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martedì 29 aprile 2014

Strage via D'Amelio, Mancino s'avvale facoltà di non rispondere.

Nicola Mancino (foto: ANSA)


Ex ministro chiamato a deporre al processo in corso a Caltanissetta.
L'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, chiamato a deporre al processo per la strage di via D'Amelio in corso a Caltanissetta, si è avvalso della facoltà di non rispondere. L'ex politico Dc, che è imputato al dibattimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, doveva essere sentito come imputato di procedimento connesso: tale status gli ha dato la possibilità di astenersi dal testimoniare. 
"Non voglio sottrarmi in alcun modo, ma non voglio interferire su un procedimento in cui non sono stato ancora interrogato", ha detto riferendosi proprio al processo di Palermo sulla trattativa in cui è accusato di falsa testimonianza. Mancino avrebbe dovuto deporre sul suo incontro col giudice Paolo Borsellino avvenuto l'1 luglio 1992, giorno del suo insediamento alla guida del Viminale.

martedì 21 maggio 2013

Stato-mafia, Napolitano non sarà sentito sulle telefonate con l'ex ministro Mancino. - Salvo Palazzolo


Stato-mafia, Napolitano non sarà sentito sulle telefonate con l'ex ministro Mancino


La decisione è della corte d'assise di Palermo che ha rigettato la richiesta presentata nei giorni scorsi da Salvatore Borsellino e da Sonia Alfano costituite parte civile nel processo "trattativa".

La richiesta di citazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al processo "trattativa" è "legittima", ma l'eventuale audizione non potrà mai riguardare le conversazioni con l'ex ministro Nicola Mancino, intercettate nell'ambito dell'inchiesta e poi distrutte. E' quanto ha deciso questa mattina il presidente della Corte d'assise di Palermo Alfredo Montalto esaminando la lista dei testimoni presentata da due parti civili, Salvatore Borsellino e Sonia Alfano. Il fratello del giudice ucciso il 19 luglio 1992 e la presidente dell’Associazione familiari vittime di mafia, avevano chiesto l'audizione di Napolitano per riferire "le eventuali confidenze riferitegli da Mancino nel corso delle plurime conversazioni telefoniche intercorse fra i due e intercettate dalla Procura". Così aveva scritto l'avvocato Fabio Repici nelle istanze delle due parti civili.  

Il legale ha chiesto l'audizione del capo dello Stato anche "per riferire sui contenuti della lettera da lui pubblicamente rivolta il 29 gennaio 2013 alla figlia dell’ex presidente della Repubblica Scalfaro". In quella lettera, Napolitano scriveva di avere "accompagnato" l’allora capo dello Stato "nei momenti decisivi di quel periodo". All'epoca Napolitano era presidente della Camera. E adesso Scalfaro è sotto accusa nell’impostazione della Procura di Palermo, perché avrebbe sostenuto la linea dell’alleggerimento del carcere duro ai mafiosi dopo le prime bombe del 1993. Su quella lettera a Scalfaro, l’avvocato Repici ha già ottenuto la citazione di Napolitano al processo quater per la strage Borsellino, in corso a Caltanissetta.

Anche la corte d'assise di Palermo non ha avuto nulla da osservare su questo punto. Ma è arrivato uno stop sulla richiesta di sentire Napolitano a proposito delle telefonate con Mancino, che sono state oggetto di un conflitto di attribuzione fra il Quirinale e la Procura di Palermo, concluso con la distruzione di quattro telefonate. 

Ieri, la Corte d'assise aveva invece dato un prima via libera alla lista della Procura, che fra i 176 testimoni ha inserito pure Napolitano, "per riferire in ordine alle preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio nella lettera del 18 giugno 2012", così hanno scritto i pm Di Matteo, Del Bene e Tartaglia.

Si tratta di un primo vaglio di ammissibilità, secondo i canoni previsti dall’articolo 468 del codice di procedura penale. Non è solo una questione di tecnicismi giuridici, il codice impone al giudice di "escludere" le testimonianze "vietate dalla legge e quelle manifestamente sovrabbondanti". Dunque, la lista dei 176 testimoni, con il nome del capo dello Stato in bella vista, è ammissibile, ma non potrà mai avere ad oggetto le conversazioni telefoniche distrutte. In una delle prime udienze la corte d’assise esaminerà nel merito le liste presentate dalle parti, per decidere se citare il presidente della Repubblica e tutti gli altri testimoni richiesti da pm e avvocati.

giovedì 27 dicembre 2012

TRATTATIVE E SERVIZI - GARGANI CHI? - Andrea Cinquegrani



Un tempo dc doc, tra i piu' attivi nel “clan” degli avellinesi capeggiato da Ciriaco De Mita e Nicola Mancino. Sparito lo scudocrociato, eccolo tra i promotori del Ppi, quindi un balzo fra le truppe berlusconiane, lo scranno al Parlamento europeo, quindi ora tra le fila Udc. E' un identikit flash di Giuseppe Gargani, che parecchi ricordano tra i piu' attivi, insieme al giudice costituzionale Romano Vaccarella e all'ex presidente picconatore Francesco Cossiga (il “pool di saggi” fortemente voluto da Silvio Berlusconi), per dar forma e sostanza al primo lodo Alfano, a base di separazione della carriere tra giudici e pm, riforma del Csm, ripristino dell'immunita' parlamentare e via - e' il caso di dirlo - picconando quel che restava (e resta) del pianeta giustizia.
Defilato al punto giusto, comunque, in questi ultimi anni, Gargani: ben pochi sanno, infatti, che il suo nome figura nel registro degli indagati dei pm palermitani alle prese l'inchiesta sulla famigerata “trattativa” Stato-mafia”, a vent'anni e passa dalle stragi di Capaci e via D'Amelio. Insieme all'ex guardasigilli Giovanni Conso, infatti, e' indagato per false informazioni fornite ai pm, tra cui Antonino Ingroia, nel frattempo volato in Guatemala in attesa dell'incoronazione degli arancioni di Luigi de Magistris e C. Tra gli accusati, in prima fila i vertici - a quei tempi - del Ros, Mario Mori (gia' alle prese con le bollenti vicende della mancata perquisizione del covo di Toto' Riina e della mancata cattura di Bernardo Provenzano), il suo braccio destro Giuseppe De Donno, l'allora numero uno del Ros Antonio Subranni (la cui figlia Danila, oggi, e' portavoce di Angelino Alfano); un manipolo di mafiosi (Provenzano, Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Nino Cina'), e alcuni politici: Mancino, che deve rispondere di falsa testimonianza e non ha ottenuto il richiesto “processo stralcio”; Marcello Dell'Utri e Calogero Mannino.
Ed e' proprio il rapporto tra Mannino e Gargani al centro dell'attenzione dei pm. In particolare, un incontro tra i due alla vigilia di Natale 2011 (per la precisione il 21 dicembre): tema della discussione, la trattativa e le stesse indagini della procura palermitana. E a verbalizzare su Gargani, sul suo ruolo in quei mesi al calor bianco, sono stati due politici che di quelle vicende sanno sicuramente molto, l'ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti (poi sostituito da Mancino dopo la strage di Capaci) e l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli. 

VERBALIe#8200;SCOTTANTI
Verbalizza Scotti davanti ai pm Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava (mancava Ingroia) l'8 giugno scorso. Allora - dichiara - «Gargani era membro della commissione giustizia della Camera, e mi consiglio' di non insistere sul rapido iter di ratifica del decreto 8 giugno 1992», ovvero il 41 bis alla base del carcere duro per i mafiosi. «Le perplessita' manifestatemi - aggiunge - riguardavano l'impianto complessivo del decreto. Martelli e io, comunque, decidemmo di tener fermo quel testo e di insistere sulla sua conversione in legge senza attendere l'insediamento del nuovo esecutivo». E cioe' il governo guidato da Giuliano Amato. 
Ecco invece quanto dichiara, sempre a giugno, Martelli. «Gargani si era proposto all'onorevole Bettino Craxi per assumere l'incarico di ministro della giustizia nel governo in formazione. Riteneva che io non fossi sufficientemente determinato a contrastare con forza le indagini di Mani pulite, assicurando invece che lui sarebbe stato in grado di fermarle». Per inciso, ha di recente dichiarato nel corso di un convegno, lo stesso Scotti, a proposito della nomina di Giovanni Falcone all'ufficio affari penali del ministero di via Arenula: «A chiamare Falcone per quell'incarico non fu Martelli, ma il suo nome venne fatto da Giuliano Vassalli».
Torniamo a Gargani. Quale effettivo ruolo avra' dunque avuto in quel periodo? E sul fronte della trattativa? Riuscira' il processo (dopo l'ok del gup di Palermo) a far luce sui tanti, troppi buchi neri di quelle stragi? Per ora Gargani non ha ricevuto alcun avviso di garanzia: il codice penale, infatti, prevede che per il reato di “false informazioni” la posizione dell'indagato rimanga “sospesa” fino a che non sia stata pronunciata la sentenza di primo grado. Un groviglio nel groviglio.
Una mano, forse, potra' dargliela il fratello Angelo Gargani, una vita in magistratura e con posizioni apicali. Caratterizzata, in particolare, da una spola continua fra tribunali e ministero della Giustizia, dove ha ricoperto il delicato ruolo di “capo del controllo interno”, una vera e propria supervisione sulle ispezioni ministeriali (per anni capo degli 007 di via Arenula e' stato un altro campano, Arcibaldo Miller, voluto prima da Romano Prodi, poi confermato dall'esecutivo Berlusconi). Altra strategica poltrona, quella di presidente della commissione che nomina i giudici tributari. Non mancano pero' le nubi, in una carriera tanto folgorante. Come quella dell'inchiesta sulla P3, che vede in pista - oltre al faccendiere Flavio Carboni e all'ex sottosegretario alla giustizia nell'ultimo governo Berlusconi, Giacomo Caliendo - l'ubiquo Pasquale Lombardi, il geometra da Cervinara, in provincia di Avellino, “amico” di tante toghe eccellenti, tra cui Angelo. 
Del resto, Pasqualino per hobby fa il “giudice tributario”. Mentre Franco Antonio Pinardi, figura di vertice della potente sigla paramassonica Parlamento Mondiale, capeggiato dal palermitano Victor Busa' (indagato in svariate procure italiane), da' vita alla Tribuna Finanziaria. Nel cui organigramma fa capolino proprio il nome di Giuseppe Gargani. Tanto per ritrovarsi tra “amici”. 
Ma finiamo con un tocco di gioventu'. Il rampollo di Giuseppe, Alessandro Gargani, a bordo di Sviluppo Campania e della Fondazione Ifel sta dando una mano al presidente della giunta regionale della Campania, Stefano Caldoro, per elaborare il “piano di stabilizzazione finanziaria”. Peccato che a Santa Lucia stiano sull'orlo del baratro, con il fresco crac di EavBus, la societa' pubblica dei trasporti affondata (con la “madre” Eav) in un mare da centinaia di milioni di euro. Cin cin.


http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=574

lunedì 24 dicembre 2012

Le "Ragioni di Stato" e le parole vuote di Nicola Mancino. - Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo


mancino-interrogato-processo
“Ho buoni e doverosi motivi per affermare che io non sono stato spregiudicato nel coinvolgere nelle indagini sulla cosiddetta trattativa il capo dello Stato, che ho sempre stimato per la sua alta funzione e con il quale ho avuto modo di conservare, collaborando, stima, rispetto, amicizia e devozione”.
La penosa replica dell'ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, alle pesanti accuse di Agnese Borsellino rilasciate alla giornalista di Servizio Pubblico si commenta da sola. L’ex vice presidente del Csm ha ribadito la sua totale estraneità alla trattativa Stato-mafia: “Non ho mai saputo niente e, perciò, non ho avuto nessun ruolo...”. 
Al di là della sua prevedibile autodifesa resta però ancora sospesa la mancata spiegazione di una sua affermazione intercettata al telefono con l’allora Consigliere di Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio, scomparso lo scorso 26 luglio. In quella telefonata il privato cittadino Nicola Mancino dichiarava di essere “un uomo solo” che in quanto tale “va protetto” affinché non chiami in causa “altre persone”. 
Di fronte alla nostra richiesta di un chiarimento Mancino aveva definito “una sciocchezza” la domanda stessa, aggiungendo che prima di rispondere alla stampa lo avrebbe riferito “al giudice”. 
Ma allo stato non ci risulta alcuna sua intenzione di fare chiarezza in merito. La sua paventata “estraneità” alla trattativa Stato-mafia stride ulteriormente con le sue stesse affermazioni fatte a D’Ambrosio. 
Quello che vorremmo chiedere al senatore Mancino è cosa avrebbe risposto se a chiedergli conto di quella telefonata fosse stata la signora Agnese Borsellino. Quali giustificazioni avrebbe utilizzato per sviare l’attenzione dalla gravità di quelle sue affermazioni? E soprattutto quale diabolica “ragione di Stato” avrebbe possibilmente chiamato in causa per scagionare se stesso e quelle “altre persone” coinvolte di cui sarebbe a conoscenza? 
Il suo silenzio è forse legato alla paura di finire vittima di un sistema criminale che non perdona coloro che “parlano”? Al momento non è possibile ipotizzare se Mancino mai riferirà ad un giudice tutto – ma proprio tutto – quello che sa su una trattativa che si è consumata anche nel periodo della sua reggenza al ministero dell’Interno. 
“Perché Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?”, si è chiesta la signora Agnese. Il riferimento al primo luglio 1992 è legato al suo incontro al Viminale con Paolo Borsellino. Senatore Mancino, a distanza di vent’anni, seppur con fatica, lei ammette di avergli potuto stringere la mano, ma non chiarisce minimamente il tema di quell’incontro. Oggi, dopo le dichiarazioni di Agnese Borsellino, lei tenta nuovamente la carta dell’auto assoluzione. 
Di fonte alla purezza d’animo della signora Agnese nei confronti della quale siamo tutti debitori e soprattutto di fronte alla pretesa di giustizia della vedova del giudice Borsellino lei ha il dovere di dire la verità. Non ci potrà essere alcuna “ragione di Stato” eterna che potrà proteggere chi la utilizza a mo’ di scudo protettivo. Allo stesso modo non ci potrà essere alcuna garanzia di impunità per chi non ha intenzione di fare luce sul biennio stragista ‘92/’93, costoro non potranno in ogni caso ritenersi esenti da eventuali ritorsioni da parte di quegli stessi apparati che hanno ordito stragi e depistaggi. Probabilmente è questo il dilemma che agita le notti e i giorni di coloro che, in un modo o nell’altro, sono stati protagonisti o spettatori della trattativa. E Nicola Mancino non può non essere consapevole di ciò. Se, come abbiamo riportato all’inizio, Mancino afferma di non essere stato “spregiudicato nel coinvolgere nelle indagini sulla cosiddetta trattativa il capo dello Stato” implicitamente fa intendere invece di avere coinvolto Napolitano.
E allora perché l’ha coinvolto?

giovedì 25 ottobre 2012

Trattativa Stato-mafia, Mancino chiede il giudizio del tribunale dei ministri.


Trattativa Stato-mafia, Mancino chiede il giudizio del tribunale dei ministri


L'ex ministro dell'Interno chiede lo stralcio "per mancanza di connessione con quelle degli altri imputati" e di far valere la sua posizione di componente del governo all'epoca dei fatti. Il gup deciderà probabilmente nella prima udienza preliminare del 29 ottobre.

Dopo la richiesta di stralcio della sua posizione per mancanza di “connessione” con quelle degli altri imputati, l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, attraverso i suoi legali, ha depositato al gup Piergiorio Morosini, davanti al quale si terrà l’udienza preliminare del procedimento sulla trattativa Stato-mafia, una istanza con cui si chiede di trasmettere gli atti al tribunale dei ministri.
Secondo l’ex politico Dc, imputato del reato di falsa testimonianza, il gup dovrebbe dichiararsi incompetente a decidere e inviare il fascicolo al tribunale dei ministri, competente in quanto all’epoca della presunta trattativa Mancino era ministro dell’Interno. Sulla richiesta, probabilmente, il gup si pronuncerà il 29 ottobre, data in cui avrà inizio l’udienza sulla trattativa. Nel procedimento sono coinvolti, oltre a Mancino, i vertici del Ros di quegli anni: il generale Mario Mori, l’ex comandante Antonio Subranni e l’ex capitano Giuseppe De Donno che nel 1992 avrebbero avviato il dialogo con Cosa nostra tramite Vito Ciancimino. E ancora i capimafia Bernardo ProvenzanoTotò RiinaLuca BagarellaGiovanni Brusca e Antonino Cinà e Massimo Ciancimino, figlio di don Vito. Nella lista anche l’ex ministro dc Calogero Mannino e il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. L’uno, accusato di avere dato input alla trattativa perché temeva di essere ucciso, l’altro perché si sarebbe proposto come intermediario con i clan dopo l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima.
Le accuse per quelli che vengono ritenuti i principali protagonisti del patto, che parte delle istituzioni avrebbero stretto con Cosa nostra per fare cessare le stragi, sono diverse: minaccia a corpo politico dello Stato per i boss, i carabinieri, Dell’Utri e Mannino. Concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro per Ciancimino jr e falsa testimonianza per Mancino.

lunedì 15 ottobre 2012

Stato-mafia, Napolitano: 'Insinuati sospetti su me, ora riformare la giustizia'.



Lettera di Napolitano a D'Ambrosio il 19 giugno: 'Sono io vero bersaglio, anche se colpiscono lei'.

SCANDICCI (FIRENZE)   - "Si è tentato di mescolare" la mia richiesta di conflitto di attribuzione con "il travagliato percorso delle indagini giudiziarie", "insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze da parte della Presidenza della Repubblica". Lo ha detto Giorgio Napolitano in un discorso sulla giustizia.

Bisogna "collegare" l'autonomia e l'indipendenza della magistratura a "imperiose necessità di riforma e rinnovata efficienza del sistema giustizia".

Il conflitto di attribuzione presso la Consulta è stata "una decisione obbligata per chi abbia giurato davanti al Parlamento di osservare lealmente la Costituzione". Napolitano ha sottolineato che la sua decisione è stata ispirata "a trasparenza e coerenza".

COLPISCONO LEI PER COLPIRE ME - "L'affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me". Così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitanosi rivolgeva al suo più stretto collaboratore, Loris D'Ambrosio, il 19 Giugno 2012. Era appena scoppiato il caso Mancino.

"Non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino". E' quanto aveva scritto a Napolitano il 18 giugno scorso il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio

"Le sue condotte sono state ineccepibili; e assolutamente obiettiva e puntuale è la sua denuncia dei comportamenti perversi e calunniosi - funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo - di quanti, magistrati giornalisti o politici, non esitano a prendere per bersaglio anche lei e me". Così continua nella lettera il presidente Napolitano. La lettera è pubblicata in un volumi di scritti del Presidente sulla giustizia.

"La rigorosa osservanza delle leggi, il più severo controllo di legalità, rappresentano un imperativo assoluto per la salute della Repubblica, e dobbiamo avere un massimo rispetto per la magistratura che è investita di questo compito essenziale", ha sottolineato il presidente della Repubblica. 

D'Ambrosio nella lettera al presidente Napolitano premette di essersi comportato con i magistrati "con lo stesso rispetto" che ha ispirato tutti i suoi comportamenti. Ma ha aggiunto che proprio la delicatezza delle indagini richiede "il ripudio di metodi investigativi non rigorosi, o almeno non sufficientemente rigorosi nella ricerca delle prove e nella loro verifica di affidabilità". Nella missiva a Napolitano datata 18 giugno 2012, e resa pubblica oggi a Scandicci a margine dell'inaugurazione della nuova Scuola per i magistrati alla presenza dello stesso capo dello Stato, si sottolineava anche la necessità "'dell'abiura di approcci disinvolti" da parte di alcuni magistrati, "non di rado più attenti agli effetti mediatici che alla finalità di giustizia".

Sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia in tanti sono d'accordo nell'affermare che esistono "gravi contrasti" tra le diverse Procure che stanno indagando. E' quanto scriveva Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, in una lettera al presidente Napolitano il 18 giugno 2012. Il consigliere, poi deceduto, citava a sostegno di questa tesi il procuratore generale della Cassazione, quello antimafia, il Csm e la Commissione parlamentare antimafia.

D'Ambrosio scriveva a Napolitano che era opinione diffusa che "le criticità ed i contrasti esistono e sono gravi, ma che a essi non si riesce a porre rimedio". "Mi ha turbato leggere nei resoconti di un'audizione all'Antimafia le dichiarazioni di chi ammette che - aggiungeva D'Ambrosio - della cosiddetta trattativa Stato-mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile. Come se fosse la stessa cosa - notava lo stretto collaboratore del Presidente - trattare lo stesso soggetto da imputato o da testimone o parte offesa, da fonte attendibile o da pericoloso e interessato depistatore".

 Ho sempre detto che "le criticità ed i contrasti" nei procedimenti sulle stragi "non giovano al buon andamento di indagini che imporrebbero, per la loro complessità, delicatezza e portata, strategie unitarie, convergenti e condivise oltre che il ripudio di metodi investigativi non rigorosi", sottolineava D'Ambrosio.

mercoledì 19 settembre 2012

Intercettazioni, Consulta dice sì ad ammissibilità ricorso Quirinale.


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La Corte Costituzionale esaminerà la questione nel merito nei prossimi mesi rispondendo al quesito se spettasse o meno ai pm omettere di distruggere le telefonate tra Mancino e Napolitano. Di Matteo: "Andiamo avanti, siamo convinti di avere agito nel rispetto della legge".

Come previsto ed era prevedibile. E’ arrivato il via libera all’ammissibilità del conflitto sollevato dal Quirinale contro i pm di Palermo sulle intercettazioni che coinvolgono il Capo dello Stato. Lo ha deciso la Corte Costituzionale che esaminerà la questione nel merito nei prossimi mesi. Le intercettazioni, disposte nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia, riguardano indirettamente Giorgio Napolitano, che parla al telefono con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Dodici le cause a ruolo oggi per la Corte: la penultima iscritta era quella che riguarda il Capo dello Stato. 
Oggi la Corte Costituzionale doveva decidere solo sull’ammissibilità, cioè doveva verificare se il ricorso aveva i requisiti oggettivi e soggettivi perché si possa passare, nelle prossime settimane, all’esame nel merito: i giudici, in questo primo vaglio, devono stabilire se Quirinale e Procura sono poteri dello Stato e se il conflitto è fondato. Due i giudici che hanno l’incarico di relatori: Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo, il primo eletto nel giugno 2005 su indicazione del centrosinistra, il secondo nell’ottobre 2008 su proposta del centrodestra.
L’esame nel merito della questione si svolgerà in tempi rapidi: la Corte, infatti, avrebbe l’intenzione di dirimere al più presto il nodo dell’intercettabilità del Capo dello Stato. Nel ricorso, firmato dagli avvocati dello Stato, Ignazio Francesco CaramazzaAntonio Palatiello e Gabriella Palmieri, si chiede alla Corte Costituzionale di sancire che “non spettava ai pm di Palermo omettere di distruggere le intercettazioni del Presidente”. Questo, sulla base di quanto previsto, in particolare, dall’articolo 90 della Costituzione, che stabilisce che “il Presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. Tesi che, secondo gli avvocati dello Stato, sarebbe confermata anche dall’articolo 7 della Legge 219/1989.
Le telefonate al Presidente sono state registrate intercettando le conversazioni telefoniche dell’ex ministro Mancino, la cui utenza era stata messa sotto controllo su mandato dei magistrati palermitani, e le registrazioni non sono state distrutte. Il Presidente della Repubblica, ritenendo lese le proprie prerogative garantite dall’articolo 90 della Costituzione, ha promosso un ricorso alla Consulta. La Procura di Palermo sostiene invece che per procedere alla distruzione delle intercettazioni è necessaria, in base al codice di procedura penale, un’apposita udienza, in contraddittorio, davanti al gip.
”Non siamo sorpresi. La valutazionedi ammissibilità è un passaggio processuale, serve a stabilire se ci sono i presupposti astratti del conflitto di attribuzione. Ma non ha nessuna incidenza su fondatezza dei contenuti, quindi sul ricorso” ha detto il procuratore di Palermo Francesco Messineo. “La questione – ha aggiunto – sarà adesso analizzata nel merito, sarà esaminata nei dettagli, ancora la vicenda è tutta da decidere. Vedremo cosa succederà nell’udienza che ha fissato la Corte. Lì si capirà davvero qual’è l’orientamento dei giudici”. Per Messineo “si tratta di una valutazione solo formale, se astrattamente sussistono i presupposti, non significa che dall’analisi della vicenda non possa emergere con chiarezza che il nostro operato è stato corretto”.
“Andiamo avanti nel nostro lavoro, nell’inchiesta e nel processo. Siamo convinti di avere agito nel pieno rispetto della legge in vigore” ha commentato il pm di Palermo Nino Di Matteo, uno dei magistrati del pool che si occupa dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia. I pm adesso dovranno stabilire se difendersi da soli, come pure è teoricamente possibile, o se nominare gli avvocati costituzionalisti, ammessi a patrocinare davanti alla Consulta, con i quali sono gia’ stati presi contatti nelle scorse settimane.

venerdì 14 settembre 2012

Trattativa, Violante ascoltato per 2 ore. Mancino spedì a lui una relazione Dia. - Giuseppe Pipitone


luciano violante interna nuova

Il parlamentare del Pd sentito dai pm di Palermo: nel 1993 era presidente della commissione antimafia. Quel rapporto ricevuto dall'ex ministro dell'Interno era "Riservato". Tra l'altro rivelava l'obiettivo della stagione stragista di Cosa Nostra: l'allenamento del carcere duro.

Era arrivato abbozzando un sorriso, ma dopo due ore d’interrogatorio davanti ai magistrati palermitani Luciano Violante era scuro in volto e ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione, defilandosi invece in mezzo alla pioggia. Il deputato del Partito Democratico era entrato nell’ala nuova del palazzo di giustizia di Palermo qualche minuto prima delle 16, atteso dal procuratore aggiunto Antonio Ingroiae dai sostituti Lia Sava e Antonino Di Matteo. I pm che indagano sulla trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra hanno voluto richiamare a Palermo l’ex presidente della Camera per capire meglio quanto fosse a conoscenza degli indirizzi tenuti dal Governo alla fine del 1993.
All’epoca Violante era presidente della commissione antimafia, e in questa veste aveva richiesto all’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino (oggi indagato per falsa testimonianza nell’ambito dell’indagine sulla trattativa) la trasmissione della relazione elaborata dagli analisti della Dia il 10 agosto del 1993 sulle stragi di via Palestro a Milano e di San Giovanni a Velabro a Roma. Relazione che Mancino gli trasmise prontamente il 14 settembre, accompagnandola con una nota in cui specificava come si trattasse di materiale “Riservato” su cui vigeva il regime della “vietata divulgazione”.
Quella relazione è una lucidissima analisi, elaborata quasi in presa diretta, sul reale obbiettivo perseguito da Cosa Nostra con le stragi del 1993: l’allentamento del carcere duro, il 41 bis introdotto nel giugno del 1992, che divenne quindi uno degli oggetti principali della trattativa. Gli analisti di Gianni De Gennaro (all’epoca ai vertici della Dia) scrivono infatti che “la perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
Gli estensori della nota vanno oltre: avvertono infatti che “l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’articolo 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Fatto che si verificherà fatidicamente meno di due mesi dopo, nel novembre del ’93, quando l’allora guardasigilli Giovanni Conso lasciò scadere più di trecento provvedimenti di carcere duro per detenuti mafiosi. Conso, che è indagato per false informazioni al pm, ha detto che compì quella scelta in “perfetta solitudine”. Il fatto che sia Violante che Mancino fossero a conoscenza di quella relazione ha però insospettito i pm che adesso vogliono capire quale fosse all’epoca il “clima politico” in relazione alle stragi e alla scelta di Conso di non rinnovare il 41 bis. Chi sapeva cosa?
È per questo che Violante è stato richiamato a Palermo, dopo che in passato era stato sentito soltanto in merito ai suoi contatti con il generale Mario Mori nel 1992. Il parlamentare del Pd, in quei mesi del 1993, appariva molto attento alle attività d’indagine sulle stragi. Un’attenzione particolare testimoniata anche da alcune lucide interviste televisive rilasciate all’epoca dall’ex presidente della Camera, che i pm hanno acquisito recentemente agli atti delle indagini. In seguito, però, Violante non denunciò mai pubblicamente il primo concreto cedimento dello Stato, rappresentato dalla mancata proroga dei 41 bis da parte di Conso. E in effetti fino ad oggi non aveva neanche mai fatto cenno a quella relazione della Dia, che rappresenta sicuramente un pezzo importante dell’intricato puzzle delle stragi.


giovedì 13 settembre 2012

VOCE DEL VERBO VIOLARE. - Marco Travaglio


Mancino, Violante, Cossiga

Premesso che il Fatto non ha mai chiesto le dimissioni del capo dello Stato, né fa parte di “blocchi” di “populismo giuridico” per “abbattere il Quirinale”, ma ha soltanto scritto che Napolitano ha sbagliato – venendo meno alla sua imparzialità – ad assecondare le pressioni di Mancino contro la Procura di Palermo e sarebbe ora che tutti lo ammettessero, segnaliamo all’opinione pubblica il caso di un uomo politico di centrosinistra che ha più volte tentato di abbattere il Quirinale.

Questo politico ha firmato un’interrogazione parlamentare al governo contro l’inquilino del Colle – peraltro irresponsabile per ogni suo atto, secondo la tesi dello stesso politico – a proposito di alcune esternazioni contro i magistrati, domandando “come il governo ritenga di conciliare queste affermazioni, se vere, con il tragico record che l’Italia ha, nel mondo occidentale, del più alto numero di magistrati uccisi, per fedeltà alla Repubblica, da terrorismo e mafia” (Ansa, 8 maggio).

Poi il politico ha chiesto al governo di “presentarsi alle Camere e di esprimere le proprie posizioni sulle questioni sollevate dal Presidente” sulla giustizia e di dire “quali iniziative ha adottato o intende adottare per favorire le indagini”, “rimuovendo ogni segreto” (Ansa, 16 maggio).

Inoltre il politico in questione ha definito “inaccettabili molte posizioni del Capo dello Stato”, “arrogante” perché “attacca i giudici e dice ‘dimentichiamo il passato’” (Ansa, 19 ottobre). 

Il politico ha poi minacciato: “Stiamo studiando se ci sono gli estremi per la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica per attentato alla Costituzione”, che ormai “dilaga con ottiche presidenziali di fatto” (Ansa, 23 novembre). 

Qualche giorno dopo, il nostro politico ha invitato “il Tribunale dei ministri a esaminare subito la posizione del capo dello Stato” e i pm a proseguire le indagini, perché “qualsiasi sospensione o blocco che derivasse dall’iniziativa del Presidente della Repubblica costituirebbe un nuovo arbitrio in una situazione istituzionale già assai gravemente deteriorata a causa dei comportamenti del Presidente” (Ansa, 28 novembre). 

Una settimana dopo il politico di cui sopra ha annunciato la richiesta del suo partito per la “messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica, che in sostanza si è comportato non come soggetto imparziale, ma come capo di un partito. Se vuole fare il capo di un partito, si dimetta da presidente e faccia come tutti gli altri. La nostra denuncia è già stata inviata al comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa. Se archivia subito, si pone il problema se raccogliere le firme per discutere a Camere riunite. Se invece si aprono le indagini, si porrà un problema di incompatibilità politica tra il presidente della Repubblica rappresentante dell’unità nazionale e il presidente della Repubblica imputato” (Ansa, 6 dicembre). 

In ogni caso il politico ha ribadito “la necessità che il Presidente lasci il Quirinale al più presto” perché “non può rappresentare degnamente le elevate funzioni di capo dello Stato chi si assume le funzioni dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio” (Ansa, 8 febbraio). 

Oltretutto, ha aggiunto, è “un ricattatore” e “un mentitore spudorato” (9 febbraio). 

Contro il capo dello Stato è intervenuta anche Magistratura democratica: “Al riparo della irresponsabilità assicuratagli dalla sua carica, il Presidente della Repubblica prosegue nell’ormai sistematica campagna di delegittimazione della magistratura e dei giudici. La risposta dei magistrati democratici dovrà essere come di consueto il massimo rigore nella propria attività unito al più fermo rispetto delle regole. I cittadini valuteranno chi difende le istituzioni e chi concorre a screditarle” (Ansa, 9 luglio). 

Il nostro politico è il participio presente del verbo Violare, il Presidente si chiamava Cossiga, le date dei dispacci Ansa si riferiscono agli anni 1991-'92.

Come passa il tempo.