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venerdì 19 giugno 2015

Pasticcio Ice: conti pignorati per pagare gli ex dipendenti Buonitalia. - Anna Morgantini

Pasticcio Ice: conti pignorati per pagare gli ex dipendenti Buonitalia

Ufficiali giudiziari all'attacco presso Monte dei Paschi e Poste italiane. Dove l'Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane hai suoi depositi. E' l'ultimo atto della querelle giudiziaria avviata dopo la chiusura della società del ministero delle Politiche agricole. Avvenuta in seguito all'allegra gestione dell'era Zaia.

Ufficiale giudiziario in azione e conti pignorati per mezzo milione di euro. E siamo solo all’inizio: il pasticcio Buonitalia – in breve, 19 persone che verranno pagate per non lavorare – rischia di costare ai contribuenti italiani almeno un paio milioni. Merito dell’Ice-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (nota ai più come ex Ice, il vecchio Istituto per il commercio estero), sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del dicastero dello sviluppo economico. Due settimane fa l’ufficiale giudiziario ha bussato al Monte dei Paschi di Siena, filiale di via Franz Liszt 21, e alla sede di Poste Italiane, in viale Europa, dove l’Agenzia dispone di conti correnti e fondi di investimento, e ha consegnato i primi atti di pignoramento per conto di tre ex dipendenti Buonitalia. E per la gioia di Riccardo Maria Monti, il presidente dell’Agenzia-Ice, altri costosi decreti ingiuntivi sono in arrivo nei prossimi giorni.
La storia è surreale. Buonitalia era la società creata dal ministro An all’Agricoltura Gianni Alemanno per la promozione all’estero dei prodotti agroalimentari italiani. E’ stata chiusa nel 2011 per via della gestione allegra all’epoca di Luca Zaia, ma il decreto di soppressione prevedeva il trasferimento di funzioni, fondi e personale all’Agenzia-Ice. L’Ice era un altro carrozzone di Stato soppresso da Giulio Tremonti nel 2011 e resuscitato da Corrado Passera nel 2012, che gli ha cambiato nome e ha poi messo a dirigerlo Monti, un suo vecchio amico di famiglia. Bene: soldi e funzioni di Buonitalia Monti se li è presi, ma i 19 dipendenti, nonostante la carenza di organico lamentata dall’Agenzia e nonostante la loro evidente specializzazione nel made in Italy agroalimentare, li ha lasciati a spasso.
E a spasso sono tuttora. Così, mentre l’Agenzia procedeva a nuove assunzioni senza gare o concorsi (ilfattoquotidiano.it ha segnalato anche il caso anomalo di un portavoce da 105 mila euro) i 19 hanno dato il via a una vera e propria guerra giudiziaria: il 31 luglio 2013 il tribunale del lavoro di Roma ha dichiarato l’illegittimità del loro licenziamento; il 13 gennaio 2014 il Tar del Lazio ha accertato l’inadempienza dei ministeri competenti condannandoli a “provvedere entro 60 giorni” all’assunzione dei “buonitaliani”, previa verifica della loro idoneità; il 28 gennaio 2014 l’Agenzia-Ice è stata condannata a “dare immediata attribuzione alle disposizioni illegittimamente disattese e ad assumere i ricorrenti”, come spiega in un’interrogazione il senatore Aldo Di Biagio (AP). Il 7 ottobre il giudice del Lavoro Capaccioli ha dato ragione, per l’ennesima volta, a cinque ex dipendenti di Buonitalia, imponendo all’Ice di immetterli in ruolo e risarcirli degli stipendi mancati. Risultati? Zero.
Nessuna risposta neanche ai decreti ingiuntivi (rispettivamente per 100 mila euro, 150 mila e 250 mila euro) presentati da tre ex dipendenti. La palla è così passata all’ufficiale giudiziario, che ha pignorato presso le banche «conti correnti e/o titoli e/o azioni e/o obbligazioni e comunque qualsiasi altra somma dovuta, a qualsiasi titolo, a Ice-Agenzia (…) fino alla concorrenza della somma precettata».
Ma la somma rischia di lievitare ancora. I risarcimenti di cui sopra, infatti, riguardano solo il periodo intercorso tra il decreto di trasferimento del personale e l’avvio della «procedura di idoneità selettiva» nel dicembre 2014. Una specie di concorso, diciamo. Ma secondo quanto denunciato in due diverse interrogazioni dal senatore Di Biagio e dal deputato Massimo Fiorio (Pd), la Commissione ha dichiarato “non ammissibili” tutti i candidati provenienti da Buonitalia. Da qui: nuovi ricorsi al Tar, nuovo lavoro per gli avvocati, nuovo calvario per i senza lavoro. E, oltretutto, nuove spese in arrivo per i contribuenti. Totale previsto, a spanne, sui 2 milioni di euro. Soldi pubblici. Con un paradosso finale: “Tali somme saranno corrisposte dall’Ice a fronte di nessuna prestazione di lavoro”, commenta amaro Di Biagio. Insomma, gli ex dipendenti di Buonitalia, alla fin fine, verranno pagati per non aver potuto lavorare, nonostante ci abbiano provato a tutti i costi. Dirà qualcosa, la Corte dei Conti, al momento di approvare il bilancio dell’Agenzia? E, soprattutto, chiederà conto a qualcuno dell’eventuale danno erariale?

mercoledì 1 aprile 2015

Tremonti, inviata a Senato richiesta di autorizzazione a procedere per corruzione.

Tremonti, inviata a Senato richiesta di autorizzazione a procedere per corruzione

L'ex ministro dell'Economia è accusato dalla Procura di Milano di aver incassato da Finmeccanica una tangente da 2,4 milioni nel maggio 2008, per ottenere il via libera all'acquisizione del gruppo statunitense Drs, nonostante un primo parere negativo. Ora la decisione passa a Palazzo Madama.

La procura di Milano ha inviato in Senato la richiesta di autorizzazione a procedere per Giulio Tremonti in relazione a una presunta tangente che gli sarebbe stata versata da Finmeccanica nel maggio del 2008, quando era ministro dell’Economia, per ottenere, dopo un parere negativo, il via libera all’acquisizione del gruppo statunitense Drs, fornitore anche del Pentagono. Tremonti è indagato per corruzione e per una presunta tangente di 2,4 milioni di euro.
Lo scorso ottobre, con l’invio degli atti al Tribunale dei Ministri i pm hanno dato forma all’inchiesta a carico di Tremonti e che vede indagati anche il socio dello studio tributario fondato dal senatore, il professionista Enrico Vitali, oltre all’ex presidente e all’ex direttore finanziario di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini e Alessandro Pansa.
Il Tribunale dei Ministri di Milano dopo aver ricevuto gli atti dell’inchiesta dalla Procura (come prevede la legge, dato che Tremonti all’epoca era ministro), aveva ordinato ai pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi, titolari delle indagini, di chiedere l’autorizzazione a procedere al Senato per andare avanti con il procedimento. E, da quanto si è saputo, la richiesta, firmata anche dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, è stata trasmessa al Senato e dovrà essere valutata, in prima battuta, dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere.
L’indagine, coordinata dagli stessi pm che, tra l’altro, sempre a fine ottobre avevano disposto la perquisizione dello studio “Tremonti, Vitali, Romagnoli, Piccardi e Associati” per un’altra inchiesta legata ad un presunto riciclaggio di denaro dell’ex deputato Marco Milanese, ha preso il via in seguito alle dichiarazioni rese nel 2010 al pm di Roma Paolo Ielo dall’ex consulente di Finmeccanica, Lorenzo Cola. Quest’ultimo a verbale aveva associato il cambio di rotta e l’ok di Tremonti all’operazione Finmeccanica-Drs ad un parcella milionaria liquidata dalla holding di Stato allo studio dei soci dell’allora ministro per una consulenza fiscale. Parcella che, è l’ipotesi degli inquirenti milanesi, sarebbe servita a mascherare in realtà la tangente da oltre 2 milioni di euro.
Il Tribunale dei Ministri, poi, a fine gennaio ha deciso di trasmettere di nuovo gli atti ai pm affinché chiedessero, come prevedono le norme, l’autorizzazione a procedere nelle indagini nei confronti del senatore Tremonti. Il Senato dovrà valutare se dare il via libera alla prosecuzione del procedimento e potrà bocciare la richiesta nel caso ritenga sussistente un ‘fumus persecutionis’ nei confronti dell’ex ministro.

giovedì 30 ottobre 2014

Corruzione, Tremonti indagato a Milano. “Prese tangente da Finmeccanica”.

Corruzione, Tremonti indagato a Milano. “Prese tangente da Finmeccanica”

Il Corriere della Sera rivela che, secondo i pm, nel 2009 l'allora ministro dell'Economia ha ricevuto 2,4 milioni di euro per dare il via libera all'acquisizione della società americana Drs da parte del gruppo. Di cui lo stesso Tesoro ha il 30%.

L’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti è indagato dalla Procura di Milano per l’ipotesi di reato di corruzione. Nel marzo 2009, durante il quarto governo Berlusconi, avrebbe ricevuto una tangente da 2,4 milioni di euro dal gruppo Finmeccanica, controllato dallo stesso Tesoro, per dare il via libera all’acquisto della società Usa Drs. A rivelarlo è il Corriere della Sera, secondo cui entro 15 giorni gli atti sul caso saranno trasmessa al Tribunale dei ministri di Milano. I Carabinieri hanno perquisito lo studio legale tributario milanese dell’ex ministro, che si è difeso dicendo di non aver “mai chiesto o sollecitato nulla”.
Il quotidiano di via Solferino spiega che la tangente sarebbe stata “mascherata” da parcella professionale versata dal gruppo dell’aerospazio e della difesa, per una consulenza fiscale, allo studio tributaristico Vitali Romagnoli Piccardi & Associati, che Tremonti ha fondato e che formalmente aveva lasciato una volta assunto l’incarico di ministro. Oggi Tremonti, che lo scorso aprile ha patteggiato a Roma 4 mesi (convertiti in pena pecuniaria) per finanziamento illecito legato all’affitto di una casa messa a disposizione dal suo ex consigliere Marco Milanese, ne è di nuovo socio.
Insieme a Tremonti sono indagati dai pm di Milano Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi, l’ex presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini (indagato anche a Roma per false fatturazioni nell’indagine sui bus e appena rinviato a giudizio a Napoli nell’inchiesta sui fondi neri legati al sistema Sistri), Alessandro Pansa, ex direttore finanziario di Finmeccanica, e Enrico Vitali, uno dei soci dello studio dell’ex ministro.
La vicenda della presunta tangente non è nuova: nel 2010 l’ex consulente di Finmeccanica Lorenzo Cola (condannato 3 anni e 4 mesi poi patteggiati per un’altra vicenda), in un interrogatorio davanti al pm romano Paolo Ielo ha collegato il cambio di atteggiamento del ministro Tremonti sull’acquisizione della società fornitrice del Pentagono proprio alla parcella liquidata da Finmeccanica allo studio dei soci del ministro.

giovedì 9 gennaio 2014

Anche con Enrico Letta Palazzo Chigi paga affitti d’oro: 13,4 milioni di euro nel 2013. - Carlo Tecce

Anche con Enrico Letta Palazzo Chigi paga affitti d’oro: 13,4 milioni di euro nel 2013


Lo Stato ha un patrimonio immenso di caserme, capannoni, palazzoni, allora perché Palazzo Chigi, l’essenza statale e politica, spende 13,4 milioni di euro l’anno in “locazioni di vario genere”? Ai calcoli, la giusta sentenza: le stagioni dei tecnici e lettiani, ultimo triennio, fanno risparmiare quasi 6 milioni di euro.

Giulio Tremonti e pure Silvio Berlusconi: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Mario Monti e la truppa di ministri con il loden: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Enrico Letta e i collaboratori di larghe intese: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Non va buttato il tempo per notare le differenze: non ci sono. Vendere per fare cassa, non fa difetto il buon proposito, però affittare perché?
Lo Stato ha un patrimonio immenso di caserme, capannoni, palazzoni, allora perché Palazzo Chigi, l’essenza statale e politica, spende 13,4 milioni di euro l’anno in “locazioni di vario genere”? Ai calcoli, la giusta sentenza: le stagioni dei tecnici e lettiani, ultimo triennio, fanno risparmiare quasi 6 milioni di euro.
La crescita, esponenziale e incontrollata, l’aveva provocata il Cavaliere: 2011, a ogni sottosegretario veniva affidato un appartamento di lusso. Esempio: Daniela Santanchè, Attuazione del programma, occupava un panoramico ufficio in piazza di Montecitorio. Il governo di Berlusconi sforava con leggerezza i 20 milioni di euro. Più di un terzo degli odierni 13,4 milioni di euro sono per la Protezione civile: via Vitorchiano di proprietà di Roberto Amodei e famiglia (editori del Corriere dello Sport), un cubo di cemento e vetrate, in zona a rischio allagamenti, costa 4,454 milioni di euro. I mezzi sono adagiati in via Affile; scrutato un groviglio di numerose società, s’arriva a banca Bnl: vale 1,219 milioni di euro.
Va segnalato che il professor Mario Monti, che pure aveva ridotto di parecchio la spesa in locazioni, ha stipulato un contratto da 1,6 milioni di euro con Unicredit per palazzo Verospi, storico e centrale, via del Corso. Propri lì, fra affreschi e capitelli, il sottosegretario Giovanni Legnini (editoria) riceve, e le foto lo testimoniano, illustri ospiti e delegazioni.
In via dell’Umiltà, non lontano dall’ex sede dei berlusconiani, il governo ospita la stampa estera: 1,8 milioni di euro, considerati troppi dai dirigenti governativi. Il segretario generale di Chigi, sfruttando l’articolo di legge inserito con fatica nel Milleproroghe contro gli affitti d’oro, vuole disdire gli accordi pluriannuali per via della Vite e via dei Laterani: una limatura da 870.000 euro. E grazie a quel comma che il Movimento Cinque Stelle ha proposto e il Partito democratico ha compreso con ritardo, Palazzo Chigi vorrebbe ridiscutere le tariffe per (almeno) tre palazzi. Anche i 310.000 euro per il parcheggio di Pozzo Pantaleo potrebbe traslocare altrove (e gratis) scegliendo una nuova e vicina destinazione fra le infinite proprietà dello Stato: Palazzo Chigi vuole comprare dal demanio militare. Disperso fra la lista d’acquisti per caffè, acqua minerale effervescente o naturale e tende con ricami, mister spending review Cottarelli ancora non ha toccato la pratica immobili di Chigi (o dei ministeri).
Dai 20 milioni di Berlusconi ai 13,4 milioni di Letta, che l’anno prossimo saranno 12: lo spreco diminuisce, però resta. Così non sarà credibile per un presidente del Consiglio, affiancato con seriosità dal ministro di turno, far notare che “il patrimonio pubblico è troppo, inutilizzato e va dismesso”. Non s’è mai visto un ricco immobiliarista che prende qua e là palazzi in affitto.

domenica 27 ottobre 2013

Condono fiscale, buco da 3,5 miliardi tenuto nascosto per undici anni. - Marco Palombi

Condono fiscale, buco da 3,5 miliardi tenuto nascosto per undici anni


Il provvedimento ideato da Tremonti e Berlusconi del 2002 doveva portare 5,2 miliardi. La Corte dei Conti scopre che ne sono arrivati solo 1,8. Ora il governo, per coprire la voragine nei bilanci pubblici, vuole tornare dagli evasori che non hanno mai versato il dovuto per battere cassa.

Vi ricordate il condono fiscale tombale del 2002 di Berlusconi e Tremonti? Ebbene, è ancora vivo e lotta insieme a noi: è tanto vero che – a undici anni dall’approvazione – si scopre che i “condonati” hanno pensato bene di non pagare tutto il dovuto (anche se, ora, potrebbero avere una brutta sorpresa). Secondo un documento della Corte dei Conti – richiesto dal presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, mentre si lavorava sull’ultimo Documento di economia e finanza – al 10 settembre di quest’anno mancano all’appello la bellezza di tre miliardi e mezzo di euro circa.
Secondo la magistratura contabile, il gettito complessivo per sanare definitivamente ogni irregolarità sull'IrpefIrpeg, addizionali regionali, Ilor e quant’altro al dicembre 2002 doveva essere complessivamente di 26 miliardi: non si tratta di una previsione, ma del calcolo di quanto dovuto da chi ha aderito al condono ricevendo in cambio benefici come un sostanzioso sconto sulle tasse non pagate e la cancellazione di eventuali reati fiscali. Peccato che poi parecchi abbiano deciso di non pagare tutto, cioè di evadere sull’evaso. D’altronde la legge pareva scritta apposta per farlo: il condono, infatti, si considerava completato dopo aver pagato la prima rata. Di più: a chi sceglieva di rateizzare non si chiedeva alcuna fideiussione sul rimanente debito con l’erario.
Risultato: se uno dopo la prima rata non pagava più, partiva la solita catena per la riscossione coatta tra Agenzia delle Entrate ed Equitalia; il tizio però nel frattempo non poteva essere accusato per i reati eventualmente commessi né gli si potevano applicare le multe cancellate dal condono.
La cosa venne fuori nel novembre 2008: su 26 miliardi ne abbiamo riscossi meno di 21, mise a verbale la Corte dei Conti. Per la precisione mancano all’appello 5,2 miliardi, il 16,2 per cento del totale al netto di sanzioni e interessi. Il governo, che poi era lo stesso che aveva fatto il condono, reagì sgomento: impossibile, inaudito, adesso ci pensiamo noi, gli espropriamo tutto. Siamo alla manovra del 2010, quando la commissione Ue comincia a spingere per l’austerità. Lì Tremonti si gioca il tutto per tutto: entro ottobre del 2011 l’Agenzia delle Entrate deve “effettuare una ricognizione” dei contribuenti che non abbiano ancora provveduto ai pagamenti e avviare nei trenta giorni successivi le procedure di riscossione coatta.
Bene così, problema risolto. O quasi: nell’estate 2011 Tremonti prorogò il termine al 31 dicembre 2012 e poi, tanto per stare tranquilli, Monti decise di fissarlo alla fine del 2013. D’altronde mica è una cosa così facile capire chi ha pagato e chi no: il condono del 2002 in qualche caso – almeno 34 mila contribuenti – fu addirittura anonimo, modello “scudo fiscale”. Alla fine, insomma, in sei anni si è riusciti a recuperare 1,8 miliardi (comprensivi, peraltro, di sanzioni e interessi per i ritardi sulle rate). E i benefici del condono? Sono ancora là.
E qui veniamo all’oggi. Quei tre miliardi e mezzo che mancano all’appello sono tornati d’attualità mentre gli uffici del Tesoro e le commissioni parlamentari consumavano gli occhi per far tornare i conti del Def: conti, sia detto per inciso, che per il 2013 tornano solo perché finora agli atti risulta che dovremo pagare la rata dell’Imu di dicembre per complessivi 2,4 miliardi di euro. In quei giorni, come detto, Francesco Boccia chiese alla Corte dei Conti notizie sull’annosa vicenda del condono tombale del 2002 scoprendo quei 3,4 miliardi dimenticati: “Adesso le proroghe sono finite – spiega al Fatto Quotidiano il deputato del Pd – e dobbiamo fare di tutto, già nella legge di stabilità, per recuperare i soldi: la prima cosa è prevedere che chi non è in regola coi pagamenti perde subito i benefici del condono, poi studieremo se applicare penalizzazioni accessorie”.
In sostanza, chi non ha pagato le rate dopo la prima potrebbe non solo trovarsi a dover sborsare tutte le tasse dovute senza alcuno sconto (anche cinque volte più di quanto pattuito a suo tempo), ma pure finire sotto la lente della magistratura per eventuali reati fiscali. Si vedrà, ma va detto che i precedenti non lasciano ben sperare: come ha rivelato l’Agenzia delle Entrate nel 2005, in sessant’anni di condoni solo quelli del 1989 e del 1992 hanno rispettato le previsioni di gettito.

giovedì 5 settembre 2013

Ior, nell’archivio di Gotti Tedeschi trattative segrete tra Vaticano e Pdl.

Vaticano


Da Alfano a Tremonti, così si mettevano d'accordo sulle leggi. Agli atti delle procure scambi su leggi, Ici Chiesa, nomine Rai e San Raffaele fra i massimi rappresentanti di Santa Sede e Cei negli anni di Ratzinger e i vertici del centrodestra durante il governo Berlusconi e Monti.

Trattative segrete tra Vaticano e Pdl nell’archivio segreto dell’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi. Lo dimostrano migliaia di email, lettere e raccomandazioni fra i massimi rappresentanti di Santa Sede e Cei negli anni del Pontificato Ratzinger e i vertici del Pdl durante i governi Berlusconi e Monti. Un archivio agli atti di tre Procure: Napoli, Roma e Busto Arsizio che indagano sulla banca del Vaticano e il suo ex numero uno, licenziato dal Cardinal Bertone poco prima dell’inizio di Vatileaks.
Nelle 40mila pagine di corrispondenza, riportate da diversi quotidiani italiani, si va dalle lettere dell’ex sottosegretario Alfredo Mantovano, che a monsignor Angelo Bagnasco chiedeva suggerimenti per la stesura della legge sul testamento biologico, alle contrattazioni con la Cei, sollecitate dall’allora ministro Giulio Tremonti, per risolvere il problema dell’Ici. E ancora le lettere di raccomandazione, come quella per la nomina di Lorenza Lei a dg della Rai. Sul testamento biologico il 6 febbraio 2011 Alfredo Mantovano scrive a Gotti: “Caro Ettore, perdonami, ma sulla questione del testamento biologico vi è necessità che dalla Cei vi sia qualche segnale”, chiedendo una “valutazione” sulla lettera scritta a Bagnasco.
In merito all’Ici, il 30 settembre 2011 Gotti invia al cardinale Bertone un documento “riservato e confidenziale di sintesi del problema Ici” e specifica che la memoria “mi è stata suggerita riservatamente dal ministro Tremonti”. Sottolinea il rischio che la Comunità europea, dopo aver avviato “una procedura contro lo Stato italiano per aiuti di Stato non accettabili alla Chiesa Cattolica”, potrebbe imporre “il recupero delle imposte non pagate dal 2005”. E suggerisce “tre strade percorribili: abolire le agevolazioni Ici (Tremonti non lo farà mai); difendere la normativa passata (strada non percorribile); modificare la vecchia norma. Il tempo disponibile per interloquire – prosegue – è molto limitato. Il responsabile Cei che finora si è occupato della procedura è monsignor Rivella. Ci viene suggerito di incoraggiarlo ad accelerare un tavolo di discussione conclusiva dopo aver chiarito la volontà dei vertici della Santa Sede”.
Sul fronte delle raccomandazioni, l’11 marzo 2011 Gotti scrive a Bertone e suggerisce di “interloquire con la Lega”, che “vuole contare in Rai”, per sostenere la candidatura di Lorenza Lei a dg. “Risulta che la dottoressa Lei avrebbe in un paio di occasioni sussurrato che il cardinal Bertone ha ricevuto assicurazioni da Berlusconi sulla sua nomina. Queste dichiarazioni hanno però provocato una certa opposizione interna ed esterna a detta designazione Oltretevere”. Quanto al San Raffaele, poco prima del terremoto giudiziario Gotti scrive a padre Georg: “Il professore Giovanni Maria Flick, in qualità di consigliere di amministrazione della Fondazione San Raffaele, da tempo esprime disagio verso la gestione dell’attuale processo. Questo disagio lo ha anche più volte esternato senza esito”. Padre Georg risponde subito, ma l’appuntamento viene rinviato.

venerdì 26 aprile 2013

Dalla Fondazione Craxi a quella di Brunetta: tutti i regali di Monte Paschi. - Davide Vecchi


Dalla Fondazione Craxi a quella di Brunetta: tutti i regali di Monte Paschi


Dalle casse della fondazione dell'istituto di credito senese sono usciti un mare di soldi nell'era Mussari-Mancini. 'Doni' milionari a esponenti di destra e di sinistra, contributi ai sindacati, alle organizzazioni religiose e alle associazioni degli amici.

Dalla fondazione Ravello, oggi presieduta dall’attuale capogruppo del Pdl, Renato Brunetta, alla Giuseppe Di Vittorio della Cgil. Dai circoli Arci alla fondazione Craxi, fondata e presieduta da Stefania. Dai bonifici per l’ex senatore del Pdl, ora candidato sindaco a Pisa e storico braccio destro dell’ex ministro Altero Matteoli, Franco Mugnai (legale nel caso Ampugnano). Poi fondi a tutte le amministrazioni a guida Pd della Toscana. A partire dalla Regione fino a numerosi Comuni. Tranne uno: Gagliole, l’unico con un’amministrazione di centrodestra.
A scorrere le 400 pagine di estratto conto della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, degli anni compresi tra il 2007 e il 2009, si ricostruisce la fitta rete di sovvenzioni ed erogazioni distribuite ad amici e non. Per lo più si tratta di fondazioni, enti, amministrazioni targate centrosinistra. Ma Giuseppe Mussari, già passato alla guida di Rocca Salimbeni, guardava a Roma. All’Abi, dove approda nel 2010, ma anche al Palazzo nel quale sa di poter confidare in rapporti trasversali, da Giuliano Amato a Giulio Tremonti. Siena doveva essere solo un trampolino di lancio, come spiegano negli atti i pm titolari dell’inchiesta sull’acquisto Antonveneta, Aldo Natalini, Antonino Nastasi e Giuseppe Grosso. Banca e fondazione un utile portafoglio. Si sponsorizza tutto. Dai circoli ricreativi alle associazioni politiche, come la Karl Popper che, di matrice socialista, appoggia, negli anni, i due sindaci Maurizio Cenni e Franco Ceccuzzi. Quest’ultimo costretto a rinunciare a ricandidarsi perché avrebbe raggiunto un accordo di spartizione con Denis Verdini. L’indagine è ancora in corso.
Da Siena i soldi vanno anche a Lecce: arcidiocesi (120 mila euro), varie onlus e 50 mila euro alla provincia. Guidata da Antonio Maria Gabellone, ex Dc oggi Pdl, legato a Vincenzo De Bustis e, in particolare a Lorenzo Gorgoni, membro del Cda di Mps. Ma è anche terra politica di Massimo D’Alema e della Banca 121 acquistata da Rocca Salimbeni. I versamenti sono compresi tra i diecimila euro e i due milioni, che vanno alla fondazione Ravello, per un importo complessivo che sfiora il miliardo e che si perde nel totale delle uscite della Fondazione: 17.983.686.939 euro complessivi di movimentazione in 36 mesi. Per lo più dovuta alle operazioni di compravendita sui mercati in vista dell’aumento di capitale per l’acquisto di Antonveneta.
Alimentata dai fondi versati all’Università cittadina, alle società del Comune e di sviluppo, alla diocesi, alle contrade del Palio. Fino ad assottigliarsi e perdersi in mille rivoli con bonifici da 50 mila euro anche a singoli preti. Meglio assicurarsi la buona parola di tutti. Tra i 3 miliardi versati per l’aumento di capitale per l’acquisto di Antonveneta ai piccoli bonifici ci sono, ad esempio, uscite per dieci milioni alla Cressidra Sgr Spa, un gestore di fondi chiusi riservati nonché azionista di Anima Sgr insieme a Banca Popolare di Milano, Credito Valtellinese e la stessa Banca Monte dei Paschi. Rocca Salimbeni condivide con Anima il presidente dei sindaci: Tommaso Di Tanno, oggi indagato. Tra i più noti tributaristi italiani, legato ai Ds, in particolar modo a D’Alema e Vincenzo Visco, di cui è stato consigliere economico in via XX Settembre, Di Tanno non si è accorto della voragine che Mussari, Gianluca Baldassarri e Antonio Vigni, hanno creato in Mps. E’ stato anche revisore dei bilanci dei partiti per Montecitorio.
L’elenco delle uscite è infinito. L’estratto conto è negli atti del processo per l’aeroporto Ampugnano che vede Mussari rinviato a giudizio per falso ideologico in concorso e turbativa d’asta. Parte della documentazione raccolta durante le indagini, in particolare quella relativa alla Fondazione e a Mps, è confluita nell’inchiesta sull’acquisto di Antonveneta. Nulla, al momento, sarebbe stato rilevato di anomalo nelle operazioni partite dal conto corrente della Fondazione. A subire il contraccolpo maggiore è stata la città, dal Comune all’Università, dall’azienda ospedaliera alle contrade del Palio, che si sono ritrovate private, da un anno all’altro, delle laute erogazioni. Se ne sarà fatta ormai una ragione, invece, la fondazione oggi presieduta da Brunetta. La fondazione Ravello, che stava a cuore a Mussari anche per la presenza di Filippo Patroni Griffi nel consiglio generale di indirizzo, non riceve più nulla. Così come la fondazione Craxi: ultimo bonifico ricevuto 15 mila euro nel marzo 2009. L’anno successivo le erogazioni concesse si sono fermate a complessivi 109 milioni e su un totale di 2657 domande presentate solamente 779 sono state soddisfatte. Nel 2012 sono state ulteriormente ridotte a 21 milioni e per il 2013 è previsto lo stanziamento di appena cinque milioni di euro. Da Mps, del resto, non arrivano più i dividendi frutto del “maquillage bilancistico” di Mussari e la banda del 5 per cento.

venerdì 19 aprile 2013

Napolitano dixit, le parole di un settennato: tutti i moniti di Re Giorgio. - Thomas Mackinson


Giorgio Napolitano


Da Botteghe oscure al Colle, dal comunismo alla Nato. Berlusconi, la giustizia, i diritti civili, la magistratura, le missioni di pace, le grazie. Ecco tutti i temi dell'ultimo presidente della Repubblica attraverso le sue esternazioni.

Per tutti è stato un presidente politico. Anzi, il più politico. Per molti resterà l’uomo della Provvidenza, il Capo dello Stato che, con imparzialità e coraggio, ha retto le sorti della Repubblica nel generale discredito delle istituzioni e della politica. Per i critici, invece, è andato oltre i limiti e le prerogative del suo ruolo. E lo ha fatto per garantire gli interessi della partitocrazia. Nella confusione delle celebrazioni e delle (poche) polemiche, una voce più autorevole di altre può raccontare la biografia politica di Giorgio Napolitano senza inzupparla nella retorica: la sua. Seguendola, fatalmente, si finisce per trovare anche le macerie che lascia sul Colle: le leggi ad personam firmate sebbene fossero palesemente incostituzionali e poi bocciate dalla Consulta, le missioni internazionali di pace armata, figuracce planetarie alla Marò, il rapporto ad alta tensione con la magistratura, le ceneri della tecnocrazia fallita del rigore che ha appeso l’Italia al chiodo del direttorio europeo, i moniti rimasti sempre inascoltati. Sul finire, il mezzo incarico a Bersani e l’alchimia istituzionale dei “saggi a termine”: 10 personalità tra cui spiccano quattro garanti dei partiti e dinosauri dell’italica burocrazia nominati perché in quota. Non un outsider della politica, non un under 40 e neppure una donna. Sono stati loro l’ultima scialuppa per traghettare Pd e Pdl verso un accordo e il suo stesso artefice alla scadenza naturale dell’incarico. Non prima, però, d’aver dato chiare indicazioni ai sudditi sul suo successore, un’altra figura di garanzia che possa traghettare il Paese verso la Terza Repubblica con un nuovo, storico, compromesso tra partiti. Re Giorgio, titolò il New York Times. Ecco moniti e proclami che hanno scandito il suo regale settennato, dall’esordio all’ultimo giorno.

2006-2008 – Da Botteghe Oscure al Colle. Napolitano e le convergenze a destra
Lo aveva chiarito subito, “sarò super partes”. Che per Giorgio Napolitano, primo capo dello Stato ex Pci eletto coi voti della sola Unione, significa “operare all’insegna delle più ampie convergenze” (discorso d’insediamento del 10/5/2006). Dieci giorni dopo, nella sua Napoli, è ancora più esplicito con un invito al futuro governo a “non distruggere gli atti di quello precedente” e “avviare un dialogo col centro destra sulla giustizia”. Si spinge oltre: il mondo politico si scontra da settimane sulle intercettazioni della Procura di Potenza, Napolitano è sul Colle da due settimane e si dichiara “non contrario a un decreto” (20/6/2006) auspicando un “Intervento equilibrato del governo per tutelare diritto all’informazione e tutela della privacy”. La polemica corre sul filo anche per la vicenda delle intercettazioni illegali Telecom. Napolitano firma senza batter ciglio (“Non ho nulla da dire”,15/9/2006) il decreto Mastella che ne dispone la distruzione. La Consulta, tre anni più tardi, dichiara parzialmente illegittima la formulazione che era stata approvata con voto bipartisan e firma del Capo dello Stato. La vicenda intercettazioni, come si sa, lo avrebbe investito personalmente qualche anno dopo.
Nei due anni di coabitazione con il governo di centro sinistra Napolitano è impegnato a dimostrare in tutti i modi la sua imparzialità, assumendo prese di posizione che finiscono per lacerare la risicata maggioranza di Romano Prodi. Uno dei temi spinosi è l’immigrazione. Napolitano assume posizioni incompatibili con l’ala radicale della sinistra. Una distanza che era già stata suggellata dalla leggeTurco-Napolitano che ha istituito i Cpt, strutture bocciate anche in sede europea per violazione dei diritti umani, che Napolitano continuerà a difendere (“Non sono dei lager”). Così non è difficile scovare esternazioni che provocano il maldipancia a sinistra e incassano il plauso a destra: “Chi viene in Italia riconosca le nostre regole” (5 sett. 2006). Anche su temi etici e diritti civili Napolitano darà del filo da torcere alla maggioranza che lo ha eletto. Nei dibattiti più delicati il capo dello Stato si erge a garante delle posizioni della Chiesa e del centro destra. Sul testamento biologico, ad esempio, richiama la maggioranza a “scelte non partigiane su etica e famiglia” (20/11/2006), “Trovare regole condivise con la Chiesa” (24/11/2006).
Quando la maggioranza cambia e Berlusconi diventa premier esplode forse uno dei casi di coscienza più drammatici e dibattuti anche in sede politica, quello di Eluana Englaro. C’è un’Italia mossa a pietà umana che sta con il padre e chiede che i riflettori e le macchine per l’alimentazione forzata si spengano e un’altra che si accanisce per tenerli accesi. Napolitano in quella occasione farà muro alla smania del centro destra di cavalcare il caso facendo sapere però per tempo, con una lettera al governo, che non firmerà un decreto ai suoi occhi palesemente incostituzionale. Ma darà così tempo all’esecutivo di riorganizzarsi presentando notte-tempo un disegno di legge identico al decreto. Napolitano la sera stessa ne autorizza la presentazione alle Camere.
Tra i momenti qualificanti di questa stagione anche l’indulto di Mastella. Napolitano non si stancherà mai di denunciare il sovraffollamento delle carceri e le deprivazioni che comporta. Il ministro di Ceppaloni, sensibile al tema, predispone un provvedimento generoso. Votato da tutti (tranne che da Idv, Lega e Pdci), il provvedimento liberò 30mila carcerati ed evitò che altrettanti finissero dentro, costringendo i magistrati a fare indagini e processi costosissimi per erogare pene meramente virtuali. Salvo poi scoprire sei mesi dopo che le carceri erano più piene di prima. Ma c’è un altro fronte su cui Giorgio Napolitano scarica il peso della propria biografia politica e personale sulla coalizione che lo ha eletto. Il fronte di guerra.
L’elmetto presidenziale porta l’Italia in guerraVenticinque missioni, 6.500 militari schierati nelle aree del conflitto e della tensione internazionale. C’è anche questa eredità per il nuovo inquilino del Colle. Durante il suo mandato Napolitano esercita un’influenza enorme sulla politica estera dell’Italia, spingendola – suo malgrado – in prima fila fra le missioni di “pace armata”, compresi Iraq, Afghanistan, Libia e Libano. Un interventismo che deriva anche da una biografia politica e personale che vede Napolitano evolvere dalla stretta osservanza del blocco comunista (che lo portò ad applaudire all’intervento sovietico in Ungheria) fino al socialismo europeo. In anni recenti sono emersi i tentativi di Napolitano di accreditarsi presso gli Usa. Più volte i suoi visti saranno rifiutati, in occasione della visita di Ted Kennedy a Roma (1976) l’incontro venne accuratamente evitato. Finalmente nel 1978, complice un aiuto di Giulio Andreotti, Napolitano corona il sogno di essere il primo dirigente del Pci a mettere piede negli Usa. Da questa evoluzione politica e personale discendono le posizioni assunte dal capo dello Stato nel contesto internazionale che vede l’Italia, spesso suo malgrado, impegnata nelle zone di conflitto sotto le insegne dell’Onu e della Nato. Con non pochi contraccolpi interni. Già dieci anni fa, da alto dirigente dei Ds, zittì la sinistra che protestava contro la guerra in Iraq (“No alla guerra è pura propaganda, reagire all’antiamericanismo”, 2003).
Una volta eletto esercita la sua influenza, quasi un uomo d’ordine degli Usa nel blocco occidentale (lo confermerà anni dopo un cablo di Wikileaks alla vigilia del G8 dell’Aquila tra l’ambasciata a Roma e l’amministrazione Obama “Ambasciatore, Napolitano punto di riferimento per Usa”). Non si contano i moniti ad approvare e finanziare le missioni nei teatri del conflitto (“Chi sfida l’Onu desista”, “No a ritiri unilaterali”). Anche i tributi di sangue non gli fanno cambiare idea. Quando sei militari muoiono a Kabul (17/9/2009) dichiara il lutto nazionale, ma il giorno dopo chiude la porta ad ogni ipotesi di ritiro che si leva a sinistra (“Nulla da rivedere in missione”, 18/9/2009). E quando l’ala pacifista della sinistra decide di manifestare contro la missione, Napolitano congeda l’iniziativa in modo sprezzante: “Una becera e indegna manifestazione che non conta” (28/9/2009). Sulla Libia è Bossi a rivelare “Berlusconi non voleva la guerra, Napolitano sì” (Monza, 29/7/2011). Deve aver cambiato idea il capo dello Stato. Nei due anni prima aveva accolto più volte il leader libico col picchetto d’onore (“Gheddafi, utile conoscere la sua visione”, 6/10/2009). Qualcuno, poi, lo convince che non si possa starne fuori (“Libia, non possiamo sottrarci”, 21/3/2011). E si dichiara stupito, poi, quando la Germania si sottrae (“Non capisco scelta della Merkel”, 30/3/2011). Altra patata bollente il caso dei due Marò, accusati dell’omicidio di due pescatori, ricevuti in pompa magna al Quirinale come eroi nazionali (“Ingiustamente trattenuti”, 8/6/2012) e rispediti in India dopo una pazza gestione, culminata con le dimissioni del titolare della Farnesina. Il settennato a stelle e strisce si chiude con l’inchino della grazia al colonnello Joseph Romano, condannato a 7 anni per il rapimento di Abu Omar. 
2008-2011 – Re Giorgio alla corte del Cavaliere“Bisogna garantire al Cavaliere la partecipazione politica”, così l’Ansa sintetizza nel titolo il senso del Quirinale per Silvio Berlusconi. L’ultimo favore, forse, è stato fare spallucce sulla questione dell’ineleggibilità, in barba alla legge (Sturzo, 1957) e alle 200mila firme raccolte da Micromega. Col centrodestra al governo Napolitano si impegna al massimo per dimostrare di aver rotto i ponti col passato comunista e concede a Silvio Berlusconi quanto neppure un cattolico di centrodestra come Scalfaro gli aveva mai dato. Restano le leggi vergogna, il legittimo impedimento e i tanti interventi per tenere in sella un Cavaliere ormai disarcionato che la parte più intransigente dell’opinione pubblica antiberlusconiana non gli perdona. Emblematiche alcune risposte date fuori dall’etichetta, a bordo strada, a chi non capiva tanta accondiscendenza. “Non firmare? Non significa nulla, me lo ripresentano” (3/10/2009) risponde a chi lo supplica di non promulgare lo scudo fiscale di Tremonti che garantisce anonimato e di conseguenza impunibilità a mafiosi ed evasori. “Stop a processo breve? Faccio quello che posso”, risponde a una madre di una delle 32 vittime della strage di Viareggio del 2009. Si ricordano anche la finanziaria che raddoppia l’Iva a Sky, i pacchetti sicurezza Maroni con norme xenofobe, il decreto salve-liste del Pdl con tanto di viatico per Berlusconi: “Non era sostenibile l’esclusione del Pdl” (6/3/2010). Un mese dopo promulga il legittimo impedimento (legge 51 del 7/4/2010) che consente al solo presidente del Consiglio e ai suoi ministri di non comparire in aula per 18 mesi e far slittare i processi a carico verso la prescrizione. Napolitano firma nonostante fosse palesemente incostituzionale, come aveva già sancito la Consulta con due sentenze (nel 2001 sugli impedimenti accampati da Cesare Previti, nel 2008 bocciando il lodo Alfano). E sostiene davanti alle persone per bene che “non poteva fare altrimenti”.
Eppure per altri provvedimenti, non incostituzionali ma che semplicemente non condivide, Napolitano si rifiuta di firmare: è successo con il ddl sul welfare che estende l’arbitrato ai rapporti di lavoro. L’impedimento non solo è legittimato da Napolitano ma è anche accompagnato da un monito a distanza di 20 giorni che toglie ogni dubbio sulla propensione a mettere sullo stesso piano politici aggressori e pm aggrediti: l’invito per i magistrati è a “non cedere a esposizioni dei media” e “fare autocritica” (27/4/2010). Ma saranno proprio dei giudici, quelli della Corte Costituzionale, a decretare la breve vita del provvedimento dichiarandone illegittima una parte (l’altra sarà cancellata dai cittadini con il referendum del giugno successivo).
Le concessioni a Berlusconi vanno oltre gli atti formali. Poco o per nulla incline a stigmatizzare concentrazione di potere e pretese di impunità del re del conflitto di interessi, Napolitano si cimenta al contrario in inaspettati salvataggi del Cavaliere proprio mentre sta finendo disarcionato. Clamoroso quello del novembre 2010, quando la pattuglia di Fini sfoltisce le file della maggioranza. Il capo dello Stato si adopera direttamente per evitare la chiusura anticipata della legislatura (“Cercherò di evitare lo scioglimento della camere”, 23/12/2010) e consente a Berlusconi di reclutare i deputati che gli servono (“Da Berlusconi ipotesi di rafforzamento governo”,  16/3/2011). Due anni il rafforzamento del Cavaliere è materia per i magistrati. Anche quando il governo viene bocciato sul rendiconto generale dello Stato Napolitano si precipita a chiarire che “Non c’è obbligo giuridico di dimissioni” (14/10/2011). Quando poi è lo spread a chiedere di staccare la spina, Napolitano dal Colle si mobilita (“Mio dovere intervenire per evitare ora le urne”,  31/12/2011). E evita a Berlusconi un voto che lo avrebbe seppellito definitivamente, rendendo possibile quello che solo un anno prima non lo era, lo scivolo dei tecnici. Nel 2010 Napolitano lo aveva escluso tassativamente (“Non esistono governi tecnici”, 14/12/2010). Un anno dopo cambia idea e dal cilindro presidenziale tira fuori Monti, previa nomina a senatore a vita.
2011-2013 – Il montismo e l’ipoteca sul successoreI partiti affondano negli scandali, inizia la dittatura dello spread che accredita l’emergenza dei conti e il rischio Grecia (“Non possiamo giocare con fallimento”, 15/11/2011). Il governo è ormai murato sullo sfondo, Berlusconi è screditato anche aldilà delle Alpi. Napolitano allora prende in mano il pallino e si accredita personalmente presso il direttorio europeo come garante della stabilità e dei conti. La ricreazione è finita, l’Italia rischia di mandare in tilt la zona Euro. L’ex dirigente comunista è al centro della scena politica mondiale, l’uomo della Provvidenza (Re Giorgio, titola il New York Times). Forte dell’acquiescenza dei partiti, del pressing dei mercati e delle direttive dell’Europa decide di lanciarsi nell’alchimia istituzionale di un governo tecnico. L’unica che consente di non staccare la spina a Berlusconi (che intanto si ricarica per successive imprese) ed evitare il voto a Bersani. Lo spiegherà lo stesso Napolitano di lì a poco (“Non c’era spazio per crisi parlamentare”,   22/12/2012). Dal cilindro presidenziale – con il consenso della parte prevalente della stampa – esce dunque il governo Monti che in 15 mesi porta il Paese dove è oggi, dopo averlo appeso al chiodo della Bce e del Fondo Monetario. Le parole d’ordine sono tagli e rigore, pareggio in bilancio nella Costituzione, fiscal compact e programmi decennali di contenimento del debito sovrano. Ma la cura non sembra funzionare: il debito pubblico aumenta, il contenimento della spesa alimenta la crisi e la disoccupazione, gli stessi impegni assunti con l’Europa si rivelano condizione per l’impoverimento degli italiani. Il tutto per effetto di decisioni di un governo che non è espressione della volontà popolare. Napolitano capisce come cambia il vento e lancia precisi (e inascoltati) moniti: “No tagli alla cieca, impatto su crescita”(31/1/2012), “Spending review ma no tagli indiscriminati” (1/5/2012). 
Dietro al duo Monti-Fornero si accumulano però macerie del rigore cui Napolitano – dalla sua posizione di demiurgo e tutore del governo – poco può concedere (“Esodati, tema da chiarire”,1/5/2012). Mentre i tecnici si fanno sempre più impopolari anche lo spread (il differenziale tra i tassi, termometro della febbre italiana) smentisce la bontà della scelta tecnica. Napolitano lo registra, malcelando un imbarazzo crescente (“Spread inspiegabile, con Monti fiducia cresce”, 5/9/2012). Impossibile per lui fare retromarcia (“Crisi, Italia farà sua parte”, 8/9/2012) e ammettere il fallimento (“Nessuna contraddizione tra austerità e crescita”). Alla fine è Berlusconi a staccare la spina mentre il capo del governo in provetta è folgorato da proprie ambizioni che al Colle causano più di un imbarazzo.
Le urne sanciscono lo stallo e l’irruzione sulla scena politica nazionale del M5S che Napolitano ha ignorato (“Boom? Ricordo solo quello degli anni Settanta”, 8/5/2012) e poi relegato tra le forze eversive e demagogiche (ancora pochi giorni fa, nel riferimento – senza nomi e cognomi ma univocamente interpretato – ai “Moralizzatori fanatici e distruttivi”). Del resto Napolitano non ha mai amato le battaglie dell’antipolitica contro la casta. E infatti i suoi moniti saranno per chi la denuncia, non contro chi la alimenta (“attenti a imprecare contro la casta, dietro c’è il buio di regimi totalitari”,Palermo 8/9/2011). E lo stesso metro ha usato in casa. Il Quirinale, al di là di pochi tagli che sono stati poi riduzioni di personale comandato da altre amministrazioni, è continuato a costare 624mila euro al giorno, 23mila l’ora (in un anno 240 milioni di euro, la Casa Bianca ne costa 136,5, l’Eliseo 112,5 e Buckingham Palace 57). Impossibile fare di più, così Napolitano decide di dare un segnale di persona: il 7 luglio dell’anno scorso una nota del Colle informa della sua rinuncia all’aumento di stipendio su base Istat. Si scoprirà poi che il risparmio era di 68 euro al mese, una rinuncia dal forte valore simbolico.
Sono gli ultimi flash di una presidenza della Repubblica che sembra una monarchia e si chiude invece nel segno dell’impotenza, con un incarico a Bersani fallito (ma non revocato), e l’espediente dei “saggi” a termine, scialuppa per traghettare Pd e Pdl verso un accordo e il suo stesso artefice alla scandenza naturale dell’incarico. Una polemica, tra le altre, ha investito le figure scelte da Napolitano per prender tempo: il numero di donne pari a zero. Quando è stato fatto notare il presidente non ha battuto ciglio, polemica stucchevole. E chi la persegue è in malafede. Proprio un anno fa, del resto, lo stesso Napolitano aveva lamentato davanti ai ragazzi delle scuole di Firenze che “a vedere le percentuali di donne elette in Parlamento in Italia cadono le braccia” (12/5/2011). Quelle tra i saggi sono ancora meno, zero. Il settennato si chiude e Napolitano esce di scena. Non prima d’aver dato ai partiti chiare indicazioni sul suo successore, un presidente che continui il lavoro di tutore dei partiti all’insegna del compromesso, in attesa che il vento dell’ “antipolitica” smetta di soffiare così forte. Re Giorgio, fino alla fine. 
Magistratura-Colle. Le entrate a gamba tesaUn fulmine a ciel sereno, di più, uno schiaffo. Il capo dello Stato, che presiede anche l’organo di autogoverno della magistratura, che interferisce con le indagini sulla trattativa Stato-Mafia, il nodo cruciale di tutta la storia repubblicana. Quando la vicenda investe direttamente il Colle, Napolitano, almeno a parole, si tiene alla larga (per poi sollevare il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo). In realtà già quattro anni prima, nel dicembre 2008, ci fu un suo intervento a gamba tesa con la richiesta alla Procura di Salerno di acquisire gli atti delle indagini che Luigi De Magistris conduceva sul numero due del Csm, Nicola Mancino. Due settimane dopo, quando la polemica esplode sui giornali, Napolitano sceglie la cerimonia di scambio d’auguri con le più alte cariche dello Stato per invocare un guinzaglio ai pm scomodi: “Si pongono con urgenza problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti tra politica e magistratura ed esigenze di misure di riforma volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, rischi di arbitrio e conflitti interni alla magistratura nell’esercizio della funzione giudiziaria, a cominciare dalla funzione inquirente e requirente” (17/12/2008). 
Ma a ben vedere sono innumerevoli i richiami, i moniti, le ruvide prese di posizione verso i magistrati impegnati nelle inchieste su potenti e politici, Berlusconi in primis. Ai tirocinanti ricevuti al Quirinale nel 2008 – presenti il ministro Alfano e il vice del Csm Mancino – Napolitano raccomanda di “non cedere al protagonismo dei media” (12/5/2008). Due mesi dopo nel pacchetto sicurezza di Pdl-Lega spunta un emendamento salva-processi cui manca solo il nome del beneficiario. Il Csm esprime forti perplessità ma ci penserà una lettera di Napolitano a rimettere in riga i consiglieri (“Giustizia, Csm non è giudice costituzionale”,  1/7/2008). E Alfano ringrazia Napolitano perché “riporta il Csm nell’alveo”. Venti giorni dopo un altro monito (“No a spettacolarizzazione dei processi”, 21/7/2008). Ancora due giorni e Napolitano promulga il cosiddetto Lodo Alfano, poi dichiarato incostituzionale. Cinque giorni dopo la firma rincara la dose, offrendo stavolta una sponda al centrodestra sulle intercettazioni (“No all’uso voyeristico”, 28/7/2008). E via con “l’altamente dannoso protagonismo dei pm” e successivi richiami perché “la Magistratura si attenga alle sue funzioni” (27/8/2009). 
Quando si tratta però di difendere i magistrati dalla accuse di Berlusconi, Napolitano non inverte il canone, ma continua a richiamare loro. Sul tavolo del Csm a un certo punto si materializzano quattro pratiche che riguardano gli attacchi del premier ad altrettanti magistrati impegnati nei suoi processi.  Napolitano manda una lettera, non per esprimere loro solidarietà ma per invitare l’assemblea a “discutere in modo equilibrato (…) e di fare un uso responsabile e prudente dell’istituto delle pratiche a tutela dei magistrati (…) il cui uso si giustifica solo quando è indispensabile garantire la credibilità dell’istituzione giudiziaria nel suo complesso da attacchi cosi denigratori da mettere in dubbio l’imparziale esercizio della funzione giudiziaria e da far ritenere la sua soggezione a gravi condizionamenti” (Lettera Csm, 9/10/2009). A fronte di tanti moniti pesano infine tanti atti mancati, silenzi ingombranti. Uno per tutti, la condanna a metà dell’irruzione del Pdl al Tribunale di Milano. Restano invece quelle grazie concesse al di là delle prerogative del Capo dello Stato.
Quella grazia che sfida senso comune e costituzioneSignori si grazia. Per 21 volte Giorgio Napolitano ha fatto ricorso ai propri poteri per concedere altrettanti provvedimenti di clemenza individuale. Non tanti, a dire il vero, i predecessori furono più “generosi” (Scalfaro 339, Ciampi 114). Ma più che i numeri a far discutere sono stati i soggetti beneficiari di una indulgenza che segue esattamente i binari sui quali Napolitano fa scorrere buona parte del suo settennato: quello a destra e quello che corre verso l’Atlantico. Il primo caso che ha fatto discutere ruota intorno al direttore de Il Giornale, quotidiano della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti. Non di grazia si tratta ma di commutazione della pena, si è subito precisato. Ma il risultato è lo stesso: il capo dello Stato di fatto annulla la sentenza di condanna, definitiva, emessa da un giudice a 14 mesi di reclusione per il reato di diffamazione. Solo un disturbo il fatto che nel giorno della grazia la procura di Milano avesse dato parere contrario alla medesima richiesta avanzata da Ignazio La Russa insieme a 328 parlamentari (primo firmatario il segretario del Pdl Angelino Alfano). Sallusti potrà tornare in libertà versando una penale di 15.532 euro. Altrettanto clamorosa la grazia concessa da Napolitano al colonnello Usa Joseph Romano (condannato nel settembre scorso dalla Cassazione a 7 anni per il sequestro Abu Omar).
In occasione di quest’ultimo provvedimento è emersa una questione rimasta a lungo defilata, ovvero se gli atti di clemenza del Capo dello Stato siano conformi alla Costituzione oppure no e quali limiti e prerogative debbano seguire. Risalendo nelle cronache politiche il tema era divenuto oggetto di scontro proprio qualche settimana prima che Napolitano ereditasse il Quirinale da Ciampi. Un anno prima del passaggio di testimone, l’ex capo dello Stato aveva inoltrato al guardasigilli Roberto Castelli la pratica per la grazia a Ovidio Bompressi, ex di Lotta continua condannato a 22 anni con Adriano Sofri per l’omicidio Calabresi. Di fronte al rifiuto di Castelli Ciampi sollevò il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per dirimere un punto controverso: a chi spetta il potere di grazia? Quando e come deve essere esercitato? A rispondere fu una sentenza del 3 maggio 2006 che chiarisce come la grazia presidenziale sia attribuibile per motivi “umanitari” ed “eccezionali” essendo una deroga di fatto al principio di uguaglianza. Chiarisce anche che la scelta non può in nessun modo essere “politica” e precisa infine che debba avvenire a debita distanza di tempo dalla sentenza perché non suoni come una sconfessione del lavoro dei giudici. Ecco, nei casi di Sallusti e di Joseph Romano, la clemenza di Napolitano sembra discostarsi da quei paletti e infrangerli. Ma nella grazia, a volte, quello che conta è chi ringrazia.