La “travagliata” trattativa fra Stato e mafia “trovò finalmente il suo approdo”, nel 1994, “nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi. Lo scrivono i pm di Palermo, coordinati da Antonio Ingroia, nella “Memoria a sostegno di rinvio a giudizio” dei 12 imputati accusati di aver contribuito al perfezionamento del patto tra i boss di Cosa nostra e uomini delle istituzioni tra il 1992 e il 1994. Il documento di 22 pagine riassume 120 faldoni di prove, testimonianze, intercettazioni e documenti. E’ la summa dell’atto d’accusa, in cui l’espressione “Ragion di Stato” fa capolino fino alla fine. Nell’ultimo giorno da procuratore aggiunto a Palermo di Antonio Ingroia, i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno depositato la memoria (qui il documento integrale) per meglio spiegare la richiesta di rinvio a giudizio, firmata nel luglio scorso, per i dodici indagati per quel “patto scellerato”. La settimana scorsa, davanti al gup Piergiorgio Morosini, si era tenuta la prima udienza preliminare del procedimento che vede per la prima volta alla sbarra importanti boss mafiosi insieme ad esponenti politici ed alti ufficiali del carabinieri. Un procedimento che si preannuncia difficile, soprattutto per la delicatezza del reato contestato a quasi tutti gli imputati, ovvero quello disciplinato dall’articolo 338 del codice penale: violenza o minaccia al corpo politico dello Stato (“Trattativa, l’accusa e la difesa”: guarda l’infografica di ilfattoquotidiano.it).
Per meglio chiarire l’oggetto giuridico della loro inchiesta i pm Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco De Bene e Roberto Tartaglia, coordinati da Ingroia, hanno quindi deciso di fornire a Morosini anche una breve e stringatissima ricostruzione dei fatti contestati agli imputati. Un analisi cronologica, più storica che giudiziaria, del biennio stragista 92-93, in cui i magistrati fanno un salto indietro fino al 1989: prima del crollo del muro di Berlino, infatti, “la grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale”. Dopo invece si determina “la fine della giustificazione storica della collaborazione con la grande criminalità”. Ed è per questo che Cosa Nostra recide i rapporti con la politica dichiarando guerra allo Stato, lanciando contemporaneamente segnali di pace.
Una concatenazione di eventi che – secondo i pm – è interpretata da due frasi simbolo. “Una – scrivono – è quella di Riina, che spiega ai suoi soldati: «Dobbiamo fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». L’altra è del boss Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle»”. L’obiettivo strategico di Cosa Nostra è costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché fosse la mafia “ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l’ingresso della mafia in politica, tout court”.
Per arrivare alla pace però c’è prima bisogno di fare la guerra. Una guerra in cui i protagonisti sono “i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e il postino del papello Antonino Cinà, autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia a un corpo politico dello Stato, in questo caso il governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima. L’avvio di una campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell’epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi”.
La minaccia secondo i pm si è realizzata, prospettando “agli uomini-cerniera (ovvero i politici come Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, e i carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno n.d.a) perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del governo, l’organizzazione e l’esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra”. È in questo contesto che finisce indagato Nicola Mancino per falsa testimonianza. “Chi condusse la trattativa – scrivono sempre i pm – fece un’attenta valutazione: il Ministro dell’Interno in carica Vincenzo Scotti era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre Mancino veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia Parisi”.
Il ruolo di Parisi, nel frattempo deceduto, sarebbe per i pm molto importante nel periodo in cui l’oggetto principale della trattativa era l’alleggerimento del 41 bis. Il capo della polizia infatti era molto vicino all’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro “che, come emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti Scotti-Mancino e Martelli-Conso, e nella sostituzione di Nicolò Amato col duo Capriotti-Di Maggio, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993”.
La trattativa però non è stata soltanto una delicata partita di scacchi con singoli obiettivi tattici, come salvare la vita agli uomini politici inseriti nella black list di Riina, o alleggerire il 41 bis. “Ma – spiegano i pm – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia”.
E per questo che dalla fine del 1993 in poi la trattativa prosegue dietro le quinte, senza clamore. “Si completò, in tal modo, il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri -Berlusconi (come emerge dalle convergenti dichiarazioni di Spatuzza, Brusca e Giuffrè)”. I pm infatti mettono nero su bianco che il nuovo patto Stato-mafia fu siglato nel 1994 ,“non prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena insediatosi”. Una paragrafo della memoria i magistrati lo dedicano anche a Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno a Cosa Nostra e calunnia, ma anche “fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia), ma a cui, d’altra parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e informazioni, che, laddove ed in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose”.
Spazio anche alle nebulose testimonianze rese negli scorsi mesi dagli esponenti politici dell’epoca. “Questo Ufficio – scrivono i magistrati – è consapevole del fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca (un’amnesia durata vent’anni), che avrebbe dovuto arrestarsi”. Un’amnesia dovuta forse a “una male intesa (perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali”. Una ragion di Stato che però non basta ad evitare il procedimento odierno. Il perché è tutto contenuto nell’ultima frase con cui i pm concludono la memoria: “Si è ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli odierni imputati nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare”.