolta intermedio del 77% entro il 2025) e un minimo del 25% di plastica riciclata nelle bottiglie in PET dal 2025 (30% dal 2030 in tutte le bottiglie in plastica per bevande). In Italia il deposito su cauzione per imballaggi di bevande di plastica, vetro e alluminio, è stato introdotto con il decreto Semplificazioni, ma non è mai entrato in funzione. A novembre 2021, l’associazione Comuni Virtuosi, insieme ad altre 15 ong, tra cui anche Greenpeace, ha lanciato un appello – e nelle scorse settimane una campagna di sensibilizzazione – ricordando che in Europa sono attualmente attivi dieci sistemi, tra cui quello tedesco che conta 83 milioni di consumatori. I vari sistemi sono stati introdotti prima in Svezia, Islanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Estonia, Croazia, Lituania. Altri tredici paesi ne hanno annunciato l’introduzione nei prossimi quattro anni: Malta, Lettonia, Portogallo, Romania, Irlanda, Slovacchia, Scozia e Turchia nel 2022, Grecia e Ungheria nel 2023, Regno Unito nel 2024, Austria e Cipro nel 2025. Anche in Spagna c’è un’importante novità. Sempre il decreto appena approvato in Senato stabilisce degli obiettivi di raccolta differenziata per le bottiglie monouso in plastica per bevande (con capacità fino a tre litri): il primo step è il 70% di quelle introdotte sul mercato entro il 2023, per arrivare gradualmente all’85% nel 2027 e al 90% entro il 2029. Ma nel caso in cui gli obiettivi fissati nel 2023 o nel 2027 non siano raggiunti a livello nazionale, entro due anni sarà attuato su tutto il territorio un sistema di deposito su cauzione obbligatorio per garantire il rispetto degli obiettivi al 2025 e 2029 introdotti proprio dalla Direttiva SUP. Cosa manca in Italia? Si attende un decreto attuativo che sembra presentare alcune “complessità tecniche e organizzative”. Stando alla risposta a un’interrogazione parlamentare del M5S, servirebbe una “modifica normativa” da emanare entro giugno 2022.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/04/02/via-gli-imballaggi-in-plastica-per-la-frutta-tasse-su-confezioni-monouso-vuoto-a-rendere-cosi-si-muovono-i-paesi-ue-e-litalia-resta-a-guardare/6503260/

Il paradosso italiano: rinnovabili bloccate per il 90% e produzione di gas in caduta. - Jacopo Giliberto

 

I PUNTI CHIAVE

Mentre mezz’Europa studia come organizzare il razionamento dell’energia, mentre mezz’Europa sta riempiendo a tutta forza di metano gli stoccaggi di gas, ecco che cosa accade in Italia. Meglio: ecco che cosa non accade in Italia.

Giacimenti abbandonati.

I giacimenti in mezzo all’Alto Adriatico, fra i 30-40 miliardi di metri cubi, che non si riuscirebbe a estrarre oltre una velocità tecnica di qualche miliardo di metri cubi per una quindicina d’anni, non vengono sfruttati per timore che facciano sprofondare Venezia. Intanto, un metro di là dal confine immaginario in mezzo all’Adriatico, la Croazia ha appena perforato un nuovo pozzo con piattaforma, 150mila metri cubi di gas al giorno, 55 milioni di metri cubi l’anno, totale del giacimento 200 milioni di metri cubi. Entusiasmo a Zagabria per questo importante contributo all’indipendenza energetica.

Ancora notizie dal mare Adriatico. Il giacimento Giulia al largo di Rimini ha già la piattaforma posata, il pozzo perforato, 550 milioni di metri cubi di metano da estrarre (il doppio di quello appena avviato dai croati), ma è fermo e tappato perché è più vicino di 12 miglia dalla riva e quindi per legge è stato congelato l’allacciamento della condotta fino a terra. Le norme dal 2016 fino all’attuale Pitesai dicono che quel giacimento non va toccato.

Più import, meno gas nazionale.

Il ministero della Transizione ecologica ha appena pubblicato il bilancio del metano in Italia per il mese di febbraio: dai giacimenti nazionali sono stati estratti appena 260 milioni di metri cubi di gas, -24,8% rispetto al febbraio 2021. In gennaio erano 279 milioni. I consumi totali italiani di febbraio sono stati 7,59 miliardi di metri cubi, l’import è in aumento del 16,8%, soprattutto dall’Algeria; la Russia è scesa in seconda posizione. (Le anticipazioni dicono che in marzo l’import russo sia in aumento e torni in prima posizione).

Stanno riempiendo a manetta gli stoccaggi di metano i seguenti Paesi: Austria, Cechia, Croazia, Francia, Germania, Lettonia, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Ungheria. Segno meno per le scorte italiane.

Fonti rinnovabili bloccate.

Secondo il censimento dell’Anie Rinnovabili, per raggiungere gli obiettivi minimalisti del piano nazionale l’Italia dovrebbe costruire impianti solari, eolici, idroelettrici, geotermici e così via per 4.700 megawatt l’anno. Nel 2021 sono stati costruiti impianti nuovi pari a 1.300 megawatt, meno di un terzo, mentre degli impianti che erano già attivi sono usciti dal servizio 21 megawatt, spenti perché troppo vecchi. Totale: ci sono centrali rinnovabili complessive per 57.676 megawatt su un obiettivo al 2030 di 95.210 megawatt, periodo ipotetico dell’irrealtà.

Il nuovo rapporto Regions del centro studi Elemens con Public Affairs Advisors dice che più del 90% degli impianti eolici e solari presentati nel 2021 non ha superato lo stadio cartaceo.

I numeri dell’eolico: è ancora allo stadio di autorizzazione il 57,5% dei progetti proposti nel 2018, il 79,3% dei progetti presentati nel 2019, il 90% dei progetti presentati nel 2020 e del 99,9% dei progetti del 2021.

I numeri del fotovoltaico: è ancora in sala d’attesa per l’autorizzazione il 79,5% dei 14mila megawatt richiesti nel 2020 e il 92,4% dei progetti presentati nel 2021.

Chi blocca le rinnovabili.

La ricerca Regions di Elemens ha analizzato 209 progetti di impianti eolici sotto esame alla commissione di valutazione di impatto ambientale al ministero della Transizione ecologica. Dei 209 progetti, il ministero della Cultura ha espresso 41 pareri negativi e solo 6 positivi; silenzio totale per altri 162 progetti. Le Regioni hanno mandato alla commissione Via del ministero 46 pareri negativi e appena un parere positivo; mutismo per gli altri 162 progetti. Tempo medio di anticamera: 5,4 anni.

La maggior parte dei progetti si concentra in Puglia e Sicilia. Le Regioni più solerti nell’esaminare i progetti sono Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria, Sicilia e Veneto. Le più indolenti? Umbria, Basilicata e, in fondo, le Marche.

Segnali positivi.

L’associazione Gruppo impianti solari Gis informa che il Consiglio di Stato ha respinto un ricorso del ministero della Cultura: sbloccati due impianti solari a Montalto di Castro (Viterbo) per 235 megawatt.

La Regione Lombardia ha approvato le compensazioni per le comunità che ospitano stoccaggi sotterranei di gas.

La Provincia di Brescia ha sbloccato il progetto dell’A2A per produrre biometano dai rifiuti in un impianto a Bedizzole.

https://24plus.ilsole24ore.com/art/il-paradosso-italiano-rinnovabili-bloccate-il-90percento-e-produzione-gas-caduta-AEZfzFOB?s=hpl

Reddito Universale e salute mentale. - Matthew Smith














La povertà, la disuguaglianza e  l’isolamento sociale  possono portare a problemi di salute mentale, ansia e depressione. Il reddito universale può aiutare ad alleviare questi problemi.

Durante gli anni dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti sono stati portati avanti quattro progetti di ricerca sulla psichiatria sociale e su come prevenire la malattia mentale. Il primo, Robert Faris e H. Warren Dunham’s  Mental Disorder in Urban Areas è  stato uno studio di Chicago che ha scoperto come le persone con diagnosi di  schizofrenia  tendessero a provenire dalle aree povere e caotiche della città.

Il secondo è stato il Social Class and Mental Illness di Frederick Redlich e August Hollingshead, incentrato su classi e disuguaglianze a New Haven, nel Connecticut. Il terzo studio è stato lo Stirling County Study, che si è concentrato su una contea della Nuova Scozia, in Canada, ed è stato condotto da Alexander Leighton. Questo studio ha scoperto che l’isolamento sociale potrebbe innescare problemi di salute mentale, tra cui  ansia  e  depressione .

Lo studio finale è stato  il Mental Health in the Metropolis di Leo Srole e Marvin Opler, un progetto focalizzato su Manhattan, che ha scoperto che l’isolamento sociale crea problemi e disordini di salute mentale, all’interno di una città frenetica. Lo studio ha anche enfatizzato il ruolo della povertà e stabilito un legame tra cattiva salute fisica e mentale.

Nel complesso, questi studi hanno rilevato che la povertà, la disuguaglianza e l’isolamento sociale sono tutti fattori di una cattiva salute mentale. Sebbene alcuni tentativi siano stati fatti per affrontare questi problemi durante gli anni ’60, negli anni ’70 gran parte dell’interesse per la psichiatria sociale è diminuito.

Oggi ci sono rinnovate preoccupazioni per l’aumento dei tassi di malattia mentale, ma poche persone parlano di ciò che è necessario per prevenirla. Quando penso alle soluzioni che potrebbero affrontare la povertà, la disuguaglianza e l’isolamento sociale e che sono strettamente legate alla salute mentale, penso sempre più che il reddito di base universale possa essere una possibile soluzione. 

Sono anche sempre più convinto che uno dei fattori che dobbiamo considerare per valutare se il reddito universale possa funzionare sia determinare i suoi effetti sulla salute mentale. Quando i test pilota sul reddito universale sono stati condotti in Canada, Finlandia o altrove, le persone coinvolte hanno riferito che la propria salute mentale è migliorata.

Ma perché è così? Ebbene, il reddito universale aiuta ad affrontare i tre fattori sociali implicati nella malattia mentale. In primo luogo, riduce la povertà e, inoltre, elimina l’ansia associata ai cambiamenti del sistema del welfare. Le persone semplicemente ottengono il loro reddito senza fare domande.

In secondo luogo, riduce la disuguaglianza in parte perché è dato a tutti, indipendentemente dal loro reddito, ma anche, e soprattutto, offre alle persone l’opportunità di salire la scala sociale accedendo all’istruzione, avviando un’attività in proprio, impegnandosi in attività creative o artistiche. Fornisce un cuscinetto economico in modo che le persone possano apportare cambiamenti positivi nella loro vita. Erode la disperazione e la depressione associate al vivere sui gradini più bassi della scala sociale.

Infine, fornisce alle persone mezzi economici per impegnarsi di più nelle loro comunità. Se le persone trovano che il volontariato sia significativo o desiderano dedicare del tempo alla cura dei membri della famiglia, il reddito universale consente loro di farlo. Offre un’opportunità di crescita sociale ed emotiva, piuttosto che una semplice crescita economica.

Se il sistema di welfare non fosse così tanto impegnato nel determinare chi merita i benefici e nel vagliare coloro che sono ritenuti spettanti o meno, le persone che lavorano nel sistema sarebbero in grado di dedicare il loro tempo ad aiutare effettivamente chi sta male. Libererebbe un’enorme quantità di risorse umane per affrontare problemi più difficili, come dipendenze, abusi e altri problemi di salute mentale. Il reddito universale sarebbe anche un enorme vantaggio per coloro che attualmente soffrono di malattie mentali e lottano per sbarcare il lunario mentre cercano di stare meglio. Il reddito universale non impedirebbe tutte le malattie mentali o risolverebbe tutti i nostri problemi sociali, ma darebbe un enorme carico al sistema in modo che sia più facile affrontare i problemi più difficili da sradicare.

Proprio come i professionisti della salute mentale, gli attivisti, i pazienti e gli enti di beneficenza devono essere più audaci nello spingere i cambiamenti sociali necessari per prevenire la malattia mentale; i sostenitori del reddito di base universale devono iniziare a includere le valutazioni della salute mentale nei loro progetti pilota. Soprattutto, dobbiamo iniziare a parlare e provare nuove politiche sociali progressiste che possano aiutare a ridurre l’enorme costo della malattia mentale per la società.

Articolo originale apparso su Psychology Today

https://beppegrillo.it/reddito-universale-e-salute-mentale/

Completata la mappa del genoma umano, Dna senza segreti. - Enrica Battifoglia

 

Ci sono voluti 21 anni e tecnologie avanzatissime, ma finalmente il Dna umano non ha più segreti e diventa più facile fare passi in avanti nella medicina personalizzata, con la diagnosi di malattie finora impossibili da riconoscere, nella genetica delle popolazioni e nella possibilità di riscrivere il Dna.

I risultati sono pubblicati in sei articoli in un numero speciale della rivista Science, che a questo traguardo dedica la copertina.

"E' come avere un vocabolario" del Dna, osserva il genetista Giuseppe Novelli, dell'università di Roma Tor Vergata. "Abbiamo dei termini di riferimento che finalmente rendono possibile fare la diagnosi di alcune malattie" rare, caratterizzate da sequenze genetiche instabili.

"Non basta sequenziare il Dna: bisogna saperlo leggere e bisogna interpretarlo. In caso contrario, risulta molto difficile fare la diagnosi malattie dovute a sequenze ripetute, con interruzioni che in passato non si potevano vedere".

Il grande libro della vita era stato tradotto per la prima volta nel 2001, ma i computer di allora non erano riusciti a decifrare tutti i passaggi e avevano lasciato degli spazi bianchi, che complessivamente corrispondevano all'8% del genoma. Solo adesso queste lacune sono state colmate e diventa possibile leggere il Dna umano dall'inizio alla fine senza interruzioni, grazie al lavoro fatto dal consorzio internazionale chiamato Telomere-to-Telomere (T2T). "Stiamo vedendo capitoli che non sono mai stati letti prima", scrivono i ricercatori. I nuovi capitoli corrispondono a 200 milioni di lettere, che complessivamente equivalgono all'informazione contenuta in un cromosoma. Era come avere una mappa di new York senza Manhattan, dicono i ricercatori.

"Se ottenere il sequenziamento del Dna è come mettere insieme un puzzle, il genoma di riferimento è avere l'immagine del puzzle finito sulla scatola: ti aiuta a mettere insieme i pezzi", ha detto uno degli autori della ricerca, l'ingegnere biomedico del National Institute of Standards and Technology (Nist), Justin Zook. Le parti mancanti comprendono sequenze che si ripetono molte volte e ora è chiaro che proprio nelle ripetizioni si nasconde il segreto della diversità umana, osserva la genetista Rachel O'Neill, dell'Università americana del Connecticut e responsabile scientifica del progetto T2T. Per portare alla luce questo lato ancora nascosto del Dna umano "ci sono voluti nuovi metodi di sequenziamento del Dna e di analisi computazionale", rileva il genetista Francis Collins, consulente scientifico della Casa Bianca ed ex direttore del National Institutes of Health (Nih). "E' valsa la pena aspettare", aggiunge, perché "adesso emerge una varietà di sorprendenti caratteristiche architettoniche, con importanti conseguenze per la comprensione dell'evoluzione umana, della variazione e della funzione biologica". Il nuovo libro del Dna è anche a prova d'errore, considerando che i ricercatori hanno utilizzato una sorta di correttore automatico, un programma chiamato Merfin che analizza le sequenze e corregge gli eventuali errori.


https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/biotech/2022/03/31/completata-la-mappa-del-genoma-umano-dna-senza-segreti-_b824c874-fd47-4ea4-b577-aee08bccecad.html

venerdì 1 aprile 2022

Spese militari, Prodi a La7: “Dibattito surreale. Aumenti solo dopo aver fatto una politica della difesa europea comune”

 

Un “dibattito surreale”. Così a PiazzaPulita su La7, l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, definisce il dibattito degli ultimi giorni sull’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil. Secondo Prodi “questi aumenti di spesa, che bisogna fare per avere la difesa, si debbono fare quando si è fatta un politica estera e della difesa europea comuni”. “Io sono molto preoccupato del fatto che la Germania abbia di molto aumentato il suo bilancio della difesa, che doveva fare – prosegue Prodi – Però fare prima questo e poi vedere chissà quando una politica europea comune è pericoloso perché, voglio dire, lei stanzia 100 miliardi di euro, l’industria tedesca comincia a lavorare sulle commesse, e le politiche dei diversi stati si dividono”.

Una modalità che, puntualizza il conduttore Corrado Formigli tirando le somme del ragionamento di Prodi “rafforza i nazionalismi” a scapito quindi della difesa europea comune. Questo passo, secondo Prodi va fatto ora: “Se non lo facciamo adesso non lo facciamo più”. Fare una politica di difesa comunitaria “in tutta Europa”, specifica ancora l’ex premier, “non si può perché c’è l’unanimità. Allora bisogna fare come con l’euro, una cooperazione rafforzata”. A trascinarla, secondo Prodi, i quattro Paesi più “forti” in Euoropa, Francia, Spagna, Germania e Italia, che così potranno trascinare almeno altri 10 Stati in questa politica comune.

Una posizione vicina a quella di Conte e lontana da Draghi? Per Prodi no. Che specifica: “No, su questo non si è discusso, perché se si discute su questo io voglio vedere chi è in disaccordo”

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/04/01/spese-militari-prodi-a-la7-dibattito-surreale-aumenti-solo-dopo-aver-fatto-una-politica-della-difesa-europea-comune/6544707/?utm_content=fattoquotidiano&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR0YRjPgn-Kn6CbqG88cYjZV13cm3F9I7fQdZm4B9Ik-1a1POcjWDsuTens#Echobox=1648803815

SuperPinocchio. - Marco Travaglio

 

Il 25 marzo, dopo il vertice Nato, il segretario generale Jens Stoltenberg annuncia: “I membri han concordato di raddoppiare gli sforzi per rispettare l’impegno del 2014 di portare la spesa militare ad almeno il 2% del Pil entro il 2024”. Mario Draghi conferma: “Quello del 2% è un impegno preso nel 2006, sempre confermato da tutti i governi. Ora è tornato alla ribalta perché è più urgente e c’è l’esigenza di iniziare a riarmarci”. Per l’Italia, significherebbe passare nei Def del 2022-’23 da 25 a 39-40 miliardi annui. Tutti plaudono, tranne 5Stelle, Alternativa e SI. Il 28 marzo il ministro Lorenzo Guerini scrive alla Stampa“Obiettivo 2% del Pil per le spese della Difesa entro il 2024”. Il tutto “per costruire la Difesa Ue”, che non c’entra nulla con la Nato, spende già in armi il quadruplo della Russia e, se avesse un solo esercito al posto di 27, risparmierebbe e farebbe risparmiare i suoi membri. Il 29 marzo il governo fa proprio l’odg di FdI (opposizione) che lo impegna a “incrementare le spese per la Difesa al 2% del Pil… traguardo fissato al 2024”. Il M5S protesta. La sera Conte va da Draghi e gli conferma che un conto è un ritocco progressivo della spesa militare spalmato su più anni (nel solco degli aumenti di 1,1 miliardi l’anno dei suoi tre anni di governo), fino al 2% se e quando ce lo potremo permettere, tipo fino al 2030 (così magari c’è tempo per parlare di esercito Ue); un altro è dirottare in armi 14-15 miliardi in pochi mesi. Draghi ribadisce: 2% del Pil nel 2024, poi va a piangere al Quirinale da Mattarella, minacciando la crisi di governo. Palazzo Chigi, in una dura nota, ribadisce l’obiettivo di “un continuo e progressivo aumento degli investimenti entro il 2024”. Conte replica a Dimartedì: “Mai messo in discussione il tendenziale al 2%. Ma con l’orizzonte 2024 avremo un picco notevole: 15 miliardi e i cittadini e il Paese adesso hanno altre priorità”. Tg e giornali ripetono che Draghi “tira dritto” contro il disertore Conte, presidiando militarmente la linea del Piave: 2% nel 2024, non un minuto di più!

L’altroieri, tomo tomo cacchio cacchio, Guerini parla all’Agi del 2% “entro il 2028”. E ieri Draghi dice che il dogma del 2024 è solo “un’indicazione di tendenza, non un obiettivo”, infatti “molti governi l’han disatteso”, ergo “si fa quel che il ministro Guerini ha deciso per il 2028”. Ma allora perché spalmare quei 14-15 miliardi solo su 6 anni e non su 10 per allontanare l’amaro calice? E perché, se la sua linea del Piave era sempre stata il 2028, aveva sempre detto 2024, scordandosi di avvertire Mieli, Polito, Merlo, Sallusti&C.? Perché adora le sorprese? Per destabilizzare inutilmente il governo? Per far incazzare milioni di italiani distrutti dal caro- bollette? Per regalare un po’ di voti a Conte? O solo perché è un bugiardo?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/01/superpinocchio/6544411/

Gas, inciucio sui rubli fra l’Europa e Putin. - Francesco Lenzi

 

IL MECCANISMO - Il gioco delle parti fra l’Ue (soprattutto Scholz e Draghi) e il russo, che incassa euro, ma li cambia nella sua moneta.

Ieri mattina, Mario Draghi, a domanda precisa sul pagamento in rubli del gas russo, ha risposto che “le aziende europee continueranno a pagare in euro o dollari”. Nel pomeriggio, Vladimir Putin ha firmato il decreto che da aprile modifica i termini di pagamento per le esportazioni di gas verso i Paesi cosiddetti “ostili” (tra cui tutti quelli Ue), scatenando le proteste. Chi sta bluffando? In attesa delle tecnicalità, si può dire nessuno dei due. Per capirlo occorre spiegare come il sistema finanziario russo sta evitando di collassare.

Dopo le sanzioni occidentali la Banca centrale russa non aveva più riserve valutarie per sostenere il cambio del rublo. Mosca ha replicato obbligando gli esportatori russi a convertire in rubli l’80% dei ricavi e limitando il ritiro di valuta estera, misure che stanno operando in sostituzione della Banca centrale. Così gli esportatori devono cedere valuta estera al mercato russo, rendendola disponibile per le istituzioni che devono finanziare le importazioni o il pagamento dei debiti in valuta estera. Se la valuta fosse invece conservata, rimarrebbe troppo scarsa sul mercato russo e la sua domanda ne farebbe crescere il valore, deprezzando il cambio del rublo come è avvenuto dopo le sanzioni. La valuta russa non è più convertibile liberamente, il suo mercato è confinato alla Russia, ma il crollo dei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina è stato ormai riassorbito: il suo valore è tornato al livello pre-guerra. Questo recupero era essenziale per la Banca centrale, che da settimane lotta contro un’inflazione al 2% settimanale. Solo stabilizzando il cambio può sperare di evitare un devastante scenario iperinflattivo. Questo impianto opera negli spazi lasciati liberi dalle sanzioni ma può reggere solo se la valuta estera ottenuta con le esportazioni rimane libera, cioè accessibile al mercato russo. Se non fosse più trasferibile una volta che l’esportatore russo ha ricevuto il pagamento, si blocca tutto. Questo è lo scenario che Putin vuole evitare con la decisione di far pagare il suo gas in rubli.

Lo scenario potrebbe presto materializzarsi. Le banche russe non sono escluse dalle transazioni in euro. Solo sette, tra cui non compare GazpromBank, sono fuori dal sistema Swift. Gli Stati Uniti però, con l’entrata in vigore delle sanzioni sui regolamenti in dollari, hanno escluso varie banche russe tra cui la Sberbank, la più grande della Russia, dal poter trasferire i dollari se non per operazioni consentite dalle licenze. In sostanza, da sabato scorso, un esportatore di gas russo può ricevere dollari sul conto della Sberbank, ma poi quei dollari non sono più trasferibili. Non possono cioè essere riportati in Russia per convertirli in rubli e aiutare il sistema finanziario russo. Ieri, Putin, illustrando il decreto, si è infatti giustificato spiegando che “loro stanno ricevendo gas, pagano in euro e poi congelano questo pagamento”. A questo serve il provvedimento, che nella sostanza sposta l’onere di convertire euro e dollari in rubli e rende molto più complicato scindere il legame tra l’approvvigionamento di gas e il libero uso della valuta estera ottenuta come corrispettivo. Euro e dollaro non saranno più convertiti in rubli dall’esportatore, ma indirettamente da chi acquista il gas russo. Questo però non significa che il pagamento debba avvenire in rubli. È una sottigliezza che però conferma la linea di Draghi e Putin.

Nel decreto si legge che l’importatore “ostile”, per esempio Eni, deve aprire un conto in valuta estera presso la GazpromBank, alimentandolo con la valuta estera usata per pagare la fornitura e che viene poi utilizzata da GazpromBank per essere convertita in rubli sul mercato russo. Una volta realizzata la conversione, il corrispondente valore in rubli è accreditato su un altro conto in Gazprombank, questa volta denominato in valuta russa, e quindi trasferito all’esportatore di gas russo. Il pagamento è in euro o dollari, ma viene eseguito in rubli e solo quando questi vengono depositati sul conto dell’esportatore di gas l’operazione è completata e la fornitura può aver luogo. Lo schema regge a una condizione essenziale: GazpromBank non può esser oggetto di sanzioni che ne limitino la capacità di scambiare la valuta estera degli importatori di gas con i rubli delle istituzioni presenti sul mercato russo. A questo punto la decisione di colpire queste transazioni equivarrebbe alla decisione di terminare gli acquisti di gas dalla Russia, mettendo in ginocchio i Paesi Ue più esposti.

Ieri i ministri di Francia e Germania hanno detto di esser pronti a terminare l’approvvigionamento di gas russo se non potranno pagarlo in euro o dollari. Quello che pare di capire dal decreto è che questo resta così. Nella sostanza non cambia nulla, se non per il fatto, non trascurabile, che congelare i pagamenti sarebbe molto complicato. A quel punto resta solo di chiudere il gas. Ma su questo, a livello europeo, pare non esserci ancora molto accordo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/01/incassa-euro-ma-ottiene-rubli-cosi-mosca-prova-a-resistere/6544347/