martedì 7 febbraio 2017

Stadio della Roma, Berdini: “Lo voglio fare, ma non diamo le chiavi della città al privato. Il club receda dai suoi appetiti”.

Stadio della Roma, Berdini: “Lo voglio fare, ma non diamo le chiavi della città al privato. Il club receda dai suoi appetiti”

Nel giorno dell'incontro tra il club e i vertici del Campidoglio, l'assessore all'Urbanistica mette in fila i suoi caveat sulla fattibilità dell'operazione prevista a Tor Di Valle: "Il costruttore Parnasi vuole qualcosa come 600 mila metri cubi regalati".

Il nuovo stadio della Roma “lo voglio fare“, ma la società giallorossa deve “recedere dai suoi appetiti“. Tradotto: deve ridurre le cubature del complesso commerciale che dovrebbe sorgere attorno all’impianto sportivo e che rende l’intera operazione sostenibile economicamente. Nel giorno dell’incontro tra il club, il costruttore Luca Parnasi e i vertici del Campidoglio, l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini mette in fila i suoi caveat sulla fattibilità dell’operazione da 1,5 miliardi di euro prevista nell’area dell’ex ippodromo di Tor di Valle.
L’offensiva del club, lanciata in vista dell’incontro previsto nella sede dell’assessorato all’Eur e affidata a Luciano Spalletti e Francesco Totti con lo slogan #FamoStoStadio, risuona ancora su pagine dei quotidiani e social network. La giornata dell’assessore è fitta: prima l’audizione dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie, quindi l’incontro con i vertici dell’As Roma. Ma i giornalisti riescono a intercettarlo prima: “Se stiamo dentro le regole del piano regolatore, come dico da mesi, lo stadio si può e si deve fare – ha spiegato di buon mattino ai microfoni del Gr1 della Rai – sempre che la società receda da appetiti che credo che siano un po’ troppo elevati per quell’area e per questa povera città”. Il tweet con cui Francesco Totti si è schierato a favore della realizzazione dell’opera? “Conta – ha detto l’assessore – però sono le regole che fanno la differenza, altrimenti è una giungla“.
Quali sono gli appetiti di cui parla Berdini? L’accordo tra il Comune e il costruttore risale alla giunta Marino e prevede che Eurnova Srl, società del gruppo Parsitalia che fa capo a Parnasi, costruisca lo stadio e, in cambio delle opere infrastrutturali, ottenga “a titolo di compensazione” la realizzazione di uffici e attività commerciali, affinché il progetto raggiunga l’equilibrio economico-finanziario. “Parnasi vuole insieme allo stadio qualcosa come 600 mila metri cubi regalati – ha spiegato poco più tardi l’assessore a palazzo San Macuto, riferendosi all’imprenditore sui cui terreni dovrebbe sorgere l’impianto – scusate, lui non fa lo stadio… Io sono a favore dello stadio della Roma, l’ho detto dieci volte, sono contro questo gioco della roulette“. Quali sono le condizioni poste dal Campidoglio? Una riduzione del 10/20% delle cubature con conseguente limatura di alcuni piani alle torri destinate a ospitare gli uffici e alcune palazzine dell’area commerciale. Per farlo però serve una delibera che modifichi quella del dicembre 2014 che conferisce pubblica utilità all’opera.
Sollecitato dal deputato del Pd Marco Miccoli, che lo ha accolto in commissione con un cartello con su scritto #famostostadio”, Berdini ha ribadito: “Noi non siamo l’amministrazione del no”. Ma ha posto diversi interrogativi sul futuro della città: “Chi ha scelto quell’area che ha bisogno di un immenso investimento pubblico? Lo ha scelto il privato? E’ questo il futuro delle nostre città? – ha aggiunto Berdini – Diamo le chiavi delle città al privato? Parnasi che blocca la filovia sulla Laurentina ora ci impone di fare un ponte, una metropolitana che non si può fare… è questa la città che pensiamo?”.
Il privato in questione è quel Luca Parnasi, erede di un impero immobiliare che spazia dal colosso di Euroma 2, il megacentro commerciale le cui torri svettano sui tetti del quartiere Eur, fino ai 250mila metri quadri del terzo polo commerciale di Pescaccio, passando per le residenze della Città del Sole costruite con il gruppo Bnl-Paribas e i 10 mila metri quadrati di appartamenti realizzato dove una volta sorgeva l’ex autorimessa Atac nel quartiere Tiburtino.
“Se l’unico strumento è quello della valorizzazione fondiaria – attacca ancora Berdini – cioè se noi non abbiamo altro nel nostro orizzonte culturale che dire che se noi aumentiamo le densità allora forse il privato ci fa la carità di darci quel servizio che manca, e ogni riferimento al dibattito sullo stadio della Roma è assolutamente casuale, noi non andiamo da nessuna parte”.
Dopo aver messo nero su bianco il suo parere negativo sul progetto a Tor di Valle, il 2 febbraio il Comune ha chiesto un mese di tempo in più per dare la risposta definitiva e oggi ha incontrato la società. La riunione, iniziata attorno alle 14.40 nella sede del dipartimento Urbanistica del Comune, all’Eur, è terminata poco dopo le 16. Per il Campidoglio erano presenti, oltre a Berdini, il vicesindaco Luca Bergamo, il presidente dell’aula Giulio Cesare, Marcello De Vito e il capogruppo del M5s Paolo Ferrara. Per la Roma il dg Mauro Baldissoni e il costruttore Parnasi. “È stata una riunione molto costruttiva – ha detto Bergamo uscendo – siamo soddisfatti ci sono dei tavoli tecnici a lavoro da dopodomani, ci vedremo la prossima settimana per fare il punto. Siamo ottimisti”.

La casa di Renzi pagata da Carrai: la procura di Firenze apre un fascicolo.

Matteo Renzi

Dopo un esposto sull'appartamento in cui viveva il premier (affitto era pagato dall'amico Carrai), i magistrati della Procura di Firenze vogliono capire se ci fu scambio di favori tra i due.


Matteo Renzi ha vissuto per quasi tre anni un un appartamento vicino a Palazzo Vecchio, in via degli Alfani 8. Ma a pagare l’affitto è stato l’amico Marco Carrai. 900 euro al mese, che a un certo punto sono diventati 1.200, ha documentato ieri Libero, pubblicando il contratto di affitto, ottenuto dallo stesso Carrai dopo giorni di pressioni. Ora la procura di Firenze, come riportano alcuni quotidiani, ha aperto un fascicolo esplorativo, a seguito di un esposto, per fare luce sui rapporti tra l’ex sindaco e l’imprenditore e verificare se tra i due ci sia stato uno scambio di favori. Al momento non ci sono né ipotesi di reato né indagati e il procuratore aggiunto Giuliano Giambartolomei affiderà le indagini a un pm per verificare che l’interesse pubblico non sia stato danneggiato. Intanto l’opposizione compatta di tutti i partiti ha fatto cadere in conferenza dei capigruppo in Senato la richiesta di chiarimenti del Movimento Cinque Stelle, che da Renzi vorrebbe un chiarimento in aula sul caso affitto e sui rapporti con Carrai.
Il presidente del Consiglio ha vissuto nella casa per 34 mesi, dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio di quest’anno e lì aveva trasferito la sua residenza da Pontassieve (dove vive la moglie coi tre figli) per potere votare nella città che governava. Aveva scelto l’appartamento in via degli Alfani 8 dopo avere lasciato una mansarda dietro Palazzo Vecchio perché l’affitto – da mille euro al mese – era troppo costoso. Il proprietario della casa, scrive il Corriere della Sera, è Alessandro Dini, consigliere di amministrazione della Rototype, azienda il cui sito web è curato da da un’agenzia di comunicazione, Dotmedia. Per Dotmedia lavora come agente il cognato del premier, Andrea Conticini, e suo fratello Alessandro Conticini è tra i soci, con il 20%. Quest’ultimo in passato è stato socio di Eventi6, società della famiglia Renzi. 
Marco Carrai, consigliere del premier vicino a Comunione e Liberazione che in passato ha guidato Firenze Parcheggi, oggi è presidente di Aeroporti Firenze e di Fondazione Open (ex fondazione Big Bang che ha gestito le campagne elettorali di Renzi). La società C&T Crossmedia di cui è socio, inoltre, si è aggiudicata un servizio per visitare Palazzo Vecchio con la guida di un tablet. Ma Carrai in questi giorni è finito nel mirino anche per la vicenda che vede coinvolta Francesca Campana Comparini, sua fidanzata che sposerà a settembre. La ragazza, 26enne laureata in filosofia, è tra i curatori della mostra su Jackson Pollock e Michelangelo, la più importante e prestigiosa a Firenze nel 2014. Si svolgerà a Palazzo Vecchio ed è costata al Comune 375mila euro. I due consiglieri fiorentini di opposizione De Zordo (Per un’altra città) e Grassi (Sel) hanno chiesto al vicesindaco reggente Nardella: “Se una ragazza di 26 anni, laureata in Filosofia e senza alcuna esperienza curatoriale, riceve l’incarico di curare la principale mostra di un grande comune italiano, è perché conosce qualcuno o perché conosce qualcosa?”. Secondo quando pubblicato dal Fatto, Comparini ha soltanto un titolo contro i 62 di un altro curatore della mostra, Sergio Risaliti. E l’unico saggio che ha pubblicato è per il catalogo della mostra di Zhang Huan, commissionato dal Comune di Firenze.

“L’euro è un disastro. Italia fuori subito.” Le frasi di sei premi Nobel dell’economia.

James Mirrless


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James Mirrless (Nobel 1996): “Non mi permetto di suggerire politiche per mutare la situazione attuale e mi sento a disagio nel fare raccomandazioni altisonanti, perché non ho avuto il tempo di valutarne le conseguenze. Però, guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso.”

Christopher Pissarides (Nobel 2010): “La situazione attuale non è sostenibile ancora per molto. E’ necessario abolire l’Euro per creare quella fiducia che i Paesi membri una volta avevano l’uno nell’altro.”

Paul Krugman (Nobel 2008):”Adottando l’Euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica”

 Joseph Stiglitz (Nobel 2001): “Questa crisi, questo disastro è artificiale e in sostanza questo disastro artificiale ha quattro lettere: l’euro”.

Amartya Sen (Nobel 1998): “L’euro è stato un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l’Europa.”

Milton Friedman (1976): “La spinta per l’Euro è stata motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è stato quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere una possibile guerra europea impossibile, e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa. Io credo che l’adozione dell’Euro avrà l’effetto opposto. Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio in problemi politici di divisioni.”


http://www.mattinonline.ch/leuro-e-un-disastro-italia-fuori-subito-le-frasi-di-sei-premi-nobel-delleconomia/
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sabato 4 febbraio 2017

L’Italexit, il gattopardo e i sovranisti con il cerino in mano. - Rosanna Spadini e Valdo




Il fatto che la sindaca Virginia Raggi sia tenuta sotto interrogatorio per più di otto ore, che nemmeno Totò Riina, dimostra non solo che la giustizia al servizio dell’establishment azzanna le proprie vittime puntuale come un orologio al quarzo, ma anche che la rivoluzione dei 5 Stelle sta colpendo i gangli vitali del sistema affaristico mafioso, sia romano che nazionale, visto che i sondaggi li danno al 31,7% e oltre. Però altre faglie, cariche di energia, sono pronte a deflagrare.
Intanto è iniziato il conto alla rovescia degli ultimi mesi dell’euro e della implosione dell’Eurozona, il progetto neoliberista, ereditato dal secolo scorso, sembra sottoposto a movimenti tellurici senza precedenti, mentre l’ideologia dominante, espressione delle oligarchie internazionali, sostenuta dalla superbia boriosa della casta bipartisan, sta riposizionandosi per affrontare meglio il Titanic. Multinazionali che continuano ad investire nel debito di un Paese, sottoposto all’austerity più bastarda.
Da l’insediamento del presidente tycoon, l’ideologia neoliberista è crollata di schianto, come fosse stata travolta dal cumulo di nefandezze che l’hanno gratificata fino a ieri. È il tempo della velocità accelerata della storia, che mostra la cruda verità dei fatti, di una democrazia liberale liquida simile ad un guscio vuoto, ove i veri poteri sovranazionali governano la vita dei popoli, ridotti a masse globalizzate prive di identità e coscienza.
Anche i vecchi partiti si stanno squagliando come neve al sole, mentre cercano di rinascere sotto le mentite spoglie dei vari movimenti, e le promesse di giustizia sociale e welfare appaiono solo esercizi retorici puramente formali. Dopo la batosta del referendum, la prima forza politica ad entrare in crisi è certamente il PD (24,1%), che vede polverizzarsi le iscrizioni, desertificarsi i circoli, e dilazionare miseramente il congresso a scadenza indeterminata.
Nello stesso tempo, Vincenzo De Luca, pronto a lasciare il PD renziano, trasforma la sua lista civica in movimento politico personale Campania libera, prendendo le distanze da Renzi. Michele Emiliano minaccia la diaspora, sostenuto dalla sua omertosa rete di potere e viene spiazzato dalla sfida di D’Alema, che sta sondando Vendola e Fratoianni per la nascita di un soggetto politico più a  sinistra, che vuole sfidare il PD renziano, e che mutua il linguaggio direttamente da Dibba dei 5 Stelle.
Narcisismi da leadership consumate ostentano pubbliche virtù inesistenti, mentre le politiche globalizzanti e internazionaliste hanno dettato legge, consumando quel che resta di una vita sociale sempre più dilaniata dalla disoccupazione giovanile (più del 40%) e dai livelli di povertà in continua ascesa.
Naturalmente anche il polo di destra sta vivendo una stagione da tè nel deserto, a meno che in vista del proporzionale non si rianimi e riesca a diventare una cosa più consistente, nell’amalgama dei soliti noti: a meno che i due giovani virgulti non Berlusconi, Verdini, Alfano, Casini … e forse anche Salvini e Meloni, abbiano intenzione di tenere fede al patto stretto con gli elettori per l’uscita. Però la Lega e FdI hanno da sempre puntellato il sistema.
Dunque, sia il quadro politico che quello economico sono destinati a subire trasformazioni di ampia portata nel giro di breve tempo e l’offerta politica è destinata a mutare molto rapidamentesotto gli effetti delle vicende internazionali.
Per la prima volta, il Maestro dell’Ordine, Mario Draghi, ha ammesso la possibilità che l’UE possa disgregarsi, puntualizzando che tutti i Paesi membri che intendono recidere i legami dovranno però prima onorare i loro debiti.  Come dire, vai pure, però paga il pizzo.
Poi, in un’intervista al Financial Times, Peter Navarro, presidente del nuovo Consiglio Nazionale del Commercio di Trump, lancia un durissimo attacco alla Germania, accusata di approfittarsi di un euro definito un «marco implicito esageratamente svalutato». L’amministrazione Trump inserisce la Germania nella lista dai paesi da controllare per il dumping valutario, parte di una più ampia strategia che secondo Navarro è finalizzata a riportare sul suolo americano una robusta catena nazionale di finanziamenti che stimoli il lavoro e la crescita dei salari.
Ok, insomma l’abbiamo capito … l’euro è sul viale del tramonto, ma chi gestirà la transizione dell’Italexit? Il movimento sovranista, il M5S o semplicemente l’establishment al potere?
Valdo
A partire dall’insediamento del governo Monti e degli altri esecutivi-Troika, ha cominciato a diffondersi nel mondo euroscettico italiano il termine “sovranismo”. L’ideale sovranista in soldoni chiede che sia applicata la Costituzione, che attribuisce la sovranità al popolo (a partire dalla sovranità monetaria e fiscale) e ne vieta la cessione a entità sovranazionali, tanto più se private come la Bce. Il sovranismo ha ispirato diversi movimenti e partitini, tra i quali Alternativa per l’Italia, Riscossa Italiana e il Fronte Sovranista Italiano, fermi da anni a percentuali da prefisso telefonico.
Nel microcosmo sovranista (parliamo di decine di migliaia di persone in tutta Italia, non di più) da qualche anno si individuano compatibilità con la Lega, che pure per storia e secondo lo Statuto del 2015 è autonomista, e con FdI, mentre generalmente si sostiene che il M5S sovranista non è, in quanto sul tema euro sarebbe troppo confuso e ondivago, se non proprio nascostamente eurista. Se i numeri sono questi, perché occuparsi del sovranismo?
Ma perché la nostra previsione è che a breve milioni di italiani si scopriranno sovranisti! Solo che non sarà il movimento sovranista ad avvantaggiarsene né a risultare determinante. E questo anche per scelta sua. Vediamo perché.
1. L’euro non durerà ancora molto. La sua insostenibilità economica e sociale unita a un clima internazionale profondamente mutato, con Donald Trump che spinge per misure protezionistiche e sta scaricando palesemente Bruxelles, stanno conducendo la moneta unica al capolinea. L’establishment lo sa (Draghi ammette la non irreversibilità dell’euro e fa i conti per la separazione consensuale, Mediobanca, sì, proprio Mediobanca, esce con uno studio secondo cui dall’eurexit l’Italia avrebbe solo da guadagnare) e si sta preparando a gestirne la dissoluzione. In fondo il sistema euro non è che uno strumento del capitale per massimizzare i profitti e, quando smette di funzionare, può essere sostituito da un nuovo sistema più efficiente che giunga agli stessi risultati.
Semplice gattopardismo. Se questo è il quadro, a che cosa servono partiti fondati sul concetto di sovranismo? La risposta è semplice: potrebbero avere qualche utilità e senso forse ancora per un anno o due, poi non serviranno a nulla. Se si recupera sovranità monetaria e quindi fiscale, e visto che il tema della sovranità “territoriale” (immigrazione) è già in mano ad altri partiti ben più radicati, il sovranismo come base ideologica non avrà più senso. O un partito sovranista entra in Parlamento nelle prossime elezioni (2017 o 2018) e dà un contributo per influenzare la coalizione di governo o, un giorno dopo la dissoluzione dell’euro, che avverrà comunque prima delle elezioni successive, esso sarà superato.
C’è di più: non solo i partitini sovranisti saranno a breve già superati ma il tema stesso del sovranismo rischia di andare presto in soffitta. Fra poco infatti saranno gli stessi Renzi, Bersani, Prodi, Berlusconi, Brunetta a spiegare agli italiani che bisogna dissolvere la moneta unica. E la stessa stampa mainstream, finora faziosamente eurista per servilismo verso l’establishment, si incaricherà di persuadere la gente della bontà dell’exit, sempre in virtù del proprio servilismo e conformismo. Se qualcuno pensa che a convincere la massa saranno i vari Barnard, Bagnai, Barra Caracciolo e compagnia bella, non ha ben capito come funzionano politica e comunicazione di massa.
2. Se tra poco il sovranismo sarà superato, l’appoggio palese a Lega e FdI e la concomitante avversione verso il M5S, che viene attaccato da gran parte dei sovranisti in modo continuo e sarcastico, si configura come una scelta perdente anche per incidere nel breve lasso di tempo che ci separa dall’implosione dell’euro. Sarebbe infatti curioso sapere come i sovranisti pensino di arrivare al governo subito, prima che i soliti partiti si approprino del tema, unendo i loro pochissimi voti a quelli di Lega e FdI, che in due fanno il 15/16% ad essere ottimisti. Dovrebbe essere ovvio che se i sovranisti vogliono che la loro causa si imponga alle prossime elezioni, devono per forza considerare come interlocutore il 30% e oltre del M5S, senza il cui aiuto Salvini, la Meloni e loro stessi non potranno governare un bel nulla.
Delle due l’una, dice la logica: o si concede fiducia critica al M5S, smettendo di attaccarlo sistematicamente e di accusarlo di essere cavallo di Troia dell’eurismo nel fronte euroscettico, in previsione di un accordo post-elettorale; oppure lo si attacca e ci si pone alternativi ad esso, ma in quel caso occorre ammettere che l’exit lo gestiranno il Pd e/o FI, nei tempi e nei modi che desidereranno. Come mai, allora, i vertici dei micropartiti sovranisti, che stupidi non sono, fanno credere ai loro elettori in una grande futuro del movimento sovranista e nel presente promuovono costantemente l’attacco al M5S mentre strizzano l’occhio a Lega e FdI?
L’unica ipotesi sensata è che essi sappiano benissimo come stanno le cose e che cerchino semplicemente di accumulare un pacchettino di voti da strappare al M5S e da portare in dote al centrodestra (che comprenderà anche Berlusconi). Alla fin fine, insomma, in cambio di qualche poltrona accettano che l’exit lo gestiscano gli stessi che, assieme al centro-sinistra, hanno amministrato vent’anni di euro. Riverniciati, ma sono sempre loro. La cosa a certuni può anche stare bene. Ma è onesto che si sappia, prima di dare a destra e manca patenti di gatekeeping.

- “O mascalzoni o coglioni” - l'editoriale di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano del 4 febbraio

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Per un attimo, l’altroieri, abbiamo segretamente sperato che nelle sette e più ore di interrogatorio i magistrati avessero finalmente e inoppugnabilmente incastrato Virginia Raggi in una grande storia di corruzione, in un romanzo criminale degno dei paragoni che ancora ieri i valorosi segugi dei giornaloni facevano con “la Milano di Mani Pulite” (Repubblica) e addirittura con House of cards (La Stampa). Così, pensavamo, questa donna minuta soverchiata da un compito troppo più grande di lei avrebbe trovato una via d’uscita per scendere dal calvario su cui l’hanno issata i cittadini romani sette mesi fa e riconsegnare la Capitale nelle mani sapienti di chi l’aveva così ben governata fino all’anno scorso. 
Una bella tangente camuffata da polizza vita, sia pure di soli 33.500 euro, era un’ottima scappatoia per farla finita con gli errori, i collaboratori infidi, i nemici interni, i direttorii, i commissari grillini, i linciaggi a mezzo stampa e tv basati su invenzioni e panzane varie, le accuse per tutto quel che accade sotto il Cupolone (dalla pioggia ai licenziamenti di Sky). E, diciamolo, anche una riabilitazione dall’offesa più sanguinosa: quella di non saper fare niente, neppure rubare. 

Che, in tempi di beatificazione di San Bettino, è un peccato mortale.

– Poi purtroppo, quando già pregustavamo nuovi succulenti particolari sui “tesoretti segreti” per “garantire un serbatoio di voti a destra” al M5S (Repubblica), 


sui “voti comprati” (Il Messaggero), 

sui “finanziamenti occulti giunti al Movimento 5 Stelle” ma non tutti, “solo una parte” (Corriere), astutamente nascosti da Salvatore Romeo in alcune polizze domiciliate sul suo conto in banca con tanto di sua firma,

e naturalmente sull’“accusa di corruzione” che sarebbe “vicina” (La Stampa), 

senza contare l’intensissima attività sentimentale della Messalina del Campidoglio che si mangia un uomo via l’altro, da Frongia a Marra a Romeo a chissà quanti altri, 

è giunta come un fulmine a ciel sereno la nota della Procura di Roma (ovviamente nascosta dai siti dei giornaloni e dai telegiornaloni): nessuna nuova ipotesi di reato, nessuna rilevanza penale, i pm sono convinti che la Raggi dica la verità quando afferma di non aver mai saputo di quella polizza (come 5 dei 6 beneficiari delle altre accese da Romeo), discorso chiuso. Dopo 420 e passa minuti sotto il torchio dei pm, il minimo che ci si possa augurare è che questi le abbiano contestato tutto il contestabile e che ora le facciano sapere le loro conclusioni: o la arrestano, o la lasciano stare. 

Magari dedicandosi un po’ anche ad altre vicenduole. Come lo scandalo Consip-Lotti-Del Sette&C. sul più grande appalto (truccato) d’Europa e le microspie scomparse. Quindi peggio per Virginia: invece di tornarsene a casa,dovrà restare in Campidoglio e provare a governare Roma. Che poi è la peggiore delle condanne.
Archiviata questa tragicomica vicenda delle polizze all’insaputa dei beneficiari e fornita la sua versione sulla nomina di Renato Marra a direttore del Turismo comunale e su tutto il contorno davanti ai pm e (finalmente) ai cittadini nell’in – tervista a Mentana, restano in piedi tutte le questioni che anche ieri segnalavamo: i nemici interni sempre in assetto di guerra (ma levargli i social, no?), i collaboratori spesso inadeguati e inaffidabili, i bombardamenti esterni, i sistematici sabotaggi dei poteri marci dovrebbero indurla a una seria riflessione sulle sue possibilità di continuare o sull’eventualità di dimettersi per non aver commesso il fatto. 

Con un’aggiunta: la storia delle polizze a sua insaputa, anche se vera (come ritengono gli stessi pm), l’ha coperta suo malgrado di ridicolo.
E non si governa una macchina complicata, anzi impazzita come il Comune di Roma, con 22mila e più dipendenti, senza la necessaria autorevolezza.
Ma queste sono valutazioni che può fare soltanto lei (magari facendo benedire il Campidoglio da un esorcista, previo bagno integrale in una piscina di Lourdes).
Perché prescindono dalle faccende penali che paiono ridimensionarsi.
E riguardano altro: la sua padronanza dei dossier della Capitale; la sua capacità di scegliere le persone giuste in un contesto marcio dalle fondamenta; l’efficienza di una giunta continuamente avvicendata e commissariata; i rapporti con un movimento che, a Roma, la sostiene come la corda l’im -piccato; e anche la sua tenuta personale, umana, psicologica, sotto un fuoco concentrico che piegherebbe anche Rambo e che continuerà fino all’ultimo giorno del suo mandato.


Con gli attuali assetti delle tv e dei giornali, se non si trovano scandali veri, se ne inventano di falsi e li si gonfia a reti ed edicole unificate fino a farli apparire veri, o si continua a trasformare le pagliuzze in travi.[…]


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Prescrizione: da tre anni la riforma in Parlamento. Che fine ha fatto?

I familiari delle 32 vittime della strage di Viareggio in attesa della sentenza al processo a Lucca © ANSA

Dopo ok Camera il 24 marzo 2015 è fermo a causa dello scontro in maggioranza.

Dopo la prima sentenza sulla strage di Viareggio  arrivata a sette anni da quel terribile incidente, torna alla ribalta il tema della riforma della prescrizione. Il testo in materia in Senato ma è fermo da tempo.
Nei mesi scorsi a denunciare lo stallo lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "I processi di riforma - ha detto - avrebbero bisogno di coalizioni politiche che le sostengono: se ci sono forze politiche che hanno visioni diverse, non si ottiene una totale uniformità. La riforma della prescrizione è inchiodata da un anno e mezzo, e non un caso. Nel civile, invece, siamo andati avanti".
E' da tre anni - infatti - che in Parlamento si discute della riforma della prescrizione. Il 28 febbraio 2014 la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Donatella Ferranti (Pd), deposita un provvedimento in proposito che viene approvato quasi un anno dopo, il 24 marzo 2015. Ma al Senato il provvedimento si ferma anche a causa della tensione interna alla maggioranza.
Dopo una lunga discussione in commissione il provvedimento approda in Aula nel settembre scorso. Ma, sempre a causa delle divisioni nella maggioranza e dei numeri risicati al Senato l'esame viene sospeso e si procede a una inversione del calendario d'esame a favore del ddl sul cinema. Il testo è riapparso all'ordine del giorno di Palazzo Madama a partire dal prossimo 28 febbraio. Sarà la volta buona?
Intanto metà gennaio un nuovo richiamo all'Italia perchè si metta in regola su questo fronte. E, dopo l'ok del Senato il provvedimento, già modificato in commissione e che contiene, tra l'altro, anche le norme sulle intercettazioni, dovrà comunque tornare alla Camera.
Il primo febbraio scorso il ministro della Giustizia Andrea Orlando, parlando in Aula al Senato ha sottolineato di ritenere prioritario il provvedimento ma ha anche avvertito che, in ogni caso, la riforma non potrà incidere sui processi in corso. "Considero prioritaria - ha detto Orlando - l'approvazione del disegno di legge" che riforma la prescrizione, "ho avuto anche una discussione con il governo precedente. Ma qualunque intervento realizzeremo non avrà alcun valore sui processi in corso".

Cgia, sprechi ed inefficienze nella P.A. costano 16 miliardi l'anno.

Un dipendente ministeriale varca i tornelli © ANSA


Da migliore gestione patrimonio, aiuti e detrazioni altri 16mld.

Tra gli sprechi nella sanità, le misure di contrasto alla povertà percepite da famiglie abbienti e la quota di spesa pubblica indebita denunciata dalla Guardia di Finanza, l'Ufficio studi della Cgia ha stimato in 16 miliardi di euro all'anno le uscite che la pubblica amministrazione italiana potrebbe risparmiare se funzionasse meglio. Se, inoltre, si potesse quantificare anche la spesa riconducibile ai falsi invalidi, a quella riferita a chi percepisce deduzioni fiscali non dovute o alla cattiva gestione del patrimonio immobiliare, molto probabilmente lo Stato potrebbe risparmiare, per la Cgia, altrettanti milioni di euro.
Una montagna, quella degli sprechi della Pa, che, secondo la Cgia, assume una dimensione ancor più preoccupante se si tiene conto dei dati forniti dal Fondo monetario internazionale. Se la Pa, rileva la Cgia, avesse in tutta Italia la stessa qualità nella scuola, nei trasporti, nella sanità, nella giustizia, che ha nei migliori territori del Paese, il Pil aumenterebbe di 2 punti (oltre 30 mld/anno di euro).  
"Dopo aver approvato in fretta e furia una legge di Bilancio molto generosa sul fronte delle uscite - dice il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo - ora, dopo la richiesta da parte dell'Ue di correggere i nostri conti pubblici per 3,4 miliardi, il Governo decide di recuperarli agendo soprattutto sul fronte delle entrate. Non sarebbe il caso, invece, di intervenire in misura più aggressiva nei confronti della spesa pubblica improduttiva che risulta avere ancora dimensioni molto preoccupanti?" Pur riconoscendo gli sforzi fatti dagli ultimi esecutivi sul fronte della spending review, la Cgia continua a ritenere che sarebbe sbagliato recuperare una buona parte dello 0,2% di taglio del deficit/Pil richiestoci da Bruxelles aumentando, ad esempio, le accise sui carburanti.
"Ricordo - conclude il segretario della Cgia Renato Mason - che l'80 per cento circa delle merci italiane viaggia su gomma. E' vero che grazie al rimborso delle accise gli autotrasportatori, solo quelli con mezzi sopra i 35 quintali, possono recuperare una parte degli aumenti fiscali che subiscono alla pompa. Tuttavia, nel caso scattassero gli incrementi di accisa, potrebbero verificarsi dei rincari dei prodotti che troviamo sugli scaffali dei negozi e dei supermercati del tutto ingiustificati, penalizzando soprattutto le famiglie a basso reddito". Rammentando che la nostra spesa pubblica annua ammonta a 830 miliardi di euro circa, i 3,4 miliardi di correzione del deficit richiestoci incide per lo 0,4%: un'inezia che auspichiamo possa essere risolta attraverso una contrazione degli sprechi e degli sperperi presenti nella nostra Pa".