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venerdì 24 settembre 2021

La Legge del Dipende. - Marco Travaglio

 

Per la serie “La sai l’ultima?”, la sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma condanna solo la mafia e assolve lo Stato. E così afferma un principio che sarebbe perfetto per l’avanspettacolo, un po’ meno per il diritto penale: trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato. Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni della Corte d’assise d’appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende: è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall’altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci.

Ricapitoliamo. Il boss Bagarella – a cui a questo punto va tutta la nostra solidarietà – si becca 27 anni di galera per aver minacciato a suon di bombe (insieme a Riina e Provenzano, prematuramente scomparsi) i governi Amato e Ciampi nel 1992-’93 e per aver tentato di minacciare pure il governo Berlusconi nel ’94. Il medico mafioso Cinà – a cui a questo punto va la nostra solidarietà – si becca 12 anni per il suo ruolo di tramite e postino dei pizzini e dei papelli che si scambiavano Vito Ciancimino, imbeccato dai carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, e il duo Riina-Provenzano. Ma i carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, che dopo l’assassinio di Salvo Lima (marzo ’92) e soprattutto dopo Capaci (maggio ’92) commissionarono al mafioso Ciancimino la trattativa con Cosa Nostra per salvare la pelle a politici collusi che rischiavano la pelle per non aver mantenuto gli impegni sull’insabbiamento del maxiprocesso, vengono assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Quindi il fatto – cioè non tanto la trattativa, quanto la sottostante “minaccia a corpo politico dello Stato” attivata a suon di stragi da Cosa Nostra e veicolata ai governi Amato e Ciampi dal trio del Ros – sussiste eccome: però, quando trasmettevano le minacce mafiose per mettere in ginocchio i governi con l’unico effetto di rafforzare Cosa Nostra e di scatenare altre stragi, a partire da quella di via D’Amelio, i tre ufficiali dei carabinieri non commettevano reato. Perché? Lo scopriremo dalle motivazioni. Probabilmente mancava il “dolo”, l’intenzionalità. Lo facevano a loro insaputa? Pensavano di agire a fin di bene? Erano sovrappensiero? Non capivano niente? Sia come sia, la lotta alla mafia era in buone mani. Parliamo dello stesso Ros che nel ’92 non perquisì il covo di Riina, lasciandolo setacciare ai mafiosi favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Nel ’93 non arrestarono Nitto Santapaola a Terme di Vigliatore (Messina). E nel ’95 non catturarono Provenzano, che il pentito Ilardo gli aveva consegnato in un casolare di Mezzojuso, favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Dei fulmini di guerra.
Nel ’94 lo scenario cambia: Cosa Nostra sospende l’ultima strage, quella fallita il 23 gennaio allo stadio Olimpico di Roma, e tre giorni dopo B. annuncia la sua discesa in campo. Poi vince le elezioni grazie anche ai voti di mafia e ’ndrangheta. Bagarella e Brusca (colpevole anche lui, ma prescritto) mandano Vittorio Mangano a trovare il suo vecchio capo Marcello Dell’Utri nella sua villa di Como per ricordargli ciò che deve fare il governo dell’amico Silvio. Che infatti il 13 luglio infila tre norme pro mafia nel decreto Biondi. Anche questo episodio sembra confermato dal dispositivo della sentenza: infatti Bagarella e Brusca sono ritenuti colpevoli anche di quella minaccia al governo B.. Una minaccia, però, non più consumata (altrimenti verrebbe ricondannato anche Dell’Utri), ma soltanto “tentata”. Così anche Dell’Utri può essere assolto “per non aver commesso il fatto”: cioè per non aver trasmesso a B. la minaccia di Bagarella&C. portata da Mangano. Evidentemente la Corte non ritiene sufficienti le prove che B. fosse stato avvertito dal suo compare. Si sa che Marcello a Silvio nasconde sempre tutto. Mangano lo avvisa che, senza leggi pro mafia, le stragi ricominciano, e cosa fa? Si tiene tutto per sé e non dice niente al suo capo e amico, mettendone a rischio la pelle. Fortuna che Silvio, ignaro di tutto, si precipita ugualmente a varare tre norme pro mafia. Si pensava che fosse sotto minaccia e agisse per paura. Ora invece scopriamo che lo fece per piacer suo: una passione personale, un afflato spontaneo, una sintonia istintiva con Cosa Nostra. Un viatico in più per il Quirinale.
In attesa di leggere le motivazioni, torna alla mente lo sfogo di Riina con un agente della penitenziaria nel 2013: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. Per una volta nella vita, diceva la verità: fu lo Stato, tramite il Ros, ad avviare la trattativa. E anche questa sentenza lo conferma. Tutti i negazionisti vengono sbugiardati: le parole di Massimo Ciancimino, Brusca e decine di pentiti sono confermate. I veri bugiardi sono le centinaia di uomini dello Stato che prima hanno taciuto e poi negato tutto: a saperlo prima che la trattativa Stato-mafia è reato solo per la mafia, avrebbero confessato anche loro con un bell’“embè?”. Bastava aver letto Sciascia: “Lo Stato non può processare se stesso”. E, quando gli scappa di processarsi, presto o tardi si assolve.

ILFQ

Per la Trattativa condannati solo i mafiosi, assolti Dell’Utri e i carabinieri: ecco perché (in attesa delle motivazioni dell’Appello). - Giuseppe Pipitone

 

Come mai i giudici del processo di secondo grado sono arrivati a decisioni così nettamente diverse da quelle del primo? Per ogni valutazione, ovviamente, occorrerà aspettare di leggere le motivazioni. Dal dispositivo della sentenza, però, emergono già tre fatti che aiutano a comprendere quale percorso ha fatto la corte per arrivare a cancellare gran parte delle condanne.

Alla fine è rimasta una trattativa mafia-mafia. È con una battuta che un investigatore commenta la sentenza del processo di secondo grado, uscendo dal bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Sono circa le 17 e 30 quando il presidente della corte d’Assise d’Appello, Angelo Pellino, seguito dal giudice a latere, Vittorio Anania, e dai sei popolari, compare nell’aula del penitenziario siciliano. Poco più di due minuti e mezzo per leggere il dispositivo della sentenza che nei fatti cancella gran parte delle condanne del primo grado. Gli ex alti ufficiali del Ros Mario MoriAntonio Subranni e Giuseppe De Donno assolti dall’accusa di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato perché il fatto non costituisce reato. L’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto. Confermata parzialmente la condanna per il boss Leoluca Bagarella, che grazie a una riqualificazione ottiene uno piccolo sconto di dodici mesi sulla pena, abbassata a 27 anni. L’unica condanna confermata in toto, 12 anni di carcere, è quella per Antonino Cinà, medico di Totò Riina. Una decisione quest’ultima che, come vedremo, aiuta a intuire quale possa essere il senso delle decisioni dei giudici.

I tre elementi del dispositivo (in attesa delle motivazioni) – Per la corte d’Assise di Palermo, dunque, i colpevoli del processo sulla cosiddetta Trattativa tra esponenti dello Stato e boss mafiosi sono solo questi ultimi. O meglio quelli rimasti in vita: i vertici di Cosa nostra, Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono morti durante il processo di primo grado, mentre per Giovanni Brusca è stata confermata la prescrizione del reato. Unici condannati, dunque, sono Bagarella e Cinà mentre incassano l’assoluzione – seppur con formule diverse – i carabinieri e l’unico politico rimasto a processo, cioè Dell’Utri. In primo grado avevano preso condanne pesanti: 12 anni all’ex senatore di Forza Italia, a Mori e a Subranni, otto per De Donno. Come mai dunque i giudici del processo di secondo grado sono arrivati a decisioni così nettamente diverse da quelle del primo? Per ogni valutazione, ovviamente, occorrerà aspettare di leggere le motivazioni, che saranno depositate tra tre mesi. Dal dispositivo della sentenza, però, emergono già tre fatti che aiutano a comprendere quale ricostruzione ha fatto la corte per arrivare a cancellare le condanne emesse il 20 aprile del 2018.

“Il fatto non costituisce reato”: dunque è stato commesso – La prima cosa da tenere a mente è che gli imputati erano accusati del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Per la pubblica accusa, dunque, erano tutti colpevoli di aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 e il 1994 le minacce provenienti dai vertici Cosa nostra: altre bombe e altre stragi se lo Stato non avesse messo un freno alla lotta alla mafia. E quindi, secondo la sentenza di primo grado, i mafiosi Bagarella e Cinà e i carabinieri Mori, De Donno e Subranni recapitarono il ricatto mafioso ai governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi; il medesimo Bagarella e Dell’Utri invece trasmisero le richieste al primo esecutivo di Silvio Berlusconi. Scegliendo due formule diverse di assoluzione, dunque, la corte d’Assise d’Appello considera diversi i due segmenti del processo. Assolvere i carabinieri “perchè il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è, è stato commesso ma evidentemente senza dolo, neanche eventuale: non c’era insomma né volontà e neanche consapevolezza di potere infrangere la legge. Per la corte Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con Cosa nostra ma l’obiettivo non era agevolare la mafia o far piegare le istituzioni al volere dei boss.

Il giudicato su Mannino e le parole di Firenze – È possibile che su questa scelta abbia influito la sentenza su Calogero Mannino: secondo l’originaria tesi dell’accusa l’ex ministro della Dc è l’uomo che chiede ai carabinieri di aprire la trattativa, perché intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Mannino, però, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assolto in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri, per il giudici del rito abbreviato si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Una tesi che l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, adottata dalla corte d’Assise d’Appello, potrebbe avvalorare. Bisognerà aspettare le motivazioni per capirlo. Un’altra ipotesi può essere legata al fatto che essendo i carabinieri esponenti dello Stato non potevano trasmettere una minaccia allo stesso corpo istituzionale di cui fanno parte: in pratica – sembra essere il ragionamento dei giudici – se comunicarono le richieste di Riina alla politica fu solo per cercare di mettere un freno alla violenza di Cosa nostra, non per limitare l’azione dello Stato nella repressione dei boss. D’altra parte i primi a parlare di trattativa furono proprio Mori e De Donno al processo di Firenze sulle stragi del 1993: riferendosi ai mafiosi, il generale spiega di essersi chiesto “non si può parlare con questa gente?”. È a quel punto De Donno aggancia Vito Ciancimino: ecco un altro motivo che potrebbe spiegare perché i giudici della corte d’Assise d’Appello li hanno assolti con la formula del fatto che non costituisce reato, dichiarando però implicitamente che il medesimo fatto è stato commesso.

Cosa vuol dire la condanna di Cinà – D’altra parte che le condotte dei militari ci siano state, seppur senza alcun tipo di dolo, lo dimostra la conferma della condanna di Cinà. Il medico di Riina è accusato di aver fatto da postino al papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi. Quel pezzo di carta era destinato a Massimo Ciancimino, che lo avrebbe passato al padre Vito e da quest’ultimo sarebbe poi stato consegnato ai carabinieri. Quella di Cinà è l’unica condanna confermata integralmente dalla corte d’Assise d’Appello: vuol dire che in questo caso per i giudici il reato di violenza o minaccia a un corpo dello Stato si è consumato in modo totale. Cosa che evidentemente non hanno ravvisato per i carabinieri.

Il caso Bagarella e la minaccia solo tentata a B. – Ancora diverso è il caso di Bagarella, per il quale la condanna relativa ai fatti del 1992 e 1993 è stata confermata. Nel 1994, invece, secondo la corte il ricatto al governo Berlusconi non si è consumato: ecco perché ha modificato il reato di minaccia ad un Corpo politico dello Stato in una tentata minaccia. Ne deriva che questa parte del reato contestato a Bagarella si è già prescritta, per questo motivo la condanna del boss mafioso è stata abbassata di un anno. Vuol dire che per i giudici non c’è la prova che il messagio intimidatorio sia arrivato a Palazzo Chigi, o comunque che il governo in carica l’abbia recepito, reagendo di conseguenza. Qui sarà molto interessante leggere in che modo la corte motiverà questa decisione. Nelle 5252 pagine che la corte d’Assise aveva utilizzato per spiegare i motivi delle condanne di primo grado si considerava provata che la reazione del primo governo Berlusconi alle minacce mafiose si era concretizzata con l’inserimento di una norma nel decreto Biondi, meglio noto come “salvaladri“. Era una modifica minima e molto tecnica, di cui all’epoca non si accorsero né i giornali e neanche i ministri competenti, che aveva come obiettivo quello di alleggerire la custodia cautelare per i mafiosi. Nello stesso decreto c’era un’altra modifica che obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole. Di queste modifiche, sempre secondo la sentenza di primo grado, Dell’Utri informò in “anteprima” Vittorio Mangano, che la riferì a sua volta ad altri mafiosi.

L’assoluzione di Dell’Utri – Evidentemente a questa ricostruzione la corte d’Assise di Appello non crede, visto che ha assolto lo stesso Dell’Utri per non aver commesso il fatto. Quindi l’ex senatore, già condannato in via definitiva per concorso esterno fino al 1992, considerato fino a quella data trait d’union tra Berlusconi e Cosa nostra, due anni dopo non ha più rivestito il ruolo di uomo cerniera tra Berlusconi e i boss. E dunque per i giudici non è Dell’Utri che ha recapitato il messaggio estorsivo dei mafiosi all’uomo di Arcore. O in ogni caso non c’è la prova che l’ex senatore avesse comunicato a Berlusconi il contenuto degli incontri con Mangano, inviato proprio da Bagarella (e da Brusca) nella villa di Como per “consegnare” la minaccia mafiosa. Una ricostruzione, quella della corte d’Assise d’Appello, che potrebbe pure collegarsi al fatto che Dell’Utri è stato assolto in via definitiva dall’accusa di concorso esterno per i fatti successivi al 1992. All’epoca l’ex senatore commentò quella condanna solo per gli anni precedenti con una provocazione: “I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica”.

ILFQ

giovedì 29 novembre 2018

La Verità: “Lavoro nero e babbo Renzi, tutte le sentenze” - Giacomo Amadori e Simone Di Meo



Attaccando il genitore di Di Maio, il padre dell’ex premier si è tirato la zappa sui piedi. Il suo passato è pieno di brutte storie di dipendenti irregolari. E anche sugli abusi edilizi non ha affatto le carte in regola. 

Davanti alle accuse contro il papà di Di Maio, Tiziano Renzi ha colto la palla al balzo: «Mai avuti dipendenti in nero, né capannoni abusivi», ha tuonato orgoglioso, Peccato che, come dimostrano sentenze e verbali, abbia avuto entrambi anche lui.
Per riabilitare sé stesso, Tiziano si è scagliato contro Di Maio senior: «Non ho dipendenti in nero, né capannoni abusivi» Peccato che ci siano sentenze contro di lui per lavoratori irregolari e un verbale dei vigili urbani su fabbricati senza licenza
Se Tiziano Renzi non esistesse bisognerebbe inventarlo. L’altro ieri pomeriggio, saltando sull’onda montante contro Antonio Di Maio, dimentico di essere plurindagato per reati gravi, ci ha tenuto a prendere le distanze dal genitore del vicepremier: «Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88 euro di tasse». Tre frasi che valgono probabilmente per il presente, ma non per il passato. Infatti, per quanto riguarda i lavoratori in nero, abbiamo già scritto che diverse sentenze hanno condannato Renzi senior a risarcire strilloni e volantinatori per l’irregolarità dell’inquadramento. Quanto ai guadagni, quando il figlio non era premier, nel 2013, Renzi senior dichiarò all’erario 4.952 euro, non molto di più del padre di Luigi Di Maio. Ma negli anni successivi, con il figlio Matteo a Palazzo Chigi, il reddito è salito sopra i 100.000 euro.

COLATA DI CEMENTO.

Infine non si capisce perché Tiziano Renzi abbia voluto infilarsi, non richiesto, nella questione dei capannoni. Nel febbraio 2002 i vigili di Rignano sull’Arno entrano nel piazzale della sua Chil Srl per un accertamento e trovarono diverse opere per cui non erano state rilasciate concessioni edilizie né autorizzazioni: un capannone con struttura in ferro e tamponatura con pannelli in plastica e lamiera, una tensostruttura di 24 metri per 10, un’altra di 22 per 10,5, un piccolo locale in cemento armato e un muro di notevoli dimensioni dello stesso materiale, Il piazzale era stato coperto da una colata di cemento. La polizia locale osservò che anche se quasi tutte le strutture erano ancorate al suolo tramite bulloni, e quindi apparentemente precarie, in realtà non sembravano destinate «a risolvere esigenze contingenti e temporanee» e venivano utilizzate per ricoverare mezzi e macchinari. Insomma erano vere e proprie strutture abusive.
C’è poi la questione dei lavoratori con contratti irregolari. L’avvocato genovese Simona Nicatore, che ha difeso una coppia di nigeriani ingaggiati dalla Arturo Srl, di cui è stato amministratore proprio il papà dell’ex premier, non usa giri di parole: «È stata riconosciuta l’illegittimità del licenziamento verbale dei miei clienti e la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato che non era regolarizzato». Facciamo la fatidica domanda: si può parlare di lavoro nero? «Sì», è la risposta.

I NIGERIANI.

I due sfortunati ex distributori di giornali si chiamano Evans Osahon Omoigui e Mercy Omorodion. All’epoca distribuivano agli abbonati, con la loro auto, le copie del Secolo XIX di Genova. I turni erano terribili. «Il mio fidanzato lavorava tutti i giorni della settimana, sette ore al giorno. Se i giornali arrivavano in ritardo, lavorava fino alle 8-8.30», racconta la donna al giudice del lavoro che si occupa del caso. «Non c’erano controlli», prosegue la nigeriana. «Qualche volta è successo che il cliente non ha trovato il giornale dietro alla porta, in questi casi ci decurtavano una parte dello stipendio». Per quell’attività la paga era di 28 euro lordi al giorno da cui detrarre eventuali penalità. Come succedeva quando, a causa della rottura della macchina, la copertura della linea saltava. Dalla Arturo Srl tolsero a Evans «300 euro» in un colpo solo.
L’uomo venne licenziato, a voce, due mesi dopo la lettera di preassunzione firmata da babbo Tiziano. Aveva osato chiedere la regolarizzazione e il rimborso della benzina insieme a un’altra decina di connazionali. «Ho trovato i cancelli chiusi», spiegò al magistrato. «Sono comunque riuscito a entrare e ho parlato con il nostro supervisore capo, Adeniji. Mi disse che non poteva più farmi lavorare. E che per chiarimenti dovevo rivolgermi al signor Tiziano Renzi di Firenze». Evans fece ricorso alla magistratura e ottenne giustizia, ma servì a poco. Il 20 settembre 2011 il giudice del lavoro di Genova, Margherita Bossi, condannò la Arturo Srl a pagare circa 90.000 euro e inviò una lettera di precetto al «sig. Tiziano Renzi, presso la sua residenza in Rignano sull’Arno». Ma il babbo dell’ex premier aveva già chiuso bottega e non pagò mai. Comunque nel magnifico mondo dell’imprenditoria renziana non sono solo gli africani ad essere sfruttati.
È emblematica la vicenda dei lavoratori della Delivery Service, che questo giornale ha raccontato circa un anno fa. Per il fallimento di quell’azienda i genitori del fu Rottamatore sono indagati per concorso in bancarotta, visto che dietro ai rappresentanti legali della cooperativa, secondo gli inquirenti, a tirare le fila c’erano Tiziano Renzi e il suo ex socio di fatto Mariano Massone.
Nel luglio 2010 il direttore dell’ufficio di Pisa, Luigi Corcione, preso dallo sconforto, informa i due referenti che «non intendeva trovarsi in situazioni scomode suo malgrado», e per questo dà le dimissioni. Nessuno gli risponde. E allora lui prende la sua auto, la parcheggia all’aeroporto e vola in Spagna. L’uomo, in preda allo stress, sembra che sia andato a ritrovare sé stesso a Santiago di Compostela. Nel piazzale restano e resistono i lavoratori. Uno solo di loro è assunto in modo ufficiale, mentre un altro paio hanno una posizione parzialmente regolarizzata. Gli altri erano dei fantasmi.

ACCUSE PESANTI. 

Scrivono: «Accusiamo e denunciamo […] che la situazione lavorativa, nella quale siamo tutti coinvolti e che non possiamo, dal primo giorno a oggi. definire professionale, si è fatta per noi parzialmente assunti e ancora più precari al nero (contro la nostra volontà) sempre più insostenibile». In due diverse istanze, tra luglio e agosto 2010, mettono nero su bianco in che condizioni siano costretti a operare. Sono inquadrati come corrieri, mentre invece gli «tocca fare facchinaggio». Nella denuncia accusano i dirigenti delle società di aver inscenato un “valzer delle bugie” e di non aver mantenuto alcuna «rassicurazione su assunzioni promesse e sempre rimandate».

DOPPIA MORALE.

E se i Renzi, padre e figlio, si sono scandalizzati per il dito ferito di Salvatore Pizzo, l’operaio in nero dell’azienda del papà di Luigi Di Maio (Tiziano ha detto di non aver mai registrato incidenti sul lavoro in azienda), potrebbero dare un’occhiataa quel che accadde a Pisa. Alcuni dei dipendenti della Delivery hanno letteralmente rischiato la vita: Fabio M. ha subito un incidente sul lavoro che l’ha costretto a tre giorni di riposo forzato; Massimiliano C. ha perso il controllo del mezzo e solo per miracolo non ha riportato ferite; Valerio B. è stato costretto invece a restare un mese a riposo per un frontale su strada. Nonostante tutto, l’unica preoccupazione dimostrata dall’azienda fu quella di informarsi […] dello stato salute… dei furgoni», contestano nella loro lettera di protesta i lavoratori. I quali uscivano con camioncini con l’assicurazione «scaduta», pur dovendo garantire dalle 25 alle 30 consegne al giorno ed erano costretti ad anticipare i soldi del gasolio e dei pedaggi. Si erano persino ritrovati – da un momento all’altro – con un taglio dei pagamenti nell’ordine di «250-300 euro al mese», senza sapere il motivo. Tutto era precario. Il lavoro, l’esistenza, le prospettive.
«A loro (i vertici della coop, ndr) non gliene frega un cazzo se noi abbiamo bisogno di certezze o di essere regolarmente pagati perché abbiamo famiglia», fu la spiegazione che un esasperato Corcione offrì ai dipendenti a conclusione dell‘ennesimo, inutile, faccia a faccia. Prima di scappare. Lontano.
Fonte: infosannio del 28 novembre 2018

lunedì 10 dicembre 2012

Processo Ruby, Boccassini: “B. vuole dilatare i tempi per arrivare a elezioni”.


Ilda Boccassini, il capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano


E' il commento in aula del procuratore aggiunto di Milano all'assenza ingiustificata della ragazza marocchina che avrebbe dovuto testimoniare oggi. L'avvocato di Karima ha spiegato di aver ricevuto un sms in cui Karima dice di essere all'estero. Scontro difesa e accusa, l'avvocato Ghedini: "Intollerabile, questa è una aggressione".

Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi si riverbera immediatamente sui i suoi processi. E così oggi Ruby, la marocchina ospite delle serate ad alto tasso erotico di Arcore quando era ancora minorenne e invano spacciata per la nipote dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, non si è presentata in aula per testimoniare. “Questa è una strategia per dilatare i tempi, del processo per arrivare alla campagna elettorale” ha affermato il procuratore aggiunto di MIlano Ilda Boccassini nel corso dell’udienza del processo Ruby che vede il leader del Pdl imputato per concussione e prostituzione minorile. La ragazza oggi non si è presentata a testimoniare senza documentare il motivo dell’assenza. E in aula è stato scontro tra accusa e difesa
”Ho cercato di mettermi in contatto con la ragazza, ma il suo cellulare è staccato e anche quello del suo ragazzo, lei mi ha mandato un sms per dire che è all’estero ma non ho la documentazione di questo viaggio e non so quando tornerà ”ha dichiarato Paola Boccardi, legale di Ruby. L’avvocato ha spiegato così l’assenza ingiustificata della giovane che deve testimoniare nel processo a Silvio Berlusconi, citata dalla difesa dell’ex premier. Il legale ha chiarito che non può dire se la ragazza riuscirà ad essere in aula il 17 dicembreNon è la prima che i testi e la stessa Ruby non si presenta in aula: A causa di concomitanti impegni parlamentari non avevano potuto esser presenti in aula i due ex ministri Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna il 31 ottobre scorso.  
La difesa dell’ex premier ha chiesto di citare nuovamente Ruby come teste per il 17 dicembre, ma Boccassini ha chiesto la ‘decadenza’ del teste perché non crede ai motivi dell’assenza: che non è “documentata. Io non credo a quello che ci viene prospettato in udienza, questa è una strategia per dilatare i tempi del processo e arrivare in campagna elettorale”. Ghedini ha ribattuto: “Questo è intollerabile, questa è una aggressione alla difesa”. Boccassini ha aggiunto: “Conosco le strategie della difesa dell’imputato Berlusconi da tempo”. I giudici, dopo essersi ritirati in camera di consiglio per valutare tempi e modi dell’eventuale testimonianza di Ruby, hanno citato nuovamente la teste per l’udienza del 17 e hanno dato disposizioni alla Polizia giudiziaria di cercarla “in tutto il territorio nazionale”. I magistrati hanno quindi respinto la richiesta del Pm di considerare ‘decaduta’ la testimone. Se alla prossima udienza non si presenterà i giudice potranno decidere la misura dell’accompagnamento coatto. L’esame della teste “non è superfluo né irrilevante” affermano i giudici che chiedono alle forze dell’ordine rintracciarla “anche acquisendo notizie dalla famiglia d’origine e dal suo compagno”. L’aggiunto Boccassini ha suggerito di fare accertamenti presso gli uffici di immigrazione di diverse questure italiane: “Se è andata all’estero – è il ragionamento del magistrato – dovrebbe risultare”. La presidente del collegio, Giulia Turri, ha assicurato che il tribunale “non lascerà nulla di intentato” per verificare dove si trova Ruby
“Mi sembra di capire che ci fosse fretta da parte della procura di arrivare alla sentenza prima delle elezioni” ha poi affermato fuori dall’aula Ghedini. In aula Boccassini aveva ipotizzato anche la fissazione di un’udienza prima delle festività natalizie per recuperare quella “persa” oggi, a causa dell’assenza di Ruby. ”E’ la Procura di Milano che ha aperto la campagna elettorale”. A un cronista che gli faceva notare come la campagna elettorale sia sbarcata oggi nel processo sul caso Ruby, Ghedini ha risposto: “La campagna elettorale l’ha aperta la procura, che ha chiesto di fare udienza anche a Natale per arrivare a una sentenza che i pm ritengono possa essere di condanna prima delle elezioni”. Secondo Ghedini dunque, i pm milanesi vogliono “un risultato pre-elettorale”.  A chi gli chiedeva invece se la difesa avanzerà legittimi impedimenti per Berlusconi nel corso della campagna elettorale, Ghedini ha risposto: “Lo valuteremo di volta in volta, comunque noi non abbiamo mai opposto legittimi impedimenti”. Ciò che è grave, secondo Ghedini, “è l’accelerazione prima di una campagna elettorale di un processo che si prescriverà nel 2025, un processo che è andato molto più rapidamente di quelli per gli imputati detenuti”. Secondo lo storico legale dell’ex premier, le frasi pronunciate stamani dal pm Ilda Boccassini riguardo alla presunta strategia dilatoria della difesa per arrivare alle elezioni sono “teorie diffamatorie”.
Già in passato la Procura di Milano aveva lamentato le improvvise e a volte ingiustificate assenze dei testi citati chiedendo quindi che per le udienze fossero chiamati in Tribunale a Milano più testimoni. Eppure poco meno di due mesi fa la ragazza, invano spacciata per la nipotina di Mubarak e oggi madre di una bambina, aveva dichiarato che non vedeva l'ora di dire la verità in aula e cioè che alle feste era la meno disinvolta e che non ha mai avuto rapporti sessuali con l’ex premier. Lo stesso Berlusconi ha sempre negato qualsiasi intimità con la ragazza, anche se diverse testi hanno confermato che le serate ad Arcore era un vero e proprio “puttanaio”