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venerdì 26 giugno 2015

Pensioni, al via i rimborsi ad agosto: 796 euro lordi in più a chi ne prende 1.500.

Pensioni, al via i rimborsi ad agosto: 796 euro lordi in più a chi ne prende 1.500

Dal primo agosto prossimo l’Inps pagherà a titolo di arretrati la rivalutazione delle pensioni sancita dalla sentenza della Consulta e recepita dal decreto legge del governo: dal 2016 arriverà un aumento mensile di 41 euro lordi e con tassazone ordinaria. Rimborsi anche per gli eredi.

Quasi 800 euro lordi di rimborso una tantum ad agosto (per il periodo gennaio 2012- agosto 2015) per un pensionato che percepisce un assegno da 1.500 euro (sempre lordi), poi il trattamento mensile salirà a 1.525 euro circa per arrivare a 1.541 euro dal 2016. Questo il contenuto della circolare Inps che, confermando le simulazioni pubblicate nelle scorse settimane, fornisce le istruzioni applicative del “bonus Poletti”, cosi come ha definito Matteo Renzi l’articolo 1 del decreto 65 con cui il governo ha messo una toppa dopo la sentenza della Consulta che ha definito incostituzionale il blocco dell’indicizzazione per gli assegni superiori a tre volte il minimo voluta dal tandem Monti-Fornero.
Il rimborso, aveva già avuto modo di spiegare già il presidente dell’Inps Tito Boeri, è automatico e i 3,7 milioni di pensionati coinvolti se lo vedranno quindi aggiungere all’assegno previdenziale di agosto, senza bisogno di fare domanda. Ma ora l’Istituto di previdenza descrive in dettaglio anche la misura della rivalutazione automatica per gli anni 2012, 2013 e 2014 e che interessa solo le pensioni da 3 volte il minimo fino a 6 volte. Meglio, però, non sottovalutare che il calcolo dei rimborsi è sempre al lordo. Così le somme restituite negli anni 2012-14 saranno assoggettate a tassazione separata e, quindi, più favorevole perché calcolate sulla base dell’aliquota media senza applicare le addizionali locali. Ma, invece, le somme maturate dal 2015 saranno assoggettate a tassazione ordinaria. In questo caso, ipotizzando un’aliquota media del 27%, per ogni 10mila euro erogati, 2mila e 7oo euro andranno in imposte.
Come funziona il rimborso
Per il 2012 e 2013 i pensionati percepiranno un reintegro del 100% per tutti i trattamenti di importo complessivo fino a tre volte il minimo. Percentuale che scende al 40% per gli assegni superiori a 3 volte il minimo e fino a 4 volte, al 20% per quelli tra 4 e 5 volte il minimo, per poi toccare quota 10% per quelli tra 5 e 6 volte il minimo.
Per il 2014 e il 2015, invece, la rivalutazione sarà riconosciuta a partire dalle pensioni superiori a 3 volte il minimo e fino a 6 volte e sarà pari al 20% della percentuale assegnata per ogni fascia di reddito per gli anni 2012-2013.
pensioni 1Esempio
Le pensioni superiori a 3 volte il minimo e pari o inferiori a 4 volte il minimo (cioè la classe più popolosa degli aventi diritto a rimborso) percepiranno dal primo agosto una rivalutazione complessiva una tantum di 796,27 euro calcolando gli arretrati 2012-2015. In particolare saranno restituiti 210,6 euro per il 2012 e 447,2 per il 2013. Per il 2014 e 2015, invece, la restituzione sarà pari rispettivamente a 89,96 euro e 48,51 euro.
Il meccanismo di calcolo dell’Inps
Riservato agli amanti dei calcoli complessi, si basa tutto sull’incremento del primo biennio che costituisce la base di calcolo per gli anni successivi e viene riconosciuto in misura pari: al 20% dell’aumento ottenuto nel biennio 2012-2013 per gli anni 2014 e 2015; al 50% dell’aumento ottenuto nel biennio 2012-2013, relativamente al 2016.
Quindi, numero alla mano, alle pensioni il cui importo è superiore a tre volte il trattamento minimo verrà attribuita la percentuale di perequazione prevista per il 2012 (pari al 2,7%) nella seguente misura: il 20% del 40% fino a quattro volte il minimo (1.500-2.000 euro circa), il 20% del 20% fino a cinque volte (2.000-2.500 euro circa) e il 20% del 10% fino a sei volte (2.500-3.000 euro circa).
Nella stessa misura verrà attribuita alle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo la percentuale di perequazione previsita per il 2013, pari al 3%.
Pertanto, in base a questi nuovi incrementi si determina il valore del rimborso e il nuovo assegno pensionistico a partire dal 2016. In particolare, le percentuali di perequazione per gli anni 2012 e 2013 vengono incrementate con queste modalità: il 50% del 40% fino a quattro volte il minimo, il 50% del 20% fino a cinque volte e il 50% del 10% fino a sei volte.pensioni 2
Rimborso anche agli erediIl rimborso è esteso anche gli eredi che avranno diritto ai rimborsi delle pensioni superiori a tre volte il minimo. L’Inps precisa, infatti, che i pagamenti riguarderanno “anche le pensioni che al momento della lavorazione risulteranno eliminate” e che “il pagamento delle spettanze agli aventi titolo sarà effettuato a domanda nei limiti della prescrizione”. In questo caso, quindi, il rimborso non è automatico ma va presentata una domanda all’Inps prima che scatti la prescrizione.
I conti tornano?
Durante l’audizione parlamentare del 16 giugno, il presidente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, Giuseppe Pisauro, ha spiegato che “la fascia di pensionati con assegni tra le tre e le quattro volte il minimo (tra 1.500 e 2.000 euro) riceverà solo circa i due terzi delle risorse stanziate dal governo”, vale a dire il 12%, confermando che “il totale delle risorse messe a disposizione dal governo – pari a 2,2 miliardi di euro – sono stati attinti in larga parte dal tesoretto contenuto nel Def e dato dalla differenza tra deficit/Pil tendenziale e programmatico”.

giovedì 9 gennaio 2014

Anche con Enrico Letta Palazzo Chigi paga affitti d’oro: 13,4 milioni di euro nel 2013. - Carlo Tecce

Anche con Enrico Letta Palazzo Chigi paga affitti d’oro: 13,4 milioni di euro nel 2013


Lo Stato ha un patrimonio immenso di caserme, capannoni, palazzoni, allora perché Palazzo Chigi, l’essenza statale e politica, spende 13,4 milioni di euro l’anno in “locazioni di vario genere”? Ai calcoli, la giusta sentenza: le stagioni dei tecnici e lettiani, ultimo triennio, fanno risparmiare quasi 6 milioni di euro.

Giulio Tremonti e pure Silvio Berlusconi: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Mario Monti e la truppa di ministri con il loden: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Enrico Letta e i collaboratori di larghe intese: “Vendiamo gli immobili pubblici”. Non va buttato il tempo per notare le differenze: non ci sono. Vendere per fare cassa, non fa difetto il buon proposito, però affittare perché?
Lo Stato ha un patrimonio immenso di caserme, capannoni, palazzoni, allora perché Palazzo Chigi, l’essenza statale e politica, spende 13,4 milioni di euro l’anno in “locazioni di vario genere”? Ai calcoli, la giusta sentenza: le stagioni dei tecnici e lettiani, ultimo triennio, fanno risparmiare quasi 6 milioni di euro.
La crescita, esponenziale e incontrollata, l’aveva provocata il Cavaliere: 2011, a ogni sottosegretario veniva affidato un appartamento di lusso. Esempio: Daniela Santanchè, Attuazione del programma, occupava un panoramico ufficio in piazza di Montecitorio. Il governo di Berlusconi sforava con leggerezza i 20 milioni di euro. Più di un terzo degli odierni 13,4 milioni di euro sono per la Protezione civile: via Vitorchiano di proprietà di Roberto Amodei e famiglia (editori del Corriere dello Sport), un cubo di cemento e vetrate, in zona a rischio allagamenti, costa 4,454 milioni di euro. I mezzi sono adagiati in via Affile; scrutato un groviglio di numerose società, s’arriva a banca Bnl: vale 1,219 milioni di euro.
Va segnalato che il professor Mario Monti, che pure aveva ridotto di parecchio la spesa in locazioni, ha stipulato un contratto da 1,6 milioni di euro con Unicredit per palazzo Verospi, storico e centrale, via del Corso. Propri lì, fra affreschi e capitelli, il sottosegretario Giovanni Legnini (editoria) riceve, e le foto lo testimoniano, illustri ospiti e delegazioni.
In via dell’Umiltà, non lontano dall’ex sede dei berlusconiani, il governo ospita la stampa estera: 1,8 milioni di euro, considerati troppi dai dirigenti governativi. Il segretario generale di Chigi, sfruttando l’articolo di legge inserito con fatica nel Milleproroghe contro gli affitti d’oro, vuole disdire gli accordi pluriannuali per via della Vite e via dei Laterani: una limatura da 870.000 euro. E grazie a quel comma che il Movimento Cinque Stelle ha proposto e il Partito democratico ha compreso con ritardo, Palazzo Chigi vorrebbe ridiscutere le tariffe per (almeno) tre palazzi. Anche i 310.000 euro per il parcheggio di Pozzo Pantaleo potrebbe traslocare altrove (e gratis) scegliendo una nuova e vicina destinazione fra le infinite proprietà dello Stato: Palazzo Chigi vuole comprare dal demanio militare. Disperso fra la lista d’acquisti per caffè, acqua minerale effervescente o naturale e tende con ricami, mister spending review Cottarelli ancora non ha toccato la pratica immobili di Chigi (o dei ministeri).
Dai 20 milioni di Berlusconi ai 13,4 milioni di Letta, che l’anno prossimo saranno 12: lo spreco diminuisce, però resta. Così non sarà credibile per un presidente del Consiglio, affiancato con seriosità dal ministro di turno, far notare che “il patrimonio pubblico è troppo, inutilizzato e va dismesso”. Non s’è mai visto un ricco immobiliarista che prende qua e là palazzi in affitto.

sabato 27 luglio 2013

Tesi, discorsi e programmi copiati: esiste il software anti plagio. - Loredana Di Cesare

Studenti Università


Il programma dal nome Turing è stato reso operativo all'università Bocconi di Milano nel 2011 e permette di verificare che l'autenticità delle tesi di laurea. Un sistema che se applicato anche per i politici rivelerebbe i numerosi "prestiti".

Se uno studente copia la tesi, rischia la sospensione dall’università. Se un ministro copia un discorso o una relazione programmatica, invece, nessun problema: Governo e Parlamento non hanno nulla da rimproverargli. Nessuna sanzione, nessuna censura. Eppure il software anti plagio – il suo nome è Turing – è stato reso operativo, nell’università Bocconi di Milano, dal 2011: nello stesso anno, il suo ex rettore, Mario Monti, che lasciò l’ateneo milanese per assumere la guida del Governo, copiò alcuni passaggi del programma fiscale dalle relazioni di Bankitalia, senza citarne la fonte. Un retroscena rivelato dal quotidiano Libero che non ci risulta sia stato smentito.
Ciò accadeva mentre la sua Bocconi – dov’è rientrato da un mese in qualità di presidente del consiglio di amministrazione dell’Università – sperimentava gli effetti pratici del software “Turing” sugli studenti. Risultato della sperimentazione: negli ultimi 18 mesi, un laureando è stato sospeso e allontanato dall’università perché aveva copiato la tesi di un suo collega. Tra i comportamenti sanzionabili – si legge nel codice etico (honor code) dell’istituto milanese – c’è appunto quello di “appropriarsi di idee, concetti, presentazioni, dati e di ogni altra informazione elaborata o riportata in scritti o in interventi orali altrui senza espressamente e correttamente indicarne le fonti”.
Ma da quando è stato “lanciato il programma anti plagio, e gli studenti sono a conoscenza della possibilità di essere scoperti, si è messo in moto un meccanismo virtuoso e un regime di deterrenza per cui ogni possibilità di plagio è impedita sul nascere – precisa Roberto Grassi, dirigente responsabile divisione didattica e componente della commissione disciplinare della Bocconi. Infatti, un solo caso di copiatura, in un anno e mezzo, è stato scoperto. “Nel momento in cui viene individuato un plagio – spiega Grassi – la tesi è annullata, lo studente deve riscriverla, è sottoposto a un provvedimento disciplinare e scatta la sanzione, legata a quelle previste dal ministero dell’Istruzione: sospensione da sei mesi a tre anni e allontanamento dalla vita universitaria”. In sintesi, a uno studente che copia, viene bloccata la carriera eritardato l’accesso nel mondo del lavoro. “Possiamo soltanto sospendere e non espellere lo studente – dice Grassi – fatto che avviene per esempio negli Stati uniti, perché l’espulsione non è prevista dalla normativa italiana”. Ai 13 mila bocconiani, l’università manda ogni anno una lettera con tutte le tipologie di provvedimenti disciplinari con equivalente sanzione.
“Ciò che ci caratterizza – continua Grassi – è che noi abbiamo inserito questo software anti plagio in automatico, quindi tutti i lavori di laurea, una volta completati, passano al vaglio del sistema Turing. Il docente, dunque, riceve insieme alla copia della tesi anche la copia del report anti plagio”. Insomma, la chiave del successo, è un prodotto made in Bocconi, che verifica l’autenticità di un elaborato, in pochi minuti, incrociando le informazioni pubblicate sul web e quelle presenti nella base dati della Bocconi.
Usato in chiave politica, il software sarebbe stato utile per scoprire che l’ex premier Monti era stato “ispirato” dal giuslavorista Pietro Ichino per esprimere le idee della sua agenda. Nessuna smentita dal professore e Ichino intervistato da Radio 24 ha dichiarato che il suo documento era online da mesi. Bastava confrontare l’agenda Monti sulla rete e il saccheggio sarebbe stato scoperto. Invece nessuno ha fiatato. Il Turing avrebbe funzionato anche per la neo ministra della Salute Beatrice Lorenzin che, al primo esordio ufficiale a un congresso di medici, ha presentato un programma con parti interamente copiate dal Libro bianco dell’ex ministro, Maurizio Sacconi. Anche in questo caso, la fonte non è stata indicata. Tutt’altra storia in Germania dove, per il copia e incolla della tesi di dottorato, il ministro della Difesa, Karl Theodor zu Guttemberg, nel 2011, ha dovuto dimettersi. E pensare che non c’è stato neanche bisogno del sistema elaborato dalla Bocconi.

venerdì 19 aprile 2013

Napolitano dixit, le parole di un settennato: tutti i moniti di Re Giorgio. - Thomas Mackinson


Giorgio Napolitano


Da Botteghe oscure al Colle, dal comunismo alla Nato. Berlusconi, la giustizia, i diritti civili, la magistratura, le missioni di pace, le grazie. Ecco tutti i temi dell'ultimo presidente della Repubblica attraverso le sue esternazioni.

Per tutti è stato un presidente politico. Anzi, il più politico. Per molti resterà l’uomo della Provvidenza, il Capo dello Stato che, con imparzialità e coraggio, ha retto le sorti della Repubblica nel generale discredito delle istituzioni e della politica. Per i critici, invece, è andato oltre i limiti e le prerogative del suo ruolo. E lo ha fatto per garantire gli interessi della partitocrazia. Nella confusione delle celebrazioni e delle (poche) polemiche, una voce più autorevole di altre può raccontare la biografia politica di Giorgio Napolitano senza inzupparla nella retorica: la sua. Seguendola, fatalmente, si finisce per trovare anche le macerie che lascia sul Colle: le leggi ad personam firmate sebbene fossero palesemente incostituzionali e poi bocciate dalla Consulta, le missioni internazionali di pace armata, figuracce planetarie alla Marò, il rapporto ad alta tensione con la magistratura, le ceneri della tecnocrazia fallita del rigore che ha appeso l’Italia al chiodo del direttorio europeo, i moniti rimasti sempre inascoltati. Sul finire, il mezzo incarico a Bersani e l’alchimia istituzionale dei “saggi a termine”: 10 personalità tra cui spiccano quattro garanti dei partiti e dinosauri dell’italica burocrazia nominati perché in quota. Non un outsider della politica, non un under 40 e neppure una donna. Sono stati loro l’ultima scialuppa per traghettare Pd e Pdl verso un accordo e il suo stesso artefice alla scadenza naturale dell’incarico. Non prima, però, d’aver dato chiare indicazioni ai sudditi sul suo successore, un’altra figura di garanzia che possa traghettare il Paese verso la Terza Repubblica con un nuovo, storico, compromesso tra partiti. Re Giorgio, titolò il New York Times. Ecco moniti e proclami che hanno scandito il suo regale settennato, dall’esordio all’ultimo giorno.

2006-2008 – Da Botteghe Oscure al Colle. Napolitano e le convergenze a destra
Lo aveva chiarito subito, “sarò super partes”. Che per Giorgio Napolitano, primo capo dello Stato ex Pci eletto coi voti della sola Unione, significa “operare all’insegna delle più ampie convergenze” (discorso d’insediamento del 10/5/2006). Dieci giorni dopo, nella sua Napoli, è ancora più esplicito con un invito al futuro governo a “non distruggere gli atti di quello precedente” e “avviare un dialogo col centro destra sulla giustizia”. Si spinge oltre: il mondo politico si scontra da settimane sulle intercettazioni della Procura di Potenza, Napolitano è sul Colle da due settimane e si dichiara “non contrario a un decreto” (20/6/2006) auspicando un “Intervento equilibrato del governo per tutelare diritto all’informazione e tutela della privacy”. La polemica corre sul filo anche per la vicenda delle intercettazioni illegali Telecom. Napolitano firma senza batter ciglio (“Non ho nulla da dire”,15/9/2006) il decreto Mastella che ne dispone la distruzione. La Consulta, tre anni più tardi, dichiara parzialmente illegittima la formulazione che era stata approvata con voto bipartisan e firma del Capo dello Stato. La vicenda intercettazioni, come si sa, lo avrebbe investito personalmente qualche anno dopo.
Nei due anni di coabitazione con il governo di centro sinistra Napolitano è impegnato a dimostrare in tutti i modi la sua imparzialità, assumendo prese di posizione che finiscono per lacerare la risicata maggioranza di Romano Prodi. Uno dei temi spinosi è l’immigrazione. Napolitano assume posizioni incompatibili con l’ala radicale della sinistra. Una distanza che era già stata suggellata dalla leggeTurco-Napolitano che ha istituito i Cpt, strutture bocciate anche in sede europea per violazione dei diritti umani, che Napolitano continuerà a difendere (“Non sono dei lager”). Così non è difficile scovare esternazioni che provocano il maldipancia a sinistra e incassano il plauso a destra: “Chi viene in Italia riconosca le nostre regole” (5 sett. 2006). Anche su temi etici e diritti civili Napolitano darà del filo da torcere alla maggioranza che lo ha eletto. Nei dibattiti più delicati il capo dello Stato si erge a garante delle posizioni della Chiesa e del centro destra. Sul testamento biologico, ad esempio, richiama la maggioranza a “scelte non partigiane su etica e famiglia” (20/11/2006), “Trovare regole condivise con la Chiesa” (24/11/2006).
Quando la maggioranza cambia e Berlusconi diventa premier esplode forse uno dei casi di coscienza più drammatici e dibattuti anche in sede politica, quello di Eluana Englaro. C’è un’Italia mossa a pietà umana che sta con il padre e chiede che i riflettori e le macchine per l’alimentazione forzata si spengano e un’altra che si accanisce per tenerli accesi. Napolitano in quella occasione farà muro alla smania del centro destra di cavalcare il caso facendo sapere però per tempo, con una lettera al governo, che non firmerà un decreto ai suoi occhi palesemente incostituzionale. Ma darà così tempo all’esecutivo di riorganizzarsi presentando notte-tempo un disegno di legge identico al decreto. Napolitano la sera stessa ne autorizza la presentazione alle Camere.
Tra i momenti qualificanti di questa stagione anche l’indulto di Mastella. Napolitano non si stancherà mai di denunciare il sovraffollamento delle carceri e le deprivazioni che comporta. Il ministro di Ceppaloni, sensibile al tema, predispone un provvedimento generoso. Votato da tutti (tranne che da Idv, Lega e Pdci), il provvedimento liberò 30mila carcerati ed evitò che altrettanti finissero dentro, costringendo i magistrati a fare indagini e processi costosissimi per erogare pene meramente virtuali. Salvo poi scoprire sei mesi dopo che le carceri erano più piene di prima. Ma c’è un altro fronte su cui Giorgio Napolitano scarica il peso della propria biografia politica e personale sulla coalizione che lo ha eletto. Il fronte di guerra.
L’elmetto presidenziale porta l’Italia in guerraVenticinque missioni, 6.500 militari schierati nelle aree del conflitto e della tensione internazionale. C’è anche questa eredità per il nuovo inquilino del Colle. Durante il suo mandato Napolitano esercita un’influenza enorme sulla politica estera dell’Italia, spingendola – suo malgrado – in prima fila fra le missioni di “pace armata”, compresi Iraq, Afghanistan, Libia e Libano. Un interventismo che deriva anche da una biografia politica e personale che vede Napolitano evolvere dalla stretta osservanza del blocco comunista (che lo portò ad applaudire all’intervento sovietico in Ungheria) fino al socialismo europeo. In anni recenti sono emersi i tentativi di Napolitano di accreditarsi presso gli Usa. Più volte i suoi visti saranno rifiutati, in occasione della visita di Ted Kennedy a Roma (1976) l’incontro venne accuratamente evitato. Finalmente nel 1978, complice un aiuto di Giulio Andreotti, Napolitano corona il sogno di essere il primo dirigente del Pci a mettere piede negli Usa. Da questa evoluzione politica e personale discendono le posizioni assunte dal capo dello Stato nel contesto internazionale che vede l’Italia, spesso suo malgrado, impegnata nelle zone di conflitto sotto le insegne dell’Onu e della Nato. Con non pochi contraccolpi interni. Già dieci anni fa, da alto dirigente dei Ds, zittì la sinistra che protestava contro la guerra in Iraq (“No alla guerra è pura propaganda, reagire all’antiamericanismo”, 2003).
Una volta eletto esercita la sua influenza, quasi un uomo d’ordine degli Usa nel blocco occidentale (lo confermerà anni dopo un cablo di Wikileaks alla vigilia del G8 dell’Aquila tra l’ambasciata a Roma e l’amministrazione Obama “Ambasciatore, Napolitano punto di riferimento per Usa”). Non si contano i moniti ad approvare e finanziare le missioni nei teatri del conflitto (“Chi sfida l’Onu desista”, “No a ritiri unilaterali”). Anche i tributi di sangue non gli fanno cambiare idea. Quando sei militari muoiono a Kabul (17/9/2009) dichiara il lutto nazionale, ma il giorno dopo chiude la porta ad ogni ipotesi di ritiro che si leva a sinistra (“Nulla da rivedere in missione”, 18/9/2009). E quando l’ala pacifista della sinistra decide di manifestare contro la missione, Napolitano congeda l’iniziativa in modo sprezzante: “Una becera e indegna manifestazione che non conta” (28/9/2009). Sulla Libia è Bossi a rivelare “Berlusconi non voleva la guerra, Napolitano sì” (Monza, 29/7/2011). Deve aver cambiato idea il capo dello Stato. Nei due anni prima aveva accolto più volte il leader libico col picchetto d’onore (“Gheddafi, utile conoscere la sua visione”, 6/10/2009). Qualcuno, poi, lo convince che non si possa starne fuori (“Libia, non possiamo sottrarci”, 21/3/2011). E si dichiara stupito, poi, quando la Germania si sottrae (“Non capisco scelta della Merkel”, 30/3/2011). Altra patata bollente il caso dei due Marò, accusati dell’omicidio di due pescatori, ricevuti in pompa magna al Quirinale come eroi nazionali (“Ingiustamente trattenuti”, 8/6/2012) e rispediti in India dopo una pazza gestione, culminata con le dimissioni del titolare della Farnesina. Il settennato a stelle e strisce si chiude con l’inchino della grazia al colonnello Joseph Romano, condannato a 7 anni per il rapimento di Abu Omar. 
2008-2011 – Re Giorgio alla corte del Cavaliere“Bisogna garantire al Cavaliere la partecipazione politica”, così l’Ansa sintetizza nel titolo il senso del Quirinale per Silvio Berlusconi. L’ultimo favore, forse, è stato fare spallucce sulla questione dell’ineleggibilità, in barba alla legge (Sturzo, 1957) e alle 200mila firme raccolte da Micromega. Col centrodestra al governo Napolitano si impegna al massimo per dimostrare di aver rotto i ponti col passato comunista e concede a Silvio Berlusconi quanto neppure un cattolico di centrodestra come Scalfaro gli aveva mai dato. Restano le leggi vergogna, il legittimo impedimento e i tanti interventi per tenere in sella un Cavaliere ormai disarcionato che la parte più intransigente dell’opinione pubblica antiberlusconiana non gli perdona. Emblematiche alcune risposte date fuori dall’etichetta, a bordo strada, a chi non capiva tanta accondiscendenza. “Non firmare? Non significa nulla, me lo ripresentano” (3/10/2009) risponde a chi lo supplica di non promulgare lo scudo fiscale di Tremonti che garantisce anonimato e di conseguenza impunibilità a mafiosi ed evasori. “Stop a processo breve? Faccio quello che posso”, risponde a una madre di una delle 32 vittime della strage di Viareggio del 2009. Si ricordano anche la finanziaria che raddoppia l’Iva a Sky, i pacchetti sicurezza Maroni con norme xenofobe, il decreto salve-liste del Pdl con tanto di viatico per Berlusconi: “Non era sostenibile l’esclusione del Pdl” (6/3/2010). Un mese dopo promulga il legittimo impedimento (legge 51 del 7/4/2010) che consente al solo presidente del Consiglio e ai suoi ministri di non comparire in aula per 18 mesi e far slittare i processi a carico verso la prescrizione. Napolitano firma nonostante fosse palesemente incostituzionale, come aveva già sancito la Consulta con due sentenze (nel 2001 sugli impedimenti accampati da Cesare Previti, nel 2008 bocciando il lodo Alfano). E sostiene davanti alle persone per bene che “non poteva fare altrimenti”.
Eppure per altri provvedimenti, non incostituzionali ma che semplicemente non condivide, Napolitano si rifiuta di firmare: è successo con il ddl sul welfare che estende l’arbitrato ai rapporti di lavoro. L’impedimento non solo è legittimato da Napolitano ma è anche accompagnato da un monito a distanza di 20 giorni che toglie ogni dubbio sulla propensione a mettere sullo stesso piano politici aggressori e pm aggrediti: l’invito per i magistrati è a “non cedere a esposizioni dei media” e “fare autocritica” (27/4/2010). Ma saranno proprio dei giudici, quelli della Corte Costituzionale, a decretare la breve vita del provvedimento dichiarandone illegittima una parte (l’altra sarà cancellata dai cittadini con il referendum del giugno successivo).
Le concessioni a Berlusconi vanno oltre gli atti formali. Poco o per nulla incline a stigmatizzare concentrazione di potere e pretese di impunità del re del conflitto di interessi, Napolitano si cimenta al contrario in inaspettati salvataggi del Cavaliere proprio mentre sta finendo disarcionato. Clamoroso quello del novembre 2010, quando la pattuglia di Fini sfoltisce le file della maggioranza. Il capo dello Stato si adopera direttamente per evitare la chiusura anticipata della legislatura (“Cercherò di evitare lo scioglimento della camere”, 23/12/2010) e consente a Berlusconi di reclutare i deputati che gli servono (“Da Berlusconi ipotesi di rafforzamento governo”,  16/3/2011). Due anni il rafforzamento del Cavaliere è materia per i magistrati. Anche quando il governo viene bocciato sul rendiconto generale dello Stato Napolitano si precipita a chiarire che “Non c’è obbligo giuridico di dimissioni” (14/10/2011). Quando poi è lo spread a chiedere di staccare la spina, Napolitano dal Colle si mobilita (“Mio dovere intervenire per evitare ora le urne”,  31/12/2011). E evita a Berlusconi un voto che lo avrebbe seppellito definitivamente, rendendo possibile quello che solo un anno prima non lo era, lo scivolo dei tecnici. Nel 2010 Napolitano lo aveva escluso tassativamente (“Non esistono governi tecnici”, 14/12/2010). Un anno dopo cambia idea e dal cilindro presidenziale tira fuori Monti, previa nomina a senatore a vita.
2011-2013 – Il montismo e l’ipoteca sul successoreI partiti affondano negli scandali, inizia la dittatura dello spread che accredita l’emergenza dei conti e il rischio Grecia (“Non possiamo giocare con fallimento”, 15/11/2011). Il governo è ormai murato sullo sfondo, Berlusconi è screditato anche aldilà delle Alpi. Napolitano allora prende in mano il pallino e si accredita personalmente presso il direttorio europeo come garante della stabilità e dei conti. La ricreazione è finita, l’Italia rischia di mandare in tilt la zona Euro. L’ex dirigente comunista è al centro della scena politica mondiale, l’uomo della Provvidenza (Re Giorgio, titola il New York Times). Forte dell’acquiescenza dei partiti, del pressing dei mercati e delle direttive dell’Europa decide di lanciarsi nell’alchimia istituzionale di un governo tecnico. L’unica che consente di non staccare la spina a Berlusconi (che intanto si ricarica per successive imprese) ed evitare il voto a Bersani. Lo spiegherà lo stesso Napolitano di lì a poco (“Non c’era spazio per crisi parlamentare”,   22/12/2012). Dal cilindro presidenziale – con il consenso della parte prevalente della stampa – esce dunque il governo Monti che in 15 mesi porta il Paese dove è oggi, dopo averlo appeso al chiodo della Bce e del Fondo Monetario. Le parole d’ordine sono tagli e rigore, pareggio in bilancio nella Costituzione, fiscal compact e programmi decennali di contenimento del debito sovrano. Ma la cura non sembra funzionare: il debito pubblico aumenta, il contenimento della spesa alimenta la crisi e la disoccupazione, gli stessi impegni assunti con l’Europa si rivelano condizione per l’impoverimento degli italiani. Il tutto per effetto di decisioni di un governo che non è espressione della volontà popolare. Napolitano capisce come cambia il vento e lancia precisi (e inascoltati) moniti: “No tagli alla cieca, impatto su crescita”(31/1/2012), “Spending review ma no tagli indiscriminati” (1/5/2012). 
Dietro al duo Monti-Fornero si accumulano però macerie del rigore cui Napolitano – dalla sua posizione di demiurgo e tutore del governo – poco può concedere (“Esodati, tema da chiarire”,1/5/2012). Mentre i tecnici si fanno sempre più impopolari anche lo spread (il differenziale tra i tassi, termometro della febbre italiana) smentisce la bontà della scelta tecnica. Napolitano lo registra, malcelando un imbarazzo crescente (“Spread inspiegabile, con Monti fiducia cresce”, 5/9/2012). Impossibile per lui fare retromarcia (“Crisi, Italia farà sua parte”, 8/9/2012) e ammettere il fallimento (“Nessuna contraddizione tra austerità e crescita”). Alla fine è Berlusconi a staccare la spina mentre il capo del governo in provetta è folgorato da proprie ambizioni che al Colle causano più di un imbarazzo.
Le urne sanciscono lo stallo e l’irruzione sulla scena politica nazionale del M5S che Napolitano ha ignorato (“Boom? Ricordo solo quello degli anni Settanta”, 8/5/2012) e poi relegato tra le forze eversive e demagogiche (ancora pochi giorni fa, nel riferimento – senza nomi e cognomi ma univocamente interpretato – ai “Moralizzatori fanatici e distruttivi”). Del resto Napolitano non ha mai amato le battaglie dell’antipolitica contro la casta. E infatti i suoi moniti saranno per chi la denuncia, non contro chi la alimenta (“attenti a imprecare contro la casta, dietro c’è il buio di regimi totalitari”,Palermo 8/9/2011). E lo stesso metro ha usato in casa. Il Quirinale, al di là di pochi tagli che sono stati poi riduzioni di personale comandato da altre amministrazioni, è continuato a costare 624mila euro al giorno, 23mila l’ora (in un anno 240 milioni di euro, la Casa Bianca ne costa 136,5, l’Eliseo 112,5 e Buckingham Palace 57). Impossibile fare di più, così Napolitano decide di dare un segnale di persona: il 7 luglio dell’anno scorso una nota del Colle informa della sua rinuncia all’aumento di stipendio su base Istat. Si scoprirà poi che il risparmio era di 68 euro al mese, una rinuncia dal forte valore simbolico.
Sono gli ultimi flash di una presidenza della Repubblica che sembra una monarchia e si chiude invece nel segno dell’impotenza, con un incarico a Bersani fallito (ma non revocato), e l’espediente dei “saggi” a termine, scialuppa per traghettare Pd e Pdl verso un accordo e il suo stesso artefice alla scandenza naturale dell’incarico. Una polemica, tra le altre, ha investito le figure scelte da Napolitano per prender tempo: il numero di donne pari a zero. Quando è stato fatto notare il presidente non ha battuto ciglio, polemica stucchevole. E chi la persegue è in malafede. Proprio un anno fa, del resto, lo stesso Napolitano aveva lamentato davanti ai ragazzi delle scuole di Firenze che “a vedere le percentuali di donne elette in Parlamento in Italia cadono le braccia” (12/5/2011). Quelle tra i saggi sono ancora meno, zero. Il settennato si chiude e Napolitano esce di scena. Non prima d’aver dato ai partiti chiare indicazioni sul suo successore, un presidente che continui il lavoro di tutore dei partiti all’insegna del compromesso, in attesa che il vento dell’ “antipolitica” smetta di soffiare così forte. Re Giorgio, fino alla fine. 
Magistratura-Colle. Le entrate a gamba tesaUn fulmine a ciel sereno, di più, uno schiaffo. Il capo dello Stato, che presiede anche l’organo di autogoverno della magistratura, che interferisce con le indagini sulla trattativa Stato-Mafia, il nodo cruciale di tutta la storia repubblicana. Quando la vicenda investe direttamente il Colle, Napolitano, almeno a parole, si tiene alla larga (per poi sollevare il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo). In realtà già quattro anni prima, nel dicembre 2008, ci fu un suo intervento a gamba tesa con la richiesta alla Procura di Salerno di acquisire gli atti delle indagini che Luigi De Magistris conduceva sul numero due del Csm, Nicola Mancino. Due settimane dopo, quando la polemica esplode sui giornali, Napolitano sceglie la cerimonia di scambio d’auguri con le più alte cariche dello Stato per invocare un guinzaglio ai pm scomodi: “Si pongono con urgenza problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti tra politica e magistratura ed esigenze di misure di riforma volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, rischi di arbitrio e conflitti interni alla magistratura nell’esercizio della funzione giudiziaria, a cominciare dalla funzione inquirente e requirente” (17/12/2008). 
Ma a ben vedere sono innumerevoli i richiami, i moniti, le ruvide prese di posizione verso i magistrati impegnati nelle inchieste su potenti e politici, Berlusconi in primis. Ai tirocinanti ricevuti al Quirinale nel 2008 – presenti il ministro Alfano e il vice del Csm Mancino – Napolitano raccomanda di “non cedere al protagonismo dei media” (12/5/2008). Due mesi dopo nel pacchetto sicurezza di Pdl-Lega spunta un emendamento salva-processi cui manca solo il nome del beneficiario. Il Csm esprime forti perplessità ma ci penserà una lettera di Napolitano a rimettere in riga i consiglieri (“Giustizia, Csm non è giudice costituzionale”,  1/7/2008). E Alfano ringrazia Napolitano perché “riporta il Csm nell’alveo”. Venti giorni dopo un altro monito (“No a spettacolarizzazione dei processi”, 21/7/2008). Ancora due giorni e Napolitano promulga il cosiddetto Lodo Alfano, poi dichiarato incostituzionale. Cinque giorni dopo la firma rincara la dose, offrendo stavolta una sponda al centrodestra sulle intercettazioni (“No all’uso voyeristico”, 28/7/2008). E via con “l’altamente dannoso protagonismo dei pm” e successivi richiami perché “la Magistratura si attenga alle sue funzioni” (27/8/2009). 
Quando si tratta però di difendere i magistrati dalla accuse di Berlusconi, Napolitano non inverte il canone, ma continua a richiamare loro. Sul tavolo del Csm a un certo punto si materializzano quattro pratiche che riguardano gli attacchi del premier ad altrettanti magistrati impegnati nei suoi processi.  Napolitano manda una lettera, non per esprimere loro solidarietà ma per invitare l’assemblea a “discutere in modo equilibrato (…) e di fare un uso responsabile e prudente dell’istituto delle pratiche a tutela dei magistrati (…) il cui uso si giustifica solo quando è indispensabile garantire la credibilità dell’istituzione giudiziaria nel suo complesso da attacchi cosi denigratori da mettere in dubbio l’imparziale esercizio della funzione giudiziaria e da far ritenere la sua soggezione a gravi condizionamenti” (Lettera Csm, 9/10/2009). A fronte di tanti moniti pesano infine tanti atti mancati, silenzi ingombranti. Uno per tutti, la condanna a metà dell’irruzione del Pdl al Tribunale di Milano. Restano invece quelle grazie concesse al di là delle prerogative del Capo dello Stato.
Quella grazia che sfida senso comune e costituzioneSignori si grazia. Per 21 volte Giorgio Napolitano ha fatto ricorso ai propri poteri per concedere altrettanti provvedimenti di clemenza individuale. Non tanti, a dire il vero, i predecessori furono più “generosi” (Scalfaro 339, Ciampi 114). Ma più che i numeri a far discutere sono stati i soggetti beneficiari di una indulgenza che segue esattamente i binari sui quali Napolitano fa scorrere buona parte del suo settennato: quello a destra e quello che corre verso l’Atlantico. Il primo caso che ha fatto discutere ruota intorno al direttore de Il Giornale, quotidiano della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti. Non di grazia si tratta ma di commutazione della pena, si è subito precisato. Ma il risultato è lo stesso: il capo dello Stato di fatto annulla la sentenza di condanna, definitiva, emessa da un giudice a 14 mesi di reclusione per il reato di diffamazione. Solo un disturbo il fatto che nel giorno della grazia la procura di Milano avesse dato parere contrario alla medesima richiesta avanzata da Ignazio La Russa insieme a 328 parlamentari (primo firmatario il segretario del Pdl Angelino Alfano). Sallusti potrà tornare in libertà versando una penale di 15.532 euro. Altrettanto clamorosa la grazia concessa da Napolitano al colonnello Usa Joseph Romano (condannato nel settembre scorso dalla Cassazione a 7 anni per il sequestro Abu Omar).
In occasione di quest’ultimo provvedimento è emersa una questione rimasta a lungo defilata, ovvero se gli atti di clemenza del Capo dello Stato siano conformi alla Costituzione oppure no e quali limiti e prerogative debbano seguire. Risalendo nelle cronache politiche il tema era divenuto oggetto di scontro proprio qualche settimana prima che Napolitano ereditasse il Quirinale da Ciampi. Un anno prima del passaggio di testimone, l’ex capo dello Stato aveva inoltrato al guardasigilli Roberto Castelli la pratica per la grazia a Ovidio Bompressi, ex di Lotta continua condannato a 22 anni con Adriano Sofri per l’omicidio Calabresi. Di fronte al rifiuto di Castelli Ciampi sollevò il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per dirimere un punto controverso: a chi spetta il potere di grazia? Quando e come deve essere esercitato? A rispondere fu una sentenza del 3 maggio 2006 che chiarisce come la grazia presidenziale sia attribuibile per motivi “umanitari” ed “eccezionali” essendo una deroga di fatto al principio di uguaglianza. Chiarisce anche che la scelta non può in nessun modo essere “politica” e precisa infine che debba avvenire a debita distanza di tempo dalla sentenza perché non suoni come una sconfessione del lavoro dei giudici. Ecco, nei casi di Sallusti e di Joseph Romano, la clemenza di Napolitano sembra discostarsi da quei paletti e infrangerli. Ma nella grazia, a volte, quello che conta è chi ringrazia.

martedì 1 gennaio 2013

L’anno nero di Napolitano. Dalla (sfumata) legge elettorale al “boomerang” Monti. - Sara Nicoli


L’anno nero di Napolitano. Dalla (sfumata) legge elettorale al “boomerang” Monti


Il presidente della Repubblica aveva iniziato il 2012 con tutti gli onori, dopo il "capolavoro politico" che aveva portato il professore a palazzo Chigi, blindandolo con la carica di senatore a vita per tenerlo a distanza dalle lusinghe della politica. Ma, alla fine, non è andata così. Il Capo dello Stato ha dovuto incassare anche la sconfitta politica del mancato cambiamento del Porcellum. Oltre allo smacco personale per le telefonate con Mancino, indagato nell'inchiesta sulla Trattativa.

“Un’altra legislatura perduta” per le riforme istituzionali: “Le aspettative, createsi un anno fa con il governo Monti, erano troppo fiduciose”, il “sussulto di operosità riformatrice” è però stato “frenato da resistenze”. E che resistenze. E’ forse questo il passaggio più amaro dell’ultimo anno di Giorgio Napolitano al Quirinale. Nonostante i molteplici sforzi, la “missione” di cui si era fatto carico all’inizio del suo mandato, quella di imprimere una forte scossa riformatrice all’architettura stessa dello Stato, si è scontrata con un Parlamento governato prima dal conservatorismo e dalle leggi ad personam, poi dall’emergenza economica sul finale di legislatura. Per giunta, quello che era stato salutato come il suo capolavoro politico – costringere Berlusconi alle dimissioni dando l’incarico a Monti senza alcuna sbavatura istituzionale, ma con grande attenzione ai dettagli normativi – gli si è poi rivolta contro, non appena Mario Monti si è svestito dei panni del tecnico per indossare quelli del politico. E, ulteriore smacco, usando come “predellino” l’anno di governo e l’agenda di salvataggio dell’Italia in Europa che Napolitano aveva concorso a scrivere. Un vero tradimento. La “brusca conclusione della legislatura” non ha concesso a Napolitano di governarlo. Tante cose sono sfuggite di mano all’11esimo presidente della Repubblica in questo suo ultimo tratto di cammino sul Colle più alto. Quest’ultimo anno, in particolare, è stato davvero gonfio di mille amarezze, quante neppure Berlusconi, con il suo perdurare a palazzo Chigi all’insegna delle proposte di leggi che lo salvassero dai processi, gli avevano dato nel corso degli anni precedenti. Davvero un “annus horribilis” per re Giorgio. Che adesso, come ultima delusionerispetto ad un percorso che lui stesso si era già disegnato (e che è fallito) dovrà pure dare l’incarico al nuovo presidente del Consiglio. Se sarà Monti, la sconfitta potrebbe essere ancora più bruciante.
Un boomerang chiamato Mario Monti - “È giunto il momento della prova, il momento del massimo senso di responsabilità. Non è tempo di rivalse faziose né di sterili recriminazioni. È ora di ristabilire un clima di maggiore serenità e reciproco rispetto. Operiamo tutti, nei prossimi mesi, per il bene comune, facendo uscire il paese dalla fase più acuta della crisi finanziaria. Questo, credo, è ciò che l’Italia si augura”. Era il 13 novembre del 2011. Silvio Berlusconi aveva appena lasciato, dimissionario, il Quirinale e a Mario Monti era stato appena conferito l’incarico di formare un nuovo esecutivo tecnico di emergenza nazionale. Napolitano, autore del progetto del cambio della guardia “morbido” a palazzo Chigi è stato acclamato per giorni come “re Giorgio”, colui che aveva chiuso di botto il ventennio berlusconiano senza che alcun trauma visibile potesse scuotere i mercati internazionali assetati di “sangue” nazionale. Un capolavoro d’astuzia, si disse. E anche una conoscenza profonda dei dettami costituzionali, sfruttate in modo forse inconsueto, ma in modo da fargli centrare l’obiettivo previsto.
Il “capolavoro”, soprattutto, consisteva nell’aver “blindato” la figura di Monti con la carica disenatore a vita in modo da tenerlo a distanza dalle lusinghe e dai trabocchetti della politica. E consentirgli di portare a termine il suo compito senza avere l’assillo di doversi misurare con gli elettori e le urne. Poi, però, Monti ha cominciato a mostrare debolezze e altre fragilità. Ha messo a segno alcuni provvedimenti molto discussi come la legge sul lavoro e quella sulle pensionimentre ancora gli “osanna” sulla sua nomina erano messaggi quotidiani al popolo elettore. Napolitano, all’inizio, ha retto il gioco. E la consuetudine con Monti, nonostante qualche piccolo screzio, è proseguita feconda fino al mese scorso, quando la vanità e le pressioni internazionali (quelle del Ppe, soprattutto) hanno reso evidente a Napolitano l’errore commesso. “Mi trovo a dover chiarire – ecco dunque l’ammissione di Napolitano, il 18 novembre scorso – che su di me ricadrà un compito nettamente diverso da quello che mi toccò assolvere nel novembre del 2011”. Amarezza vera, dunque. E, forse, neppure la più pesante.
La successione sfumata - Si disse, nel novembre del 2011, che con l’incarico a Monti, Napolitano si fosse anche scelto il suo successore “naturale” alla guida del Paese. Un’ipotesi che Napolitano non ha mai ufficialmente negato. Oggi, dopo la “salita” di Monti in politica, anche quel desiderio (legittimo, almeno nei primi e peggiori momenti della crisi) trova meno concretezza; Monti potrebbe tornare a palazzo Chigi, si diceva. Alla guida di un governo politico, stavolta, ma che comunque sarà classificato come Monti bis. Per il nuovo inquilino del Quirinale, insomma, la partita oggi è più aperta che mai. Chissà se anche questa, tra le tante, è un’amarezza.
Il naufragio annunciato della legge elettorale - Delusioni e sconfitte, dunque. La più feroce delle quali riguarda senz’altro la legge elettorale. Che i partiti non fossero in alcun modo intenzionati a sostituire l’adorato (per loro) Porcellum lo si era capito da tempi immemorabili, prima ancora che la questione esplodesse a Parlamento chiuso per le vacanze estive. E con i due presidenti delle Camere, Fini e Schifani, che in barba ad ogni prudenza andavano annunciando l’apertura straordinaria delle Camere proprio per discutere dell’annosa questione. Su questo punto, Napolitano si è dimostrato nel tempo peggiore di un martello pneumatico. Proprio l’11 agosto scorso, a saracinesche parlamentari abbassate, il Presidente della Repubblica esplose in un richiamo ai partiti di rara forza: “Resto inquieto nel non vedere ancora vicine ad un approdo le discussioni, che procedono verso continui alti e bassi, su una nuova legge elettorale”. E ancora: “Debbo ricordare – si leggeva in una missiva inviata proprio a Fini e Schifani – che su questa materia consultai nel gennaio scorso i rappresentanti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, ricevendone indicazioni largamente convergenti anche se non del tutto coincidenti a favore di una nuova legge elettorale”. Tutto è stato vano. Anche se ci ha provato fino all’ultimo, fino al 28 novembre scorso, in pratica fuori tempo massimo: “Rispettate gli impegni – intimò ai partiti – si tratta di una riforma essenziale per la vita democratica”. Non è stato ascoltato.
La trattativa Stato-Mafia - Giorgio Napolitano ha voluto combattere una battaglia personale contro chi aveva solo osato immaginare la possibilità di un suo intervento sui giudici di Palermo per “salvare” l’ex ministro Nicola Mancino, indagato nell’ominima inchiesta della Procura siciliana. E’ stato il Fatto Quotidiano, il 16 giugno del 2012, a svelare, con una intervista al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, l’esistenza di pressioni esercitate da Mancino su Napolitano. Ed è scoppiato l’inferno. Il 20 giugno, al culmine di una campagna a tappeto del Fatto, è emersa con chiarezza la strategia messa in atto dal Colle per coprire Mancino. Napolitano ha dato fuoco alle polveri. Ci si sarebbe aspettati dal Presidente della Repubblica un’operazione opposta, di pura trasparenza. Che, invece, non è arrivata. Anzi. Proprio per ribadire l’insindacabilità di ogni suo atto,il Capo dello Stato ha sollevato un conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Un atto di forza nei confronti della Procura di Palermo su cui, alla fine, l’ha avuta vinta, anche se l’intera vicenda resta pesante come un macigno sull’intero mandato istituzionale. Tutto resta ancora da chiarire.
Il silenzio su Ilva e esodati - Nel frastuono delle polemiche sulla trattativa Stato-Mafia, Napolitano ha omesso di fare pressione su due casi che restano ferite aperte nella vita sociale del Paese. Il capitolo “esodati” e l’altro, senz’altro scottante, dell’Ilva di Taranto. Ebbene, sul primo fronte, trattandosi di un macroscopico errore di calcolo (solo?) commesso dal governo Monti, Napolitano si è limitato a dire che la questione “restava da chiarire” all’interno delle “ineludibili riforme” avviate dal governo. Frasi pronunciate il primo maggio del 2012 (la festa del Lavoro, una beffa?) e oggettivamente troppo sintetiche per essere considerate una vera e propria presa di posizione. Un’emergenza trattata, forse, con troppa leggerezza, al pari della questione Ilva, liquidata il 29 novembre scorso come troppo complicata per mandare messaggi”
La battaglia contro “l’antipolitica” - Il termine, coniato un po’ a casaccio per classificare un fenomeno politico di rottura con il sistema esistente, è stato brandito da Napolitano come una clava per colpire un solo personaggio: Grillo. L’invito al Paese è stato quello a tenere duro, “senza abbandonarsi a una cieca sfiducia nei partiti – ecco l’arringa del Presidente del 25 aprile – come se nessun rinnovamento fosse possibile, e senza finire per dar fiato a qualche demagogo di turno”. In quell’occasione, Napolitano prese in prestito un pezzo di storia: “Vedete, la campagna contro i partiti, tutti in blocco, contro i partiti come tali, cominciò prestissimo dopo che essi rinacquero con la caduta del fascismo: e il demagogo di turno fu allora il fondatore del movimento dell’Uomo Qualunque, un movimento che divenne naturalmente anch’esso un partito, e poi in breve tempo sparì senza lasciare alcuna traccia positiva per la politica e per il Paese”. Quindi, il monito: “Ci si fermi a ricordare e a riflettere – disse – prima di scagliarsi contro la politica; rifiutare i partiti in quanto tali, dove mai può portare?”. Il dove non è ancora messo in evidenza, ma di certo Grillo ha rappresentato l’ennesimo schiaffo alla liturgia politica e sociale del Capo dello Stato. Rimarrà di certo negli annali la battuta che Napolitano regalò alle cronache dopo l’affermazione politica del Movimento 5 Stelle alle elezioni Regionali: “Non vedo il boom di cinque stelle”. L’ex comico se ne risentì. “Sono rimasto a bocca aperta, spalancata, come un’otaria – ecco la risposta – ho le mascelle che mi fanno ancora male. Là dove non hanno osato neppure i gasparri e i bersani ha volato (basso) Napolitano”. Grillo sfoderò la Costituzione ricordando che “il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale” (articolo 87 della Costituzione), dunque “rappresenta anche il MoVimento 5 Stelle e anche, dopo queste elezioni, i suoi circa 250 consiglieri comunali e regionali scelti dai cittadini. Il boom del M5S non si vede, ma si sente. Boom, boom, Napolitano!”. Se anche questo non è uno schiaffo…
E che dire della nomina di Saverio Romano a Ministro, anche se con riserva?