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domenica 1 febbraio 2015

Sergio Mattarella, Napolitano: “Gli passerò dossier su riforme, grazia e Csm”.

Sergio Mattarella, Napolitano: “Gli passerò dossier su riforme, grazia e Csm”

Il presidente emerito al "Messaggero": "Avrò con il mio successore un colloquio riservato per informarlo sulle questioni che più riguardano il compito. Se mi chiederà consigli, glieli darò. L'esperienza internazionale? Uno se la costruisce. E poi ci sono i consiglieri diplomatici".

Si è dato da fare per aiutare Matteo Renzi a convincere Angelino Alfano a sganciarsi – di nuovo – da Silvio Berlusconi, abbandonare l’indicazione della scheda bianca e convergere sul voto a Sergio Mattarella. Un incontro a Montecitorio, una telefonata con il ministro dell’Interno. Si è speso per definire più volte nel corso dei tre giorni di votazione figura di “lealtà istituzionale” e di “garanzia”. Infine ha seguito lo spoglio insieme al presidente del Consiglio, nella sala del governo della Camera. Ora promette consigli al suo successore. 
Giorgio Napolitano, presidente emerito e senatore a vita, ammette che farà uno strappo al protocollo dovuto alla situazione di capo di Stato dimissionario: “Sarò” al Quirinale “per il passaggio delle consegne. Avrò con Mattarella un colloquio riservato, durante il quale dovrò informare il nuovo capo dello Stato dei dossier più stretti che riguardano la presidenza: le riforme, le domande di grazia, il Csm” afferma in un colloquio con il Messaggero.
Alla domanda se intenda dare dei consigli al nuovo presidente, Napolitano fa sapere: “Ho letto che intende chiedermene e io glieli darò. Consigli su richiesta, gratis ovviamente, ma li darò”. Quindi spiega: “La prima nomina, la più importante, è quella del segretario generale, per la quale il presidente può decidere di confermare o di cambiare, ci sono precedenti in uno o nell’altro senso. In entrambi i casi, si deve passare da un decreto di nomina”. Su Mattarella afferma: “Sono molto contento della sua elezione”, sottolineando quindi “l’ampia convergenza registratasi, al di là delle aspettative”, “un salto di qualità della politica”. Riguardo ai giudizi che hanno evidenziato la mancanza di esperienza internazionale del nuovo presidente apparsi in questi giorni, Napolitano osserva: “Su questa materia uno o ha un patrimonio personale o se lo costruisce. E poi ci sono i consiglieri diplomatici”.

lunedì 19 gennaio 2015

Quirinale: manca il Capo dello Stato. Qualcuno se ne è accorto? - Furio Colombo

Quirinale: manca il Capo dello Stato. Qualcuno se ne è accorto?
Ma come fanno i deputati, come fanno i senatori, a restare lì dentro a far finta di lavorare, mentre un caos di fili annodati l’uno nell’altro, che sarebbero le riforme da fare subito, si accatasta qui dentro come in una fabbrica assediata? Non so chi ha avuto questa vertigine. Ma qualcuno ha deciso, in un momento di estrema confusione, in cui manca il capo dello Stato, di fare finta di niente e come direbbero ufficiali severi e patriottici sotto un bombardamento, l’importante è che nessuno lasci il suo posto. Sapete a che cosa si lavora? Alla Camera per completare l’abolizione del Senato. Al Senato per avere la legge elettoraleper eleggere la Camera (unica parte del Parlamento che sopravvive).
Come ricorderete, il Paese continua a non avere una legge elettorale da quando la Corte Costituzionale ha dichiarato inaccettabile quella a liste blindate che il governo di Berlusconi, all’improvviso e senza ragione, aveva fatto calare sull’Italia coloniale che governava con la rigorosa fedeltà dei media e con la complicità di un’opposizionesilente o assente. Ma il Senato non può fare la legge elettorale finché non sa se e fino a quando il Senato continuerà a esistere. E la Camera non può continuare a votare finché non c’è un presidente della Repubblica che possa firmare la legge.
È in corso, vi sarete accorti, una gara furiosa e appassionata di una sola persona con se stessa. Si tratta del presidente del Consiglio Renzi che voleva un cronoprogramma, senza badare al contenuto delle materie che via via avrebbero dovuto passare sulla sua catena di montaggio. Nel frattempo vuole essere l’arbitro assoluto (insieme a Berlusconi, strettamente legato da un patto che non conosciamo) della selezione, poi della scelta, poi della strategia, poi della votazione, magari con un tuono di ovazioni, per il presidente che non c’è. Nel frattempo, naturalmente, ciascuno dei mille deputati, senatori e votanti aggiunti in rappresentanza – come si usa dire – del potere locale, stanno facendo, quasi ognuno, la stessa cosa: si candidano o partecipano a gruppi, alcuni da dopo lavoro, altri accanitamente militanti, per l’elezione di qualcuno.
Nel frattempo le reti televisive fanno lotterie e distribuiscono ai partecipanti dei loro talk show biglietti per votare i nomi preferiti. I giornali pubblicano, uno dopo l’altro, vite e curricula, ipotesi e sceneggiature di possibili esisti. Poiché c’è spazio e tempo, di alcuni presidenti inventati ci si trattiene a dire che cosa farà in Europa, come affronterà le fabbriche chiuse, e persino in che rapporti è o sarebbe con Obama e la Bce. Ma il presidente non c’è, e i deputati e senatori che lo devono eleggere, lavorano o fanno finta di lavorare ad altro. Fanno finta perché niente può andare avanti. Bisognerebbe almeno tenere conto delle due ipotesi fondamentali: eleggere un presidente che sia un nulla e che non conti nulla. È il sogno di Renzi ma non è detto che tutti i sogni si avverino, persino per lui. Oppure, per qualche errore che può sempre succedere, il presidente è qualcuno, che vuol sapere che cosa si sta votando e perché, e in quale ordine e con quale urgenza, anche solo come cortese informazione.
C’è qualcosa di folle nel concepire l’idea che voi lavorate a riforme costituzionali e a una legge chiave come quella elettorale, da cui dipende la qualità della vita democratica del Paese, e io intanto penso, per conto mio, a giudizio mio e del mio socio (e non disturbatemi) a trovare la persona adatta per le cerimonie. Ma c’è un altro fatto che è impossibile non considerare. Statisticamente, è più probabile che sia un deputato o un senatore, a essere eletto presidente della Repubblica piuttosto che qualcuna o qualcuno esterno alla vita politica. È naturale che tutti si sentano parte, alcuni apertamente in corsa. Tutti, comunque, hanno una ragione per volere il tempo di partecipare alla più importante discussione politica italiana ogni sette anni (in questo caso, nove, ma proprio a causa di una cattiva legge elettorale che non produce maggioranze e che adesso bisognerebbe ritoccare in fretta e furia prima del voto presidenziale).
In altre parole il progetto sembra essere di far trovare il grosso del lavoro già fatto alla brava persona che sarà mandata al Quirinale, con lo svelto voto di una mezza giornata, in modo che debba dedicarsi alle sue cerimonie senza pensieri sproporzionatamente pesanti e senza mettere becco in questioni già decise. Mi rendo conto che sto dicendo le stesse cose che ha detto in aula il capogruppo di Forza Italia Brunetta. Evidentemente il travolgente impulso di Renzi di fare in fretta, non importa se male, non importa che cosa, sta accostando allarme e proteste di chi vede, anche da punti di vista immensamente diversi, lo stesso innegabile pericolo. Come se non bastasse grava (a scapito persino di Brunetta) il patto del Nazareno, che è saldo, segreto e inviolabile.
E certamente ha nella elezione del capo dello Stato, il suo punto più importante. Non c’è bisogno di immaginare che sia una associazione per scopi indicibili. Ma è segreta, “tiene” (ci assicurano ogni volta o la Boschi o Verdini) e ci annuncia che le decisioni sono già prese. Sarebbe un caos, se il patto dovesse fallire. Sarebbe un caos se la pallina (secondo decisioni che non conosciamo con persone che, purtroppo, conosciamo) andasse in buca. Qualcuno vede il lieto fine?

venerdì 26 aprile 2013

Letta, Grillo, Berlusconi e le dieci bugie oggi di moda. - Andrea Scanzi



“E’ tutta colpa di Grillo”. E’ sempre colpa di Grillo. Se cade il governo, se piove, se c’è il sole. La tesi autossolutoria del Pd – il cui elettorato tende incredibilmente a ingoiare di tutto, passando dalla fregola per l’iper-democrazia al giubilo per l’abbraccio mortale con Berlusconi – è ora quella di ripetere che “il governissimo c’è perché Grillo ci ha portato a farlo”. Sarebbe vero se non ci fosse stata l’apertura Rodotà. Ma quell’apertura c’è stata. Il M5S ha sbagliato a non fare un nome al secondo giro di consultazioni (non sarebbe cambiato nulla, ma avrebbe tolto alibi al Partito Disastro), ma da Rodotà in poi è stato impeccabile: appoggiate questo nome (più vostro che nostro) e faremo un percorso insieme. A dire no è stato il Pd. Perché? Perché ha sempre voluto – nella maggioranza dei suoi parlamentari – l’inciucio. Infatti è stato scelto Enrico Letta, lo zio di suo zio. Quello che “è meglio votare Berlusconi che Grillo”.
“Su Rodotà non c’era maggioranza”. Bugia a metà. C’era la maggioranza degli elettori del Pd, ma non della maggioranza dei parlamentari piddini. Ciò significa, inequivocabilmente, che tra elettorato e rappresentanti c’è una scollatura drammatica. I Boccia non rappresentano nessuno, se non se stessi. Però decidono.
“Rodotà non è stato votato perché votato solo da 4mila persone”. Macché. Le Quirinarie sono state fantozziane, ma se i modi risultano discutibili non lo sono (stati) i contenuti. Per quanto raffazzonate, hanno portato alla scelta di un nome condiviso da milioni di italiani: la piazza reale, non virtuale (quella piazza che tanto terrorizza i giovani vecchi del Pd, tipo Speranza, uno che non merita quel cognome. Un po’ come se Ghedini si chiamasse Figo). Rodotà è stato il treno del cambiamento perso. Perso dal Pd e solo dal Pd: non da altri. Di questa colpa risponderà alla storia e, per il momento, agli elettori (infatti è un partito morto, che può vincere solo se si affida a ribelli come Serracchiani). Rodotà non è stato votato perché: 1) è stato proposto da Grillo (motivazione-asilo Mariuccia); 2) è troppo di sinistra; 3) è troppo laico (cioè “mangiapreti”); 4) è troppo intelligente, quindi libero e non irreggimentabile; 5) è troppo antiberlusconiano (e questo, per il Pd, è davvero inaccettabile).
“Sì, ma 4mila persone sono proprio poche”. Certo che lo sono. Ma sono comunque molto più delle persone (una) che avevano scelto Marini e poi (seicento) Napolitano.
“Non faremo mai il governissimo”. Per due mesi, o poco meno, Bersani e la sua ghenga tragicomica hanno ripetuto che il governissimo non l’avrebbero mai fatto. Qualche esempio (antologizzato stamani da Civati nel suo blog). «Pensare che dopo 20 anni di guerra civile in Italia, nasca un governo Bersani-Berlusconi non ha senso. Il governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile» (Enrico Letta, 8 aprile 2013). «Il Pd è unito su una proposta chiara. Noi diciamo no a ipotesi di governissimi con la destra» (Anna Finocchiaro, 5 marzo 2013). «I nostri elettori non capirebbero un accordo con Berlusconi» (Ivan Scalfarotto, 28 febbraio). «Un governo Pd-Pdl è inimmaginabile» (Matteo Orfini, 27 marzo 2013). Eccetera. Adesso avviene il contrario (e chi osa ricordarlo è un disfattista). Perché? Perché il Pd è bravissimo a sbagliare. E perché senza Berlusconi il Pd non esiste: ne è la più grande polizza assicurativa. Così facendo, il Pd imploderà (e questo tutto sommato è un bene) e regalerà a Berlusconi una nuova vittoria (e questo decisamente è un disastro).
“Letta ha vinto lo streaming”. Questa non è una bugia. E’ la verità. Che non stupisce. Letta fa politica da quando ha sei mesi. E’ nato vecchio, un Benjamin Button che mai diventerà Brad Pitt. Nella supercazzola democristiana (parlare e parlare senza dire nulla) nessuno lo batte. Con Crimi e Lombardi, che continuano a sbagliare tutto, ha usato la Tecnica-Asciugo: li ha intortati con una grandinata di nulla politichese. E li ha storditi. Quando si è trovato in difficoltà (Rodotà), ha detto al Duo Harakiri che “dovevate Prodi”. Sarebbe bastato rispondere: “Prodi non l’avete votato neanche voi, forse neanche lei. Con quale faccia incolpate noi?”. Ma non l’hanno detto. Come nulla o quasi hanno detto su conflitto di interessi, leggi ad personam, franchi tiratori, incoerenza sul no-inciucio. E via così. Letta ha vinto per mancanza di avversari. Esaurita tale erezione triste per la vittoriuccia di Pirro di Benjamin Letta, vorrei però che i giubilanti di adesso tenessero bene a mente che il loro hero sta lavorando per un governo con i D’Alema, gli Amato e i Brunetta. Un’apocalisse farebbe meno male.
“Non ci sono alternative”. No. C’erano: bastava votare Rodotà. Ma non è stato fatto. Ora il governissimo – il vero obiettivo di Pd e Pdl, sin dall’inizio – viene spacciato come “governo di salvezza nazionale”. Ma de che? Cosa può fare un governo che contempli contemporaneamente Civati e Mussolini? Al massimo una legge elettorale anti-M5S, atta anzitutto a disinnescarli. Berlusconi sta al senso dello Stato come Robinho alle quadriplette. Opera per salvare se stesso e in questo è un fenomeno. Il governo Letta sarà un tirare a campare. Un ulteriore arroccarsi dei politicanti nel Parlamento-bunker. Mi si dirà: “L’alternativa è andare al voto, ovvero un’oscenità”. No: persino andare subito al voto sarebbe più onesto. Anche con la stessa legge elettorale. Un pareggio non ci sarebbe, non stavolta. Vincerebbe Berlusconi, si ridimensionerebbe Grillo, crollerebbe il Pd. Brutta prospettiva? Sì. Ma è l’Italia, baby. E quantomeno avremmo un governo Berlusconi evidente e dichiarato, senza questa ipocrisia nauseabonda delle “larghe intese”.
“Il Movimento ha abbassato i toni”. Ma figuriamoci. Dopo lo schiaffo in faccia ricevuto su Rodotà, il M5S farà solo e soltanto opposizione. I toni sono stati abbassati unicamente da Pisolo Crimi e Simpatia Lombardi, che ieri dormivano (e un po’ li capisco) mentre parlava Benjamin Letta. Dopo il caso Rodotà, la rottura tra M5S e Pd è definitiva. Insanabile. Eterna.
“Il Movimento 5 Stelle è in calo”. Bugia a metà. In Friuli la tramvata è stata evidente, pur con tutte le attenuanti, ma agli occhi di molti elettori 5 Stelle la trama degli ultimi giorni ha confermato che Pd e Pdl pari sono o giù di lì. I sondaggi (Swg) li danno al 27 percento. Se questo è un calo, il Pd è già allo stadio di decomposizione. E’ però vero che il M5S è percepito da molti come una forza che sa dire solo di no. E questo, per loro, è un male. Aggiungo poi che esiste nel Movimento un problema di rappresentanza. L’anomalia non è che Mastrangeli sia stato (giustamente) espulso, ma che sia stato (clamorosamente) prima scelto e poi eletto. E a proposito di espulsioni, che – secondo quasi tutta la stampa – sono giuste se le decide il Pd e sinonimo di fascismo se le appluica il M5S: caro Civati, prendi atto che nel Pd sei un corpo estraneo e vola altrove. Magari nel “cantiere della sinistra” a cui sta lavorando Vendola, ampolloso e barocco come sempre ma tra i pochi ad essere risultato coerente e coraggioso negli ultimi giorni. Questa “critica dall’interno” è sterile, pleonastica e alla lunga pure noiosa.
“La stampa deve cooperare”. E’ l’ultima trovata di Re Giorgio e dei suoi prodi discepoli (quasi tutti), Scalfari e derivati in testa. L’intoccabilità di Napolitano ha ormai del leggendario. Ho rispetto della persona, e della sua età, come lo ho per la memoria storica. Il migliorista Napolitano è sempre stato un “comunista di destra”. Gaber, quelli come lui, li chiamava “grigi compagni del Pci”. Napolitano è quello che appoggiò i cingolati sovietici contro la rivolta ungherese (salvo poi dire decenni dopo che “Mi sono sbagliato, aveva ragione Nenni”), quello che attaccò Berlinguer (Enrico) sulla questione morale, quello che a fine 2011 ci ha imposto Monti allungando la vita politica di Berlusconi (e rafforzando involontariamente Grillo); è quello del “non ho sentito il boom”, delle telefonate a Mancino, delle firme alle leggi vergogna. Capisco la stima, ma Pertini era un’altra cosa. Come lo è il giornalismo. Che non deve “cooperare”, ma raccontare e talvolta denunciare. L’invito a cooperare di Napolitano, dopo l’orrore dello scorso weekend (tra i più neri nella storia della Repubblica italiana), mi ricorda l’adagio del “ci pisciano in testa e poi dicono che piove”. Si ha la sensazione che qualcuno ci abbia conficcato ben bene l’ombrello di Altan. E che quel qualcuno, adesso, ci dica “Ehi, non lamentarti, altrimenti sei un irresponsabile”. Un po’ troppo, come masochismo.

venerdì 19 aprile 2013

Napolitano dixit, le parole di un settennato: tutti i moniti di Re Giorgio. - Thomas Mackinson


Giorgio Napolitano


Da Botteghe oscure al Colle, dal comunismo alla Nato. Berlusconi, la giustizia, i diritti civili, la magistratura, le missioni di pace, le grazie. Ecco tutti i temi dell'ultimo presidente della Repubblica attraverso le sue esternazioni.

Per tutti è stato un presidente politico. Anzi, il più politico. Per molti resterà l’uomo della Provvidenza, il Capo dello Stato che, con imparzialità e coraggio, ha retto le sorti della Repubblica nel generale discredito delle istituzioni e della politica. Per i critici, invece, è andato oltre i limiti e le prerogative del suo ruolo. E lo ha fatto per garantire gli interessi della partitocrazia. Nella confusione delle celebrazioni e delle (poche) polemiche, una voce più autorevole di altre può raccontare la biografia politica di Giorgio Napolitano senza inzupparla nella retorica: la sua. Seguendola, fatalmente, si finisce per trovare anche le macerie che lascia sul Colle: le leggi ad personam firmate sebbene fossero palesemente incostituzionali e poi bocciate dalla Consulta, le missioni internazionali di pace armata, figuracce planetarie alla Marò, il rapporto ad alta tensione con la magistratura, le ceneri della tecnocrazia fallita del rigore che ha appeso l’Italia al chiodo del direttorio europeo, i moniti rimasti sempre inascoltati. Sul finire, il mezzo incarico a Bersani e l’alchimia istituzionale dei “saggi a termine”: 10 personalità tra cui spiccano quattro garanti dei partiti e dinosauri dell’italica burocrazia nominati perché in quota. Non un outsider della politica, non un under 40 e neppure una donna. Sono stati loro l’ultima scialuppa per traghettare Pd e Pdl verso un accordo e il suo stesso artefice alla scadenza naturale dell’incarico. Non prima, però, d’aver dato chiare indicazioni ai sudditi sul suo successore, un’altra figura di garanzia che possa traghettare il Paese verso la Terza Repubblica con un nuovo, storico, compromesso tra partiti. Re Giorgio, titolò il New York Times. Ecco moniti e proclami che hanno scandito il suo regale settennato, dall’esordio all’ultimo giorno.

2006-2008 – Da Botteghe Oscure al Colle. Napolitano e le convergenze a destra
Lo aveva chiarito subito, “sarò super partes”. Che per Giorgio Napolitano, primo capo dello Stato ex Pci eletto coi voti della sola Unione, significa “operare all’insegna delle più ampie convergenze” (discorso d’insediamento del 10/5/2006). Dieci giorni dopo, nella sua Napoli, è ancora più esplicito con un invito al futuro governo a “non distruggere gli atti di quello precedente” e “avviare un dialogo col centro destra sulla giustizia”. Si spinge oltre: il mondo politico si scontra da settimane sulle intercettazioni della Procura di Potenza, Napolitano è sul Colle da due settimane e si dichiara “non contrario a un decreto” (20/6/2006) auspicando un “Intervento equilibrato del governo per tutelare diritto all’informazione e tutela della privacy”. La polemica corre sul filo anche per la vicenda delle intercettazioni illegali Telecom. Napolitano firma senza batter ciglio (“Non ho nulla da dire”,15/9/2006) il decreto Mastella che ne dispone la distruzione. La Consulta, tre anni più tardi, dichiara parzialmente illegittima la formulazione che era stata approvata con voto bipartisan e firma del Capo dello Stato. La vicenda intercettazioni, come si sa, lo avrebbe investito personalmente qualche anno dopo.
Nei due anni di coabitazione con il governo di centro sinistra Napolitano è impegnato a dimostrare in tutti i modi la sua imparzialità, assumendo prese di posizione che finiscono per lacerare la risicata maggioranza di Romano Prodi. Uno dei temi spinosi è l’immigrazione. Napolitano assume posizioni incompatibili con l’ala radicale della sinistra. Una distanza che era già stata suggellata dalla leggeTurco-Napolitano che ha istituito i Cpt, strutture bocciate anche in sede europea per violazione dei diritti umani, che Napolitano continuerà a difendere (“Non sono dei lager”). Così non è difficile scovare esternazioni che provocano il maldipancia a sinistra e incassano il plauso a destra: “Chi viene in Italia riconosca le nostre regole” (5 sett. 2006). Anche su temi etici e diritti civili Napolitano darà del filo da torcere alla maggioranza che lo ha eletto. Nei dibattiti più delicati il capo dello Stato si erge a garante delle posizioni della Chiesa e del centro destra. Sul testamento biologico, ad esempio, richiama la maggioranza a “scelte non partigiane su etica e famiglia” (20/11/2006), “Trovare regole condivise con la Chiesa” (24/11/2006).
Quando la maggioranza cambia e Berlusconi diventa premier esplode forse uno dei casi di coscienza più drammatici e dibattuti anche in sede politica, quello di Eluana Englaro. C’è un’Italia mossa a pietà umana che sta con il padre e chiede che i riflettori e le macchine per l’alimentazione forzata si spengano e un’altra che si accanisce per tenerli accesi. Napolitano in quella occasione farà muro alla smania del centro destra di cavalcare il caso facendo sapere però per tempo, con una lettera al governo, che non firmerà un decreto ai suoi occhi palesemente incostituzionale. Ma darà così tempo all’esecutivo di riorganizzarsi presentando notte-tempo un disegno di legge identico al decreto. Napolitano la sera stessa ne autorizza la presentazione alle Camere.
Tra i momenti qualificanti di questa stagione anche l’indulto di Mastella. Napolitano non si stancherà mai di denunciare il sovraffollamento delle carceri e le deprivazioni che comporta. Il ministro di Ceppaloni, sensibile al tema, predispone un provvedimento generoso. Votato da tutti (tranne che da Idv, Lega e Pdci), il provvedimento liberò 30mila carcerati ed evitò che altrettanti finissero dentro, costringendo i magistrati a fare indagini e processi costosissimi per erogare pene meramente virtuali. Salvo poi scoprire sei mesi dopo che le carceri erano più piene di prima. Ma c’è un altro fronte su cui Giorgio Napolitano scarica il peso della propria biografia politica e personale sulla coalizione che lo ha eletto. Il fronte di guerra.
L’elmetto presidenziale porta l’Italia in guerraVenticinque missioni, 6.500 militari schierati nelle aree del conflitto e della tensione internazionale. C’è anche questa eredità per il nuovo inquilino del Colle. Durante il suo mandato Napolitano esercita un’influenza enorme sulla politica estera dell’Italia, spingendola – suo malgrado – in prima fila fra le missioni di “pace armata”, compresi Iraq, Afghanistan, Libia e Libano. Un interventismo che deriva anche da una biografia politica e personale che vede Napolitano evolvere dalla stretta osservanza del blocco comunista (che lo portò ad applaudire all’intervento sovietico in Ungheria) fino al socialismo europeo. In anni recenti sono emersi i tentativi di Napolitano di accreditarsi presso gli Usa. Più volte i suoi visti saranno rifiutati, in occasione della visita di Ted Kennedy a Roma (1976) l’incontro venne accuratamente evitato. Finalmente nel 1978, complice un aiuto di Giulio Andreotti, Napolitano corona il sogno di essere il primo dirigente del Pci a mettere piede negli Usa. Da questa evoluzione politica e personale discendono le posizioni assunte dal capo dello Stato nel contesto internazionale che vede l’Italia, spesso suo malgrado, impegnata nelle zone di conflitto sotto le insegne dell’Onu e della Nato. Con non pochi contraccolpi interni. Già dieci anni fa, da alto dirigente dei Ds, zittì la sinistra che protestava contro la guerra in Iraq (“No alla guerra è pura propaganda, reagire all’antiamericanismo”, 2003).
Una volta eletto esercita la sua influenza, quasi un uomo d’ordine degli Usa nel blocco occidentale (lo confermerà anni dopo un cablo di Wikileaks alla vigilia del G8 dell’Aquila tra l’ambasciata a Roma e l’amministrazione Obama “Ambasciatore, Napolitano punto di riferimento per Usa”). Non si contano i moniti ad approvare e finanziare le missioni nei teatri del conflitto (“Chi sfida l’Onu desista”, “No a ritiri unilaterali”). Anche i tributi di sangue non gli fanno cambiare idea. Quando sei militari muoiono a Kabul (17/9/2009) dichiara il lutto nazionale, ma il giorno dopo chiude la porta ad ogni ipotesi di ritiro che si leva a sinistra (“Nulla da rivedere in missione”, 18/9/2009). E quando l’ala pacifista della sinistra decide di manifestare contro la missione, Napolitano congeda l’iniziativa in modo sprezzante: “Una becera e indegna manifestazione che non conta” (28/9/2009). Sulla Libia è Bossi a rivelare “Berlusconi non voleva la guerra, Napolitano sì” (Monza, 29/7/2011). Deve aver cambiato idea il capo dello Stato. Nei due anni prima aveva accolto più volte il leader libico col picchetto d’onore (“Gheddafi, utile conoscere la sua visione”, 6/10/2009). Qualcuno, poi, lo convince che non si possa starne fuori (“Libia, non possiamo sottrarci”, 21/3/2011). E si dichiara stupito, poi, quando la Germania si sottrae (“Non capisco scelta della Merkel”, 30/3/2011). Altra patata bollente il caso dei due Marò, accusati dell’omicidio di due pescatori, ricevuti in pompa magna al Quirinale come eroi nazionali (“Ingiustamente trattenuti”, 8/6/2012) e rispediti in India dopo una pazza gestione, culminata con le dimissioni del titolare della Farnesina. Il settennato a stelle e strisce si chiude con l’inchino della grazia al colonnello Joseph Romano, condannato a 7 anni per il rapimento di Abu Omar. 
2008-2011 – Re Giorgio alla corte del Cavaliere“Bisogna garantire al Cavaliere la partecipazione politica”, così l’Ansa sintetizza nel titolo il senso del Quirinale per Silvio Berlusconi. L’ultimo favore, forse, è stato fare spallucce sulla questione dell’ineleggibilità, in barba alla legge (Sturzo, 1957) e alle 200mila firme raccolte da Micromega. Col centrodestra al governo Napolitano si impegna al massimo per dimostrare di aver rotto i ponti col passato comunista e concede a Silvio Berlusconi quanto neppure un cattolico di centrodestra come Scalfaro gli aveva mai dato. Restano le leggi vergogna, il legittimo impedimento e i tanti interventi per tenere in sella un Cavaliere ormai disarcionato che la parte più intransigente dell’opinione pubblica antiberlusconiana non gli perdona. Emblematiche alcune risposte date fuori dall’etichetta, a bordo strada, a chi non capiva tanta accondiscendenza. “Non firmare? Non significa nulla, me lo ripresentano” (3/10/2009) risponde a chi lo supplica di non promulgare lo scudo fiscale di Tremonti che garantisce anonimato e di conseguenza impunibilità a mafiosi ed evasori. “Stop a processo breve? Faccio quello che posso”, risponde a una madre di una delle 32 vittime della strage di Viareggio del 2009. Si ricordano anche la finanziaria che raddoppia l’Iva a Sky, i pacchetti sicurezza Maroni con norme xenofobe, il decreto salve-liste del Pdl con tanto di viatico per Berlusconi: “Non era sostenibile l’esclusione del Pdl” (6/3/2010). Un mese dopo promulga il legittimo impedimento (legge 51 del 7/4/2010) che consente al solo presidente del Consiglio e ai suoi ministri di non comparire in aula per 18 mesi e far slittare i processi a carico verso la prescrizione. Napolitano firma nonostante fosse palesemente incostituzionale, come aveva già sancito la Consulta con due sentenze (nel 2001 sugli impedimenti accampati da Cesare Previti, nel 2008 bocciando il lodo Alfano). E sostiene davanti alle persone per bene che “non poteva fare altrimenti”.
Eppure per altri provvedimenti, non incostituzionali ma che semplicemente non condivide, Napolitano si rifiuta di firmare: è successo con il ddl sul welfare che estende l’arbitrato ai rapporti di lavoro. L’impedimento non solo è legittimato da Napolitano ma è anche accompagnato da un monito a distanza di 20 giorni che toglie ogni dubbio sulla propensione a mettere sullo stesso piano politici aggressori e pm aggrediti: l’invito per i magistrati è a “non cedere a esposizioni dei media” e “fare autocritica” (27/4/2010). Ma saranno proprio dei giudici, quelli della Corte Costituzionale, a decretare la breve vita del provvedimento dichiarandone illegittima una parte (l’altra sarà cancellata dai cittadini con il referendum del giugno successivo).
Le concessioni a Berlusconi vanno oltre gli atti formali. Poco o per nulla incline a stigmatizzare concentrazione di potere e pretese di impunità del re del conflitto di interessi, Napolitano si cimenta al contrario in inaspettati salvataggi del Cavaliere proprio mentre sta finendo disarcionato. Clamoroso quello del novembre 2010, quando la pattuglia di Fini sfoltisce le file della maggioranza. Il capo dello Stato si adopera direttamente per evitare la chiusura anticipata della legislatura (“Cercherò di evitare lo scioglimento della camere”, 23/12/2010) e consente a Berlusconi di reclutare i deputati che gli servono (“Da Berlusconi ipotesi di rafforzamento governo”,  16/3/2011). Due anni il rafforzamento del Cavaliere è materia per i magistrati. Anche quando il governo viene bocciato sul rendiconto generale dello Stato Napolitano si precipita a chiarire che “Non c’è obbligo giuridico di dimissioni” (14/10/2011). Quando poi è lo spread a chiedere di staccare la spina, Napolitano dal Colle si mobilita (“Mio dovere intervenire per evitare ora le urne”,  31/12/2011). E evita a Berlusconi un voto che lo avrebbe seppellito definitivamente, rendendo possibile quello che solo un anno prima non lo era, lo scivolo dei tecnici. Nel 2010 Napolitano lo aveva escluso tassativamente (“Non esistono governi tecnici”, 14/12/2010). Un anno dopo cambia idea e dal cilindro presidenziale tira fuori Monti, previa nomina a senatore a vita.
2011-2013 – Il montismo e l’ipoteca sul successoreI partiti affondano negli scandali, inizia la dittatura dello spread che accredita l’emergenza dei conti e il rischio Grecia (“Non possiamo giocare con fallimento”, 15/11/2011). Il governo è ormai murato sullo sfondo, Berlusconi è screditato anche aldilà delle Alpi. Napolitano allora prende in mano il pallino e si accredita personalmente presso il direttorio europeo come garante della stabilità e dei conti. La ricreazione è finita, l’Italia rischia di mandare in tilt la zona Euro. L’ex dirigente comunista è al centro della scena politica mondiale, l’uomo della Provvidenza (Re Giorgio, titola il New York Times). Forte dell’acquiescenza dei partiti, del pressing dei mercati e delle direttive dell’Europa decide di lanciarsi nell’alchimia istituzionale di un governo tecnico. L’unica che consente di non staccare la spina a Berlusconi (che intanto si ricarica per successive imprese) ed evitare il voto a Bersani. Lo spiegherà lo stesso Napolitano di lì a poco (“Non c’era spazio per crisi parlamentare”,   22/12/2012). Dal cilindro presidenziale – con il consenso della parte prevalente della stampa – esce dunque il governo Monti che in 15 mesi porta il Paese dove è oggi, dopo averlo appeso al chiodo della Bce e del Fondo Monetario. Le parole d’ordine sono tagli e rigore, pareggio in bilancio nella Costituzione, fiscal compact e programmi decennali di contenimento del debito sovrano. Ma la cura non sembra funzionare: il debito pubblico aumenta, il contenimento della spesa alimenta la crisi e la disoccupazione, gli stessi impegni assunti con l’Europa si rivelano condizione per l’impoverimento degli italiani. Il tutto per effetto di decisioni di un governo che non è espressione della volontà popolare. Napolitano capisce come cambia il vento e lancia precisi (e inascoltati) moniti: “No tagli alla cieca, impatto su crescita”(31/1/2012), “Spending review ma no tagli indiscriminati” (1/5/2012). 
Dietro al duo Monti-Fornero si accumulano però macerie del rigore cui Napolitano – dalla sua posizione di demiurgo e tutore del governo – poco può concedere (“Esodati, tema da chiarire”,1/5/2012). Mentre i tecnici si fanno sempre più impopolari anche lo spread (il differenziale tra i tassi, termometro della febbre italiana) smentisce la bontà della scelta tecnica. Napolitano lo registra, malcelando un imbarazzo crescente (“Spread inspiegabile, con Monti fiducia cresce”, 5/9/2012). Impossibile per lui fare retromarcia (“Crisi, Italia farà sua parte”, 8/9/2012) e ammettere il fallimento (“Nessuna contraddizione tra austerità e crescita”). Alla fine è Berlusconi a staccare la spina mentre il capo del governo in provetta è folgorato da proprie ambizioni che al Colle causano più di un imbarazzo.
Le urne sanciscono lo stallo e l’irruzione sulla scena politica nazionale del M5S che Napolitano ha ignorato (“Boom? Ricordo solo quello degli anni Settanta”, 8/5/2012) e poi relegato tra le forze eversive e demagogiche (ancora pochi giorni fa, nel riferimento – senza nomi e cognomi ma univocamente interpretato – ai “Moralizzatori fanatici e distruttivi”). Del resto Napolitano non ha mai amato le battaglie dell’antipolitica contro la casta. E infatti i suoi moniti saranno per chi la denuncia, non contro chi la alimenta (“attenti a imprecare contro la casta, dietro c’è il buio di regimi totalitari”,Palermo 8/9/2011). E lo stesso metro ha usato in casa. Il Quirinale, al di là di pochi tagli che sono stati poi riduzioni di personale comandato da altre amministrazioni, è continuato a costare 624mila euro al giorno, 23mila l’ora (in un anno 240 milioni di euro, la Casa Bianca ne costa 136,5, l’Eliseo 112,5 e Buckingham Palace 57). Impossibile fare di più, così Napolitano decide di dare un segnale di persona: il 7 luglio dell’anno scorso una nota del Colle informa della sua rinuncia all’aumento di stipendio su base Istat. Si scoprirà poi che il risparmio era di 68 euro al mese, una rinuncia dal forte valore simbolico.
Sono gli ultimi flash di una presidenza della Repubblica che sembra una monarchia e si chiude invece nel segno dell’impotenza, con un incarico a Bersani fallito (ma non revocato), e l’espediente dei “saggi” a termine, scialuppa per traghettare Pd e Pdl verso un accordo e il suo stesso artefice alla scandenza naturale dell’incarico. Una polemica, tra le altre, ha investito le figure scelte da Napolitano per prender tempo: il numero di donne pari a zero. Quando è stato fatto notare il presidente non ha battuto ciglio, polemica stucchevole. E chi la persegue è in malafede. Proprio un anno fa, del resto, lo stesso Napolitano aveva lamentato davanti ai ragazzi delle scuole di Firenze che “a vedere le percentuali di donne elette in Parlamento in Italia cadono le braccia” (12/5/2011). Quelle tra i saggi sono ancora meno, zero. Il settennato si chiude e Napolitano esce di scena. Non prima d’aver dato ai partiti chiare indicazioni sul suo successore, un presidente che continui il lavoro di tutore dei partiti all’insegna del compromesso, in attesa che il vento dell’ “antipolitica” smetta di soffiare così forte. Re Giorgio, fino alla fine. 
Magistratura-Colle. Le entrate a gamba tesaUn fulmine a ciel sereno, di più, uno schiaffo. Il capo dello Stato, che presiede anche l’organo di autogoverno della magistratura, che interferisce con le indagini sulla trattativa Stato-Mafia, il nodo cruciale di tutta la storia repubblicana. Quando la vicenda investe direttamente il Colle, Napolitano, almeno a parole, si tiene alla larga (per poi sollevare il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo). In realtà già quattro anni prima, nel dicembre 2008, ci fu un suo intervento a gamba tesa con la richiesta alla Procura di Salerno di acquisire gli atti delle indagini che Luigi De Magistris conduceva sul numero due del Csm, Nicola Mancino. Due settimane dopo, quando la polemica esplode sui giornali, Napolitano sceglie la cerimonia di scambio d’auguri con le più alte cariche dello Stato per invocare un guinzaglio ai pm scomodi: “Si pongono con urgenza problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti tra politica e magistratura ed esigenze di misure di riforma volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, rischi di arbitrio e conflitti interni alla magistratura nell’esercizio della funzione giudiziaria, a cominciare dalla funzione inquirente e requirente” (17/12/2008). 
Ma a ben vedere sono innumerevoli i richiami, i moniti, le ruvide prese di posizione verso i magistrati impegnati nelle inchieste su potenti e politici, Berlusconi in primis. Ai tirocinanti ricevuti al Quirinale nel 2008 – presenti il ministro Alfano e il vice del Csm Mancino – Napolitano raccomanda di “non cedere al protagonismo dei media” (12/5/2008). Due mesi dopo nel pacchetto sicurezza di Pdl-Lega spunta un emendamento salva-processi cui manca solo il nome del beneficiario. Il Csm esprime forti perplessità ma ci penserà una lettera di Napolitano a rimettere in riga i consiglieri (“Giustizia, Csm non è giudice costituzionale”,  1/7/2008). E Alfano ringrazia Napolitano perché “riporta il Csm nell’alveo”. Venti giorni dopo un altro monito (“No a spettacolarizzazione dei processi”, 21/7/2008). Ancora due giorni e Napolitano promulga il cosiddetto Lodo Alfano, poi dichiarato incostituzionale. Cinque giorni dopo la firma rincara la dose, offrendo stavolta una sponda al centrodestra sulle intercettazioni (“No all’uso voyeristico”, 28/7/2008). E via con “l’altamente dannoso protagonismo dei pm” e successivi richiami perché “la Magistratura si attenga alle sue funzioni” (27/8/2009). 
Quando si tratta però di difendere i magistrati dalla accuse di Berlusconi, Napolitano non inverte il canone, ma continua a richiamare loro. Sul tavolo del Csm a un certo punto si materializzano quattro pratiche che riguardano gli attacchi del premier ad altrettanti magistrati impegnati nei suoi processi.  Napolitano manda una lettera, non per esprimere loro solidarietà ma per invitare l’assemblea a “discutere in modo equilibrato (…) e di fare un uso responsabile e prudente dell’istituto delle pratiche a tutela dei magistrati (…) il cui uso si giustifica solo quando è indispensabile garantire la credibilità dell’istituzione giudiziaria nel suo complesso da attacchi cosi denigratori da mettere in dubbio l’imparziale esercizio della funzione giudiziaria e da far ritenere la sua soggezione a gravi condizionamenti” (Lettera Csm, 9/10/2009). A fronte di tanti moniti pesano infine tanti atti mancati, silenzi ingombranti. Uno per tutti, la condanna a metà dell’irruzione del Pdl al Tribunale di Milano. Restano invece quelle grazie concesse al di là delle prerogative del Capo dello Stato.
Quella grazia che sfida senso comune e costituzioneSignori si grazia. Per 21 volte Giorgio Napolitano ha fatto ricorso ai propri poteri per concedere altrettanti provvedimenti di clemenza individuale. Non tanti, a dire il vero, i predecessori furono più “generosi” (Scalfaro 339, Ciampi 114). Ma più che i numeri a far discutere sono stati i soggetti beneficiari di una indulgenza che segue esattamente i binari sui quali Napolitano fa scorrere buona parte del suo settennato: quello a destra e quello che corre verso l’Atlantico. Il primo caso che ha fatto discutere ruota intorno al direttore de Il Giornale, quotidiano della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti. Non di grazia si tratta ma di commutazione della pena, si è subito precisato. Ma il risultato è lo stesso: il capo dello Stato di fatto annulla la sentenza di condanna, definitiva, emessa da un giudice a 14 mesi di reclusione per il reato di diffamazione. Solo un disturbo il fatto che nel giorno della grazia la procura di Milano avesse dato parere contrario alla medesima richiesta avanzata da Ignazio La Russa insieme a 328 parlamentari (primo firmatario il segretario del Pdl Angelino Alfano). Sallusti potrà tornare in libertà versando una penale di 15.532 euro. Altrettanto clamorosa la grazia concessa da Napolitano al colonnello Usa Joseph Romano (condannato nel settembre scorso dalla Cassazione a 7 anni per il sequestro Abu Omar).
In occasione di quest’ultimo provvedimento è emersa una questione rimasta a lungo defilata, ovvero se gli atti di clemenza del Capo dello Stato siano conformi alla Costituzione oppure no e quali limiti e prerogative debbano seguire. Risalendo nelle cronache politiche il tema era divenuto oggetto di scontro proprio qualche settimana prima che Napolitano ereditasse il Quirinale da Ciampi. Un anno prima del passaggio di testimone, l’ex capo dello Stato aveva inoltrato al guardasigilli Roberto Castelli la pratica per la grazia a Ovidio Bompressi, ex di Lotta continua condannato a 22 anni con Adriano Sofri per l’omicidio Calabresi. Di fronte al rifiuto di Castelli Ciampi sollevò il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per dirimere un punto controverso: a chi spetta il potere di grazia? Quando e come deve essere esercitato? A rispondere fu una sentenza del 3 maggio 2006 che chiarisce come la grazia presidenziale sia attribuibile per motivi “umanitari” ed “eccezionali” essendo una deroga di fatto al principio di uguaglianza. Chiarisce anche che la scelta non può in nessun modo essere “politica” e precisa infine che debba avvenire a debita distanza di tempo dalla sentenza perché non suoni come una sconfessione del lavoro dei giudici. Ecco, nei casi di Sallusti e di Joseph Romano, la clemenza di Napolitano sembra discostarsi da quei paletti e infrangerli. Ma nella grazia, a volte, quello che conta è chi ringrazia.

mercoledì 17 aprile 2013

Colle, gli 11 presidenti – Pertini, al Colle il socialista che sapeva resistere. - Marco Travaglio


Sandro Pertini


Antifascista, arriva al Quirinale nel 1978. La questione morale era il suo pallino, anche contro il Psi. Craxi mise il cappello sulla sua elezione che, in realtà, ha osteggiato fino all'ultimo.

“Dicevano che giocavamo a perdere. Invece giocavamo a vincere. E con Pertini abbiamo vinto. Oggi, per la prima volta nella storia, va al Quirinale un socialista”. Bettino Craxi tenterà di mettere il cappello sul Presidente Partigiano. Ma la verità è opposta: nel 1978, quando si è trattato di cercare il successore di Giovanni Leone, lui Pertini l’ha osteggiato finché ha potuto. E vi si è rassegnato soltanto in extremis. Pur di non aprire la strada all’ennesimo democristiano, o all’odiatissimo Ugo La Malfa. La campagna presidenziale di 35 anni fa si apre con sei mesi d’anticipo sulla tabella di marcia. Giovanni Leone se ne dovrebbe andare solo a dicembre, ma si dimette sei mesi prima, per mettere fine alla campagna politico-giornalistica delle sinistre. Il 1978 è forse l’anno più nero della Repubblica italiana: i grandi scandali, il nervosismo atlantico per l’ingresso dei comunisti nell’area di governo, il terrorismo che dilaga nelle strade, la strage di viaFani seguita dal sequestro di Aldo Moro, la spaccatura dei partiti tra il fronte della fermezza e quello della trattativa con le Br, e alla fine quella terribile Renault rossa parcheggiata in viaCaetani, a metà strada fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, con il corpo del presidente della Dc crivellato di colpi e rannicchiato nel bagagliaio.
La morte di Moro, candidato numero uno al Quirinale, con le drammatiche dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, è del 9 maggio. L’uscita di scena di Leone, del 15 giugno. I papabili per la successione sono il segretario Dc, Benigno Zaccagnini, il segretario repubblicano La Malfa, i socialisti di sinistra Francesco De Martino e Antonio Giolitti. I primi due portati dal fronte della fermezza (segreteria Dc, Pci, Pri), gli altri due da quello della trattativa, che ruota intorno al Psi. Ma nei primi tre scrutini – quelli che richiedono la maggioranza dei due terzi delle Camere – ciascun partito vota il proprio candidato di bandiera. É ormai la fine di giugno e nemmeno nelle successive votazioni l’impasse accenna a sbloccarsi: altre dodici fumate nere.
Il socialista e il compagno Berlinguer
Per ammazzare il tempo fra una tornata e l’altra, alcuni giovani deputati democristiani organizzano partitelle a calcetto in periferia e rientrano a Montecitorio con la sacca sportiva: tra questi, ci sono un tal Clemente Mastella e un certo Antonio Segni. Craxi, a questo punto, fa la voce grossa con Zaccagnini: “O un socialista (Giolittindr) sale al Quirinale, o il Psi scende dal governo Andreotti”. I toni sono quelli perentori e ricattatori del miglior Ghino di Tacco. E gli altri partiti sembrano d’accordo con lui. Tranne la Dc, che tiene duro su Zac, e il Pri, tetragono su La Malfa. Il leader dell’Edera, come poi Pertini, fa finta di non ambire alla poltrona, e per affettare distacco si trasferisce per qualche giorno in Val d’Aosta annunciando: “Mi sono definitivamente allontanato dalla politica”. Salvo poi ripiombare a Roma non appena si comincia a fare sul serio. Enrico Berlinguer, che i socialisti li detesta (chiama Craxi “il gangster”), ha una sola preoccupazione: se socialista dev’essere il nuovo Presidente, che almeno sia il più lontano possibile da Craxi. Ecco così affiorare, a sorpresa, il nome di Sandro Pertini.
È dagli anni ’50, all’indomani della Resistenza, che questo anziano socialista savonese classe 1896 è considerato una vecchia gloria dallo stesso Psi: un monumento da venerare, ma purchè resti sul piedistallo e soprattutto chiuso in una teca, alla larga da incarichi partitici e governativi, al massimo da issare come una bandiera su una poltrona istituzionale di rappresentanza, come la presidenza della Camera dal 1968 al ’76. A quel punto, pare a tutti che il vegliardo possa ritirarsi in buon ordine. Pochi sospettano che la sua vera carriera politica sta appena per cominciare. Pertini piace ai comunisti per le stesse ragioni che lo rendono inviso a Bettino: predica il “ritorno ai rapporti unitari nella sinistra”, suo vecchio pallino, sferza la nuova generazione socialista, avversa la linea molle dei craxiani sul terrorismo ed è un alfiere della “questione morale” berlingueriana. Ne ha dato prova nel 1974, da presidente della Camera, prima respingendo l’aumento dell’indennità dei deputati (“Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione… voi date quest’esempio d’insensibilità? ‘Io deploro l’iniziativa’, ho detto. ‘Entro un’ora potete eleggere un altro presidente della Camera . Siete 630, ne trovate subito 640 che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo’…”).
E poi schierandosi dalla parte dei tre giovani pretori della sua Liguria – Mario AlmerighiCarlo Brusco e Adriano Sansa – che avevano scoperchiato il primo scandalo dei petroli: i partiti e quasi l’intero Parlamento a libro paga dell’Unione Petrolifera in cambio di leggi fiscali di favore. Mentre politici e grande stampa attaccavano i “pretori d’assalto”, Pertini li ricevette a Montecitorio (ma nella lavanderia, perchè gli uffici erano infestati di microspie, o almeno così lui pensava) e prometteva loro il suo pieno appoggio. E in effetti li difese pubblicamente, come in una memorabile intervista a Nantas Salvalaggio su “La Domenica del Corriere”: “Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione. Non c’è ragione al mondo che giustifichi la copertura di un disonesto, anche se deputato. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo. L’opinione pubblica non lo tollererebbe. Io, neppure. Ho già detto alla mia Carla: tieni pronte le valigie, potrei piantare tutto…Io spero che i documenti dei famosi ‘pretori d’assalto’ siano vagliati con rigore. Spero che tutto sarà discusso in aula, e nessuna copertura sarà frettolosamente inventata dai padrini dell’assegno sottobanco… Mi fanno pena i magistrati e i politici che cercano di tagliare le gambe ai pretori dell’inchiesta sullo scandalo del petrolio. Dicono che sono troppo giovani: ma da quando la giovinezza è un reato? Se mai è un sintomo esaltante e meraviglioso: significa che il Paese ha una riserva di coraggio e di onestà nelle nuove generazioni. E poi, mi creda: questi giovani (beati loro!) sono stati esemplari, rapidissimi. In tredici giorni hanno vagliato quintali di documenti. Hanno perduto ciascuno tre o quattro chili, mi dicono. Ma è quel sudore, quella fatica, che possono ora lavare le macchie dei piccoli e grandi corruttori. Nel mio partito mi accusano di non avere souplesse. Dicono che un partito moderno si deve ‘adeguare’. Ma adeguare a che cosa, santa Madonna? Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo. Meglio allora il partito non adeguato e poco moderno. Meglio il nostro vecchio partito clandestino, senza sedi al neon, senza segretarie dalle gambe lunghe e dalle unghie ultralaccate… Dobbiamo tagliarci il bubbone da soli e subito. Non basta il borotalco a guarire una piaga. Ci sono i ladri, gli imbroglioni? Bene, facciamo i nomi e affidiamoli al magistrato”.
Per questo, quattro anni dopo, non solo Craxi, ma anche la Dc storce il naso su Pertini: a parte l’età (81 anni suonati), il vecchio Sandro puzza di Fronte Popolare distante un miglio (anche se nel 1948 si era opposto all’alleanza Pci-Psi, ritenendola un tragico errore). Così il 2 luglio, nel tentativo di bruciarlo, Craxi lancia Pertini presentandolo come “il candidato di tutta la sinistra”. Il vegliardo però annusa la trappola e l’indomani è lui stesso, furibondo, a chiedere di non essere votato. Mossa geniale. Mentre tutti lo credono fuori gioco, lui – all’insaputa del suo partito – comincia a muoversi in ogni direzione per allacciare i rapporti con i vecchi amici (Alessandro NattaGiorgio Amendola,La Malfa). Giolitti, intanto, tramonta, mentre sembra decollare La Malfa, simbolo vivente del compromesso storico dopo la scomparsa di Moro. Proprio per questo Craxi lo osteggia e, pur di sbarrargli il passo, ripesca Pertini. Anche Andreotti, per evitare che Sandro salga al Quirinale con i voti determinanti dei craxiani, convince la Dc ad appoggiarlo dopo una lunga serie di astensioni. Pertini, con l’aria di quello che non ci tiene, ostenta indifferenza. Ma non si perde un passaggio della partita a scacchi e segue ogni mossa di amici e nemici dalla sua bella casa in piazza Navona. Qui, il 7 luglio, lo raggiunge la notizia che il più è fatto. Non ha mai capito granchè di politicapoliticante, ma stavolta si gioca la partita da maestro. Diffidente, continua a tessere abilmente la sua tela, ma anche a fingersi rassegnato alla sconfitta. E, per rendere più credibile la sceneggiata, prepara i bagagli per le vacanze estive a Nizza che – lo sa benissimo – dovrà rimandare. Dire che l’8 luglio venga colto di sorpresa dall’annuncio dello scrutinio decisivo, sarebbe una bugia. Ma lui lo dice. Affermare che ha già pronto il discorso d’investitura sarebbe la verità. Ma lui lo nega. Mesi dopo rievocherà così quelle ore cruciali, con una dose di sfrontatezza pari soltanto alla simpatia: “Quando mi hanno offerto la presidenza della Repubblica, a 82 anni, io sono diventato pallido come un morto. Questi miei giovani compagni del Psi, invece, quando gli offrono una carica se la prendono senza batter ciglio. Comunque son sicuro che, dei miei 832 elettori, almeno la metà si sono già pentiti”.
L’elezione a sorpresa
Dunque l’8 luglio, al sedicesimo e ultimo scrutinio, Pertini raccoglie 832 voti su 995 (l’83.6%): la maggioranza più ampia mai raccolta fino a quel momento da un presidente della Repubblica italiana. Praticamente l’intero “arco costituzionale”, che taglia fuori soltanto il Msi. Il discorso d’insediamento, l’indomani, è un abile cocktail di antifascismo, resistenzialismo e “partito degli onesti”, con le nobili aggiunte di un ricordo di Moro, un onore delle armi a Leone e un fermo appello contro ogni cedimento al terrorismo. Tutti felici, contenti e plaudenti. Almeno finchè Pertini, uscendo dall’aula, non minaccia sia pure bonariamente: “Chi si illude che io duri poco, se lo levi dalla testa. Mia madre morì a 90 anni, e solo perchè cadde da una sedia. Mio fratello ha felicemente raggiunto quota 94…”.
Indro Montanelli, che abita con la moglie Colette in un attico su Piazza Navona prospiciente le finestre della sua casa, gli invia un telegramma agrodolce di benvenuto sul Colle: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e che si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. Non ne farà granchè tesoro, Pertini, accompagnato da cori di giubilo ed esaltazione dei media, che fanno a gara a esaltare la sua biografia di socialista onesto nato a Stella (Savona), educato dai salesiani, eroe della Grande guerra, socialista e fin da subito antifascista tutto d’un pezzo, compagno di fuga di Filippo Turati, esule in Francia dove si guadagnò da vivere facendo il manovale (“ma il muratore lo fece un giorno solo, e quel giorno riuscì a farsi fotografare”, lo corbellava Nenni), arrestato in Italia nel 1929 e sbattuto in carcere con Gramsci e poi al confino fino al 1943, ardimentoso capo della Resistenza. Su altri particolari più controversi, come il ruolo nella fucilazione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, o le scalmane all’indomani della Liberazione nell’attesa della rivoluzione socialista che per fortuna non venne, o ancora le lodi all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, gli agiografi sorvolano. Così come sorvoleranno sui molti strappi alla Costituzione che costelleranno la presidenza Pertini, inaugurando quel presidenzialismo strisciante a base di “esternazioni” a ruota libera, poi ampiamente sviluppato e istituzionalizzato da CossigaScalfaro e – dopo la parentesiCiampi – Napolitano.
La presidenza Pertini è un lungo terremoto durato sette anni. Nel Quirinale un po’ graveolento lasciato da Leone & famiglia, o almeno dalla loro rappresentazione mediatica che vi ha aggiunto del suo, il vecchio Sandro porta odore di bucato: la sua onestà è unanimemente riconosciuta, la sua immagine di bonarietà rigorosa è quel che ci vuole per restituire un po’ di prestigio e di popolarità alle istituzioni. Il suo settennato non sarà mai sfiorato dall’ombra di uno scandalo e registrerà – tra i non pochi pregi – quello di aver rotto il quarantennale monopolio della Dc su Palazzo Chigi con la nomina dei due primi governi a guida laica: prima quello di Giovanni Spadolini (dopo un vano incarico a La Malfa), poi quello di Craxi (che si presenta al Quirinale in blue jeans, e lui lo rispedisce a casa a cambiarsi: “Vai, vai, ne riparliamo più tardi”). In più Pertini, diversamente da Leone, non tiene famiglia: non ha figli, e la moglie Carla Voltolina, donna schiva e bizzarra ai limiti della scontrosità, non metterà mai piede a Palazzo e non poserà mai da first lady, evitando di aggiungere altre dosi di sale e pepe a quelle che l’intemperante marito semina in giro per l’Italia e per il mondo. Perchè lui, Sandro, è un gaffeur da competizione. Gaffes lungamente studiate a tavolino, le sue, come quelle di Mike Bongiorno, per apparire ancor più spontaneo, scomodo e vicino alla gente di quanto già non sia di suo. Il “nonno degli italiani”, assecondato e incoraggiato da una stampa conformista e da una classe politica che tenta di usarlo come foglia di fico (Guido Ceronetti definisce il fenomeno “papagiovannificazione”, e anche Montanelli non perde occasione per canzonare il suo voluttuoso presenzialismo mediatico), bacia migliaia di bambini, abbraccia decine di migliaia di madri e nonne, lacrima copiosamente a migliaia di funerali, intralcia i soccorsi in varie sciagure: dal pozzo di Vermicino al terremoto in Irpinia. E proprio nei giorni del disastro avellinese va in tv ad accusare, in un famoso messaggio alla Nazione, di collusione col sisma il governo da lui stesso nominato e la classe politica di cui ha sempre fatto parte.
Ma è questo anche il bello di “nonno Sandro”: avvicinare un’istituzione fino ad allora lontana e irraggiungibile, il Quirinale, alla gente comune che dei “politici” ha smesso di fidarsi da un pezzo. Anche perchè Pertini, col suo pane al pane e vino al vino, dà l’impressione di credere a quel che dice. E, anche quando piange, di non farlo a comando. Piange nell’agosto 1980 in piazza Maggiore a Bologna, accanto al sindaco Renato Zangheri, per i funerali delle vittime della strage. Piange nel giugno 1984, quando si ritrova a Padova dove Berlinguer s’è appena sentito male nel famoso comizio. Arriva fra i primi in ospedale e, insieme a Tonino Tatò, si fa portare nella stanza dove il leader comunista è intubato alle macchine. Si fa allestire una stanza, ha un lieve malore ma non si muove di lì, ascolta i medici dire che non c’è più niente da fare, piange e conforta i famigliari: “Lo porto a casa io, come un fratello, un amico. Un compagno di lotta”. Si carica la bara del compagno Enrico sull’aereo presidenziale e l’accompagna ai funerali in piazza San Giovanni, il 13 giugno, con un milione di persone, ancora in lacrime.
Diplomazia a stile libero
Per converso, gl’incidenti diplomatici provocati dalle sue esternazioni pesudo-improvvisate non si contano. Confonde il Guatemala col Nicaragua. Imputa la strage di Sabra e Chatila agli israeliani anzichè ai falangisti libanesi. Tira in ballo l’Urss come mandante delle Br senza uno straccio di prova. Fraternizza con papa Wojtyla come se fosse il cappellano del Quirinale. Confida alla stampa di aver saputo da re Hussein di Giordania che il capo druso Jumblatt è un morfinomane. Annuncia il ritiro del contingente italiano dal Libano senza che il governo ne sappia nulla (“me l’ha detto coso”: che, per la cronaca, è il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini). Quando muore Berlinguer, trasforma i funerali in un mega-spot elettorale che frutta al Pci il sorpasso sulla Dc alle elezioni europee. Quando defunge il presidente sovietico Cernenko, non proprio un campione di democrazia, interrompe una visita ufficiale in Sudamerica per volare a Mosca a piangere sulla sua bara. E quando i controllori di volo Alitalia – ufficiali dell’Aeronautica – entrano in sciopero, anzichè farli arrestare come comandante delle Forze Armate per violata consegna, li riceve al Quirinale per avviare una mediazione col governo.
Egocentrico, estroverso, collerico, intollerante verso qualunque cenno di dissenso, Pertini si affaccia informale a ogni Capodanno nelle case degli italiani con la pipa e il caminetto accesi, menando fendenti a destra e a manca. Memorabile il discorso di fine 1981, l’anno della scoperta della loggia P2: “Questa P2 ha turbato, inquinato la nostra vita. Non mi interessa per ora se cada o non cada sotto il codice penale. Io guardo a un altro codice, che è il codice morale, il codice che ogni uomo, specialmente di ogni uomo politico, dovrebbe portare scritto nella sua coscienza. Ebbene, la P2 cade sotto questo codice morale. Vi è un proverbio che si usa dire: la moglie di Cesare non dev’essere sospettata, ma prima di tutto è Cesare che non dev’essere sospettato. E allora ogni sospetto devono allontanare dalla loro persona gli uomini politici: non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato in questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica. E quindi coloro che ne facevano parte dovranno risponderne prima di tutto dinanzi alla loro coscienza, ai loro partiti e soprattutto dinanzi al Parlamento. Non vi può essere in questo caso alcuna comprensione e alcuna solidarietà. Ripeto quel che ho detto altre volte: qui le solidarietà personali, le solidarietà di partiti diventano complicità”.
Altre volte i fulmini di Pertini si appuntano contro contro i “suoi” stessi governi, costringendo poi il Presidente a precisazioni imbarazzate e a contorsionismi diplomatici “riparatori” con gli esecutivi offesi dalla sua furia fanciullesca. Un giorno il povero Maccanico, spinto dalle segreterie dei partiti dopo una delle dirompenti esternazioni dell’arzillo misirizzi, gli telefona a Selva di Val Gardena dov’è in vacanza: “Forse, Presidente, se mi posso permettere, troppe interviste potrebbero danneggiarla”. E subito viene investito dalla trillante vocetta dall’altro capo del filo: “Io parlo con chi voglio, di cosa voglio, quante volte voglio!”. Epico il burrascoso licenziamento, dopo soli due anni, del suo capufficio stampa Antonio Ghirelli, grande giornalista napoletano: accade nel 1980, quando una nota del Quirinale annuncia la richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno Cossiga, accusato di favoreggiamento nei confronti di Marco Donat-Cattin, figlio del leader democristiano Carlo e terrorista di Prima Linea, sfuggito all’arresto grazie a una soffiata. Ghirelli rivelerà anni dopo di aver offerto le proprie dimissioni d’accordo con Pertini, in seguito alla solita sfuriata del Presidente, per tutelare un giovane collaboratore che aveva vergato il comunicato al posto suo. L’ultima catastrofe è la grazia concessa in tutta fretta da Pertini a Flora Pirri Ardizzone, una terrorista rossa condannata per associazione sovversiva, ma molto speciale: è la figlia di Ninni, seconda moglie di Emanuele Macaluso. E molti commentano: cosa non si fa per gli amici. Ne vien fuori un putiferio e il segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, è costretto ad addossarsene tutta la colpa. Nel 1985, a fine settennato, i partiti esausti respingono al mittente le perentorie avances dell’arzillo ottantottenne per essere riconfermato. E votano in massa per Francesco Cossiga. Il mite, il taciturno, il riservato, il notarile Cossiga. Insomma, l’Antipertini. O almeno così credono. Se ne accorgeranno.
da Il Fatto Quotidiano del 15 aprile 2013