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venerdì 22 febbraio 2019

Trapani, “finanziava famiglia di Messina Denaro”: arrestato re delle scommesse online. Indagato deputato regionale di Fi. - Marco Bova

Trapani, “finanziava famiglia di Messina Denaro”:  arrestato re delle scommesse online. Indagato deputato regionale di Fi

Mafia ed estorsione: arrestati il re delle scommesse online Luppino e altri due imprenditori. Hanno anche sostenuto la candidatura all'Ars di Stefano Pellegrino, sotto inchiesta per corruzione elettorale.

Centri scommesse per finanziare la latitanza di Matteo Messina Denaro, il capomafia originario di Castelvetrano(Trapani) ricercato dal 1993. Tre arresti e una decina di indagati tra cui un deputato regionale che siede nella Commissione antimafia regionale. Il meccanismo emerso nell’indagine dei carabinieri condotta dalla Dda di Palermo, dall’aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Gianluca De Leo e Francesca Dessì è rodato e sorge sulle ceneri dei business già consolidati. Dai rapporti con la politica fino alla gestione dei centri d’accoglienza per migranti. A partire dal principale arrestato, Calogero John Luppino, imprenditore di 39 anni divenuto bancomat della famiglia mafiosa di Castelvetrano dopo aver ricevuto il benestare per l’apertura dei centri di scommesse. Fondatore del movimento politico “Io Amo Campobello”, gestito assieme allo zio Mario Giorgi, anche lui arrestato dai carabinieri. In manette anche Francesco Catalanotto, di 47 anni originario di Castelvetrano cugino di Lorenzo Catalanotto e sodale di Luppino.

Il deputato regionale indagato è Stefano Pellegrino, politico originario di Marsala (Trapani) di 61 anni accusato di corruzione elettorale senza l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Pellegrino è un avvocato penalista e dal dicembre 2017 è stato eletto deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana con oltre 7mila preferenze e adesso siede nella Commissione regionale antimafia. Pellegrino secondo la Dda di Palermo avrebbe ricevuto il sostegno elettorale di Salvatore Giorgi, detto Mario, e Calogero John Luppino animatori del movimento politico “Io Amo Campobello” che alle ultime elezioni hanno sostenuto l’elezione dell’attuale sindaco Giuseppe Castiglione e quella del deputato regionale Stefano Pellegrino, originario di Marsala (Trapani). A Pellegrino, che ora sarà interrogato dai pm, viene proprio contestata l’elezione all’Ars, avvenuta – stando all’accusa – anche grazie ai voti di Luppino e Giorgi che a loro volta regalavano pacchi della spesa in cambio della preferenza elettorale.

“Nella compravendita dei voti commessa dal Giorgi era direttamente coinvolto il politico Pellegrino in prima persona”, così scrive il gip che aggiunge come in prossimità delle elezioni regionali Pellegrino incontrò Giorgi e Luppino. Dopo l’elezione i due erano “quelli di Campobello, che mi hanno aiutato” e che potranno avere una serie di incarichi in “tre, quattro enti”. “Tutti Pellegrino hanno votato”, diceva Luppino consapevole che anche Dario Messina (finito in galera l’anno scorso nell’operazione Anno Zero) aveva sostenuto Pellegrino. Ordine che, non escludono i carabinieri del Ros, potrebbe essere arrivato perfino da Franco Luppino, capo della mafia di Campobello di Mazara, che da anni si trova recluso in carcere.
Calogero “John” Luppino dal 2006 al 2011 invece è stato consigliere comunale con l’Udeur. Proprietario di alcune società nel settore delle scommesse online tra cui la “Non solo Vip”. Nel 2014 ottenne una concessione per un centro d’accoglienza e con l’associazione Menzil Salah ne aprì uno a Salaparuta (Trapani) per cinquanta persone in un immobile di proprietà del comune. Sequestrate anche società per il valore di 5 milioni, compresa una di trasporti che gestiva un pullman per far spostare i migranti ospitati in un centro d’accoglienza. Per il collaboratore di giustizia LorenzoCimarosa (morto nel gennaio 2018 per morte naturale) Luppino era “quello delle macchinette”, vicino a Raffaele Urso, adesso in carcere. “Rosario Allegra (cognato del boss, anche lui in galera ndr) li aveva autorizzati ad aprire”, disse Cimarosa. Luppino secondo i pm ha avuto “un’ascesa favorita dagli affiliati ai mandamenti mafiosi di Castelvetrano e Mazara del Vallo, che obbligavano i vari esercizi commerciali ad istallare le apparecchiature delle società di Luppino e Giorgi, a fronte di pesanti ritorsioni”. Rosario Allegra è stato intercettato parlava con Catalanotto di 5000 euro che gli dovevano essere consegnati da Luppino aggiungendo che “la posizione che ha lui però la deve capire…”.

Era Catalanotto a mediare i rapporti con Rosario Allegra, cognato del boss e tra i colonnelli della famiglia di Castelvetrano, arrestato nell’operazione Anno Zero e da allora in carcere . Di recente Catalanotto è stato arrestato dai carabinieri per aver messo su una piccola piantagione di marijuana e da allora viveva con il braccialetto elettronico. Di lui parlò Lorenzo Cimarosadescrivendolo come “uno che lavora nel settore delle slot machine”. Almeno dal 2013 è uno dei collaboratori più fidati di Luppino. In alcune intercettazioni Catalanotto viene indicato come il “picciotto” di Rosario Allegra e secondo l’accusa era lui a portargli somme di denaro che sarebbero finite direttamente nelle casse della latitanza del ricercato Matteo Messina Denaro.
La politica, con i privilegi che rappresenta, è un piatto troppo gustoso e ghiotto da tralasciare. E, naturalmente, diviene la meta ambita da chi ha posto il denaro in cima alla lista delle sue aspettative di vita.
La mafia è ovunque sussistano potere e denaro, pertanto, poiché gioco d'azzardo e politica li rappresentano entrambi, li ha attaccati e conquistati utilizzando personaggi di dubbio spessore morale, e dotati di intelletto inesistente, per poter espandere i suoi lunghi tentacoli.
Cetta

mercoledì 9 gennaio 2019

Terrorismo e immigrazione clandestina, 15 fermi in Sicilia. Il pentito: “Parlo per evitare esercito di kamikaze in Italia”

Terrorismo e immigrazione clandestina, 15 fermi in Sicilia. Il pentito: “Parlo per evitare esercito di kamikaze in Italia”

Indagine della Dda di Palermo, che ha disposto 15 provvedimenti di fermo per terrorismo, associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e ingresso illegale di migranti nel territorio nazionale. L'inchiesta partita dalle parole di un uomo in carcere a Genova. Il cassiere dell'organizzazione, che gestiva sbarchi su gommoni veloci in provincia di Trapani, incitava al jihad su Facebook.


“Vi sto raccontando quello che so perché voglio evitare che vi troviate un esercito di kamikaze in Italia”. È iniziata con queste parole di un pentito del Jihad, l’indagine della Dda di Palermo che ha portato al fermo di 14 persone nelle province di PalermoTrapaniCaltanissetta e una a Ome, nel Bresciano. Le accuse sono di istigazione a commettere delitti in materia di terrorismo, associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, ingresso illegale di migranti nel territorio nazionale ed esercizio abusivo di attività di intermediazione finanziaria.
“Minaccia concreta alla sicurezza nazionale” – Al centro dell’inchiesta, condotta dal Ros dei carabinieri coordinati dal procuratore aggiunto Marzia Sabella e dai sostituti Gery Ferrara e Claudia Ferrari, c’è la tratta di migranti dalla Tunisia a bordo di scafi veloci. Gli appartenenti all’organizzazione criminale avrebbero rappresentato “una attuale e concreta minaccia alla sicurezza nazionale“, secondo quanto scrivono gli stessi magistrati della Direzione distrettuale antimafia, guidati da Francesco Lo Voi, nel provvedimento di fermo.

Per i pm c’erano legami con jihadisti – Gli investigatori parlano di “rischio terrorismo di matrice jihadista” e a loro avviso “sussistono significativi ed univoci elementi” per ritenere che l’organizzazione sia attualmente pericolosa perché fornisce “a diversi clandestini un passaggio marittimo occulto, sicuro e celere che, proprio per queste caratteristiche, risulta particolarmente appetibile anche per quei soggetti ricercati dalle forze di sicurezza tunisine, in quanto gravati da precedenti penali o di polizia ovvero sospettati di connessioni con formazioni terroristiche di matrice confessionale”, dicono i magistrati.
La propaganda islamista di un fermato – Uno degli indagati, in particolare, risulta essere contiguo “ad ambienti terroristici a sfondo jihadista pro Isis in favore di cui, attraverso la sua pagina Facebook, ha posto in essere una significativa azione di propaganda jihadista con incitamento alla violenza ed all’odio razziale”. E un “ulteriore segno di radicalizzazione a sfondo religioso” è rappresentata, secondo gli inquirenti, dall’iscrizione dell’indagato al gruppo Facebook “Quelli al quale manca il paradiso”.
“Martirio unica via per il paradiso” – Sul profilo Facebook dell’indagato, sottolineano ancora i magistrati della Dda palermitana, sono state trovati video e foto che inneggiavano all’Isis e con immagini di decapitazioni e sui social scriveva: “Il martirio e la jihad la sola via per aspirare al paradiso”. L’uomo è ritenuto uno dei cassieri dell’organizzazione e i pm sospettano che abbia usato il denaro guadagnato coi viaggi nel Canale di Sicilia anche per finanziare attività terroristiche.
Le risorse investite in immobili e banche – Le risorse economiche, stando all’indagine, “venivano infatti in parte occultate in proprietà immobiliari e in altra parte depositate in banche tunisine su conti fittiziamente intestati a soggetti residenti in Tunisia, circostanza questa che, per quanto emerso grazie alle intercettazioni svolte, avrebbe suscitato l’attenzione del Battaglione Anti-Terrorismo Tunisino il quale starebbe svolgendo delle investigazioni volte ad accertare la finalità di sospette operazioni finanziarie” che vedrebbero coinvolto uno fermati.
Come nasce l’inchiesta – Tutto è iniziato grazie alla collaborazione di un detenuto nel carcere di Genova che ha raccontato agli inquirenti di essere a conoscenza dell’esistenza di una organizzazione criminale che gestiva un traffico di esseri umani, contrabbandava tabacchi e aiutava ad espatriare soggetti ricercati in Tunisia per reati legati al terrorismo. “Vi sto raccontando quello che so perché voglio evitare che vi troviate un esercito di kamikaze in Italia”, ha riferito. E a quel punto è scattata l’indagine conclusa con l’operazione di oggi.
Le intercettazioni – “…Sedici volte sono andato in Tunisia, sedici volte vado in Tunisia e torno…”. Così, senza sapere di essere intercettato, parlava uno degli indagati. Secondo quanto ricostruito dalla procura, il gruppo criminale organizzava traversate veloci dal Paese nord-africano in cambio di 2.500 euro a migrante. In un’intercettazione, l’indagato Aymen Fathali telefonava a Mohamed alias Hamma “con il quale affrontava, sin da subito, rilevanti questioni inerenti la possibilità di poter attivare una direttrice di transito Tunisia/San Vito lo Capo, evidenziando di essere solito ad effettuare simili traversate”, si legge nel provvedimento di fermo.
“Ieri c’è stato uno sbarco” – Il dialogo, scrivono i magistrati, “poneva altresì in evidenza che Mohamed alias Hamma voleva fare arrivare in Italia il fratello, circostanza questa che faceva rammaricare Aymen Fathali il quale evidenziava che avrebbe dovuto saperlo prima, atteso che proprio il giorno precedente c’era stato uno sbarco“. Nel dialogo, evidenziano gli inquirenti, “dopo che Aymen Fathali faceva cenno a dei soggetti che avrebbe potuto interessare per la specifica vicenda (definiti, con termine affaristico, broker), si registrava quindi la rassicurazione del fatto che il fratello di Mohamed, grazie a Aymen Fathali ed al suo circuito di riferimento, sarebbe giunto illegalmente in Italia”.

martedì 27 novembre 2018

Assenteismo, scoperti in Sicilia 42 “furbetti del cartellino”: 11 arresti. “Manipolavano il sistema delle presenze”.

Assenteismo, scoperti in Sicilia 42 “furbetti del cartellino”: 11 arresti. “Manipolavano il sistema delle presenze”

Dalle indagini della Procura di Palermo è emersa infatti, "una consolidata prassi di assenteismo ingiustificato realizzata attraverso un andirivieni di dipendenti pubblici che, in completa autonomia, gestivano i loro turni di servizio con presenze fittizie debitamente e furbescamente certificate".

Più di un dipendente su cinque truffava sulla presenza al lavoro negli uffici dell’assessorato regionale alla Salute a Palermo. Lo sostengono gli investigatori della guardia di finanza che hanno scoperto in Sicilia 42 “furbetti del cartellino”. Undici persone sono finite agli arresti domiciliari, altre undici hanno avuto notificato l’obbligo di firma e 20 invece, sono stati denunciati a piede libero e devono rispondere, a vario titolo, dei reati di truffa aggravata, accesso abusivo al sistema informatico e false attestazioni e certificazioni. Grazie a tre computer, infatti, alcuni impiegati riuscivano a segnare le presenze anche senza badge. Una opportunità utilizzata dai lavoratori infedeli per lasciare il luogo di lavoro senza perdere un euro di stipendio.
Dalle indagini della Procura di Palermo è emersa infatti, “una consolidata prassi di assenteismo ingiustificato realizzata attraverso un andirivieni di dipendenti pubblici che, in completa autonomia, gestivano i loro turni di servizio con presenze fittizie debitamente e furbescamente certificate”. Gli accertamenti svolti dalle Fiamme Gialle, attraverso pedinamenti riscontri sul territorio e tramite l’utilizzo di microspie hanno “consentito di smascherare il fenomeno di cd dipendenti fantasma, rilevando e censendo più di 400 ore fraudolentemente attestate ma in realtà mai rese“.
Molti di loro infatti, “seppur fittiziamente risultavano in servizio, erano soliti recarsi a lavoro con circa 3 ore di ritardo,occuparsi di faccende private quali per esempio la spesa o il parrucchiere e in taluni casi persino raggiungere località fuori Palermo”, dicono i finanzieri. Tra gli indagati c’è una coppia: lui accompagnava la figlia a scuola e l’andava a prendere all’uscita, lei timbrava il cartellino del marito. Le telecamere piazzate dai finanzieri hanno immortalato la convivente di un impiegato che si intrufolava in assessorato per timbrare la fine del turno di lavoro, mentre il suo compagno si trovava altrove.
“Quello che impressiona in questa indagine iniziata nel 2016 è il numero di impiegati finiti nell’inchiesta: 42 su 200 che con disinvoltura hanno segnato 400 ore mai rese. L’indagine è iniziata dopo una segnalazione molto circostanziata fatta al 117 sull’assenza costante di alcuni dipendenti. Poi le indagini sono riuscite a ricostruire il fenomeno e le modalità con le quali i dipendenti riuscivano, grazie ad una rete di complicità, a garantire la presenza mentre si trovavano fuori per sbrigare faccende private”, spiega il comandante del gruppo di Palermo della Gdf, Alessandro Coscarelli.
L’assessore Ruggero Razza ha fatto sapere che “l’assessorato della Salute si costituirà parte civile nel procedimento e se dovessero ricorrere i presupposti avvierà le procedure di licenziamento per i dipendenti infedeli“. “Potrei dire – ha aggiunto Razza – che tra i primi atti al nostro insediamento c’è stata la direttiva sul controllo delle presenze e che i fatti per i quali si procede sono antecedenti all’insediamento di questo governo, la verità, però, è che fa rabbia pensare che dipendenti pubblici non siano presenti alle loro responsabilità. Sono sicuro che i magistrati andranno in fondo per scoperchiare del tutto questa vergogna”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 27 nov. 2018

giovedì 2 ottobre 2014

Trattativa, Napolitano deporrà il 28 ottobre. Il boss Riina chiede di assistere.

Giorgio Napolitano

Alla scorsa udienza la corte d’Assise, respingendo le richieste dei difensori di alcuni imputati che avevano chiesto la revoca dell’ordinanza che ammetteva la deposizione dell'inquilino del Quirinale, aveva ribadito la necessità della testimonianza.
Una settimana fa i giudici di Palermo erano stati categorici decidendo che il capo dello Stato doveva testimoniare al processo sulla trattativa Stato-mafia. Oggi è stata fissata la data della deposizione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che dovrà rispondere alle domande delle parti il prossimo 28 ottobre.
Alla scorsa udienza la corte d’Assise, respingendo le richieste dei difensori di alcuni imputati che avevano chiesto la revoca dell’ordinanza che ammetteva la deposizione dell’inquilino del Quirinale, aveva ribadito la necessità della testimonianza. Secondo la corte, infatti, la lettera con cui Napolitano faceva presente di non avere circostante da riferire su quanto sollecitato dalla procura non rende, comunque, inutile la deposizione.
Intanto i capimafia Totò Riina e Leoluca Bagarella, intervenendo in videoconferenza, hanno espresso la volontà di partecipare, sempre in video-collegamento, all’udienza del 28 ottobre, fissata, al Quirinale. L’Avvocatura dello Stato si è opposta e la corte si è riservata di decidere. Pur annunciando la riserva sulla decisione, vista la richiesta esplicita degli imputati, la corte ha fatto notare di essersi già pronunciata sul punto. Alla scorsa udienza, infatti, i giudici hanno stabilito che alla deposizione, al Quirinale, del capo dello Stato parteciperanno, oltre al collegio, solo i magistrati dell’accusa e i difensori, escludendo, così, la presenza degli imputati. La deposizione del capo dello Stato è regolata dall’articolo 502 del codice di procedura penale, che al secondo comma dice chiaramente: “L’esame si svolge con le forme previste dagli articoli precedenti, esclusa la presenza del pubblico. L’imputato e le altre parti private sono rappresentati dai rispettivi difensori. Il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame”. 
I pm avevano chiesto di sentire Napolitaano come teste in relazione alla lettera scritta da Loris D’Ambrosio e indirizzata proprio al capo dello Stato. Il 18 giugno del 2012, poco dopo la chiusura delle indagini sulla Trattativa e il deposito delle intercettazioni tra Nicola Mancino (oggi imputato per falsa testimonianza) e lo stesso consulente giuridico del Colle, infatti, D’Ambrosio prese carta e penna per esporre al presidente i suoi dubbi sulle possibilità di essere stato “utile scriba di indicibili accordi” tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, ai tempi in cui lavorava all’Alto Commissariato Antimafia. Il capo dello Stato aveva inviato una lettera i giudici in cui spiegava di non aver nulla di utile da riferire sulla questione.
I pm invece chiederanno al teste particolari ulteriori su quella singolare condizione di apprensione manifestata da D’Ambrosio, che nel frattempo è deceduto. Napolitano, però, dopo aver già sollevato nel luglio 2012 il conflitto d’attribuzione davanti la Consulta contro la procura, ottenendo la distruzione delle quattro intercettazioni in cui colloquiava con Mancino, nell’ottobre scorso manifestò alla corte di non avere “nulla da riferire” su quella missiva ricevuta da D’Ambrosio, chiedendo ai giudici di “valutare nel corso del dibattimento, il reale contributo che le mie dichiarazioni, sulle circostanze in relazione alle quali è stata ammessa la testimonianza, potrebbero effettivamente arrecare all’accertamento processuale in corso”. 
In pratica il Colle chiedeva di cancellare la deposizione chiesta dai pm e già accordata dai giudici. La medesima richiesta era arrivata in aula, durante il dibattimento, sia dall’Avvocatura dello Stato che dai legali di Marcello Dell’Utri: è per questo che il 17 novembre 2013 il presidente della corte Montalto annunciava la decisione di riservarsi sulla possibile testimonianza di Napolitano. Riserva che ha sciolto un anno dopo: Napolitano deve essere sentito dato che “non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia, in ipotesi anche e persino, in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi”.

giovedì 21 marzo 2013

Trattativa, pg Cassazione: “Azione disciplinare contro i pm di Palermo”.


Trattativa, pg Cassazione: “Azione disciplinare contro i pm di Palermo”


Il procuratore generale della Cassazione ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del pm di Palermo Nino Di Matteo e, per una violazione minore, del procuratore del capoluogo Francesco Messineo. A Di Matteo si contesta l’avere “ammesso l’esistenza delle telefonate tra l’ex ministro dell’Interno Mancino e il capo dello Stato”.

Si aggiunge un nuovo capitolo alla vicenda trattativa Stato-mafia. Non è penale, ma di assoluto rilievo. Il procuratore generale della Cassazione ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del pm di Palermo Nino Di Matteo e, per una violazione minore, del procuratore del capoluogo Francesco Messineo. A Di Matteo si contesta l’avere “ammesso l’esistenza delle telefonate tra l’exministro dell’Interno Mancino e il capo dello Stato”. 
Nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, per cui nei giorni scorsi  il giudice per l’udienza preliminare di Palermo ha rinviato tutti gli imputati a giudizio, era emersa l’esistenza di conversazione tra l’ex presidente del Senato Mancino (all’epoca indagato, ndr) e Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica aveva sollevato un conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo – che ha sempre considerato quelle telefonate prive di rilievo. La Corte Costituzionale aveva quindi stabilito che il capo dello Stato, in quanto “supremo garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato”, non è mai intercettabile. Per questo i giudici aveva disposto la distruzione dei “nastri”.Che è stata disposta poco più di un mese fa dal gipLe conversazioni non sono state distrutte perché è stato presentato ricorso da parte degli avvocati di Massimo Ciancimino in Cassazione.
Nel provvedimento, notificato ai due magistrati tramite la Procura generale della Corte d’appello di Palermo, si contesta a Di Matteo, tra i titolari dell’ indagine sulla trattativa Stato-mafia, di “avere mancato ai doveri di diligenza e riserbo” in un’intervista rilasciata nel giugno scorso in cui il pm aveva “ammesso seppure non espressamente l’esistenza delle telefonate tra Mancino e Napolitano”. Secondo il pg in questo modo il magistrato avrebbe “indebitamente leso il diritto di riservatezza del capo dello Stato” riconosciuto dalla sentenza della Corte costituzionale che ha accolto il ricorso del Quirinale sul conflitto di attribuzioni con la procura di Palermo. Al procuratore, invece, si contesta di non avere segnalato le violazioni commesse da Di Matteo ai titolari dell’azione disciplinare.
La Consulta aveva stabilito che “non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente”.
Per i magistrati della Corte Costituzionale “alla luce della normativa costituzionale e ordinaria… la posizione del Presidente della Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo infatti può essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario” e in questo senso la Procura di Palermo avrebbe “fatto un uso non corretto dei propri poteri” non distruggendo immediatamente le conversazioni. I giudici osservavano che il presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”.
La vicenda intercettazioni va avanti ormai da oltre un anno. Le telefonate risalgono infatti a fine 2011, ma la storia è divenuta pubblica solo nel giugno 2012. L’utenza messa sotto controllo su mandato degli inquirenti – vale la pena ricordarlo – era quella di Mancino, in quella fase indagato e oggi imputato di falsa testimonianza: secondo i pm, l’ex ministro, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e pezzi diCosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90. Mancino, preoccupato per l’inchiesta che lo riguardava, ha fatto diverse diverse telefonate contattando anche lo stesso Napolitano. Ma per chiudere la vicenda servirà ora anche il via libera definitivo della Suprema Corte. 

giovedì 6 dicembre 2012

Stato-mafia, la Procura: "Tratteniamo le intercettazioni del Quirinale".




Palazzo di giustizia di Palermo
La Procura di Palermo sta valutando l’esecutività del provvedimento con cui la Corte costituzionale ha sostanzialmente imposto la distruzione delle conversazioni telefoniche, intercettate casualmente, fra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Lo ha reso noto il capo della Procura del capoluogo siciliano, Francesco Messineo, dopo che stamattina il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Roberto Tartaglia hanno studiato il caso. Sono stati consultati anche alcuni costituzionalisti.
Due le ipotesi: la prima è quella di attendere le motivazioni della decisione della Consulta, che arriveranno a gennaio, dunque tenendo tutto fermo per un mese ancora. La seconda si basar sul comunicato in cui la stessa Corte ha sintetizzato i contenuti della sentenza. “Il comunicato – obiettano pero’ i componenti del pool – non ha valore giuridico, né efficacia vincolante”.
Messineo però resta cauto: “Se dovessimo accertare che questa nota è immediatamente esecutiva, dovremmo attivare la procedura subito e mandare tutto al gip. Il problema è squisitamente giuridico”.
Le intercettazioni però, allo stato attuale, non sono state distrutte e si trovano ancora in Procura. Una volta che passeranno al Gip, sarà quest’ultimo a decidere.
Non pochi dubbi e perplessità su una situazione che non ha eguali e su cui, come dice Messineo, “stiamo cercando, se ce ne sono, eventuali precedenti”.
Costituzionalmente ragionando è possibile ignorare la decisione della Consulta poichè la Magistratura è un organo di Governo istituzionale indipendente. Resta solo da stabilire se la Consulta ha potere decisionale sulla Magistratura, cosa che mi sembra improbabile.
Art. 101. della Costituzione
La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
cetta.

mercoledì 5 dicembre 2012

Trattativa, la Consulta accoglie ricorso del Quirinale. “Distruggere le intercettazioni”


Trattativa, la Consulta accoglie ricorso del Quirinale. “Distruggere le intercettazioni”

La Consulta dà torto alla Procura di Palermo sulle telefonate del senatore Nicola Mancino al Colle, registrate nell'inchiesta sui patti fra Stato e Cosa nostra all'epoca delle stragi del 1992-1993. Accolta la tesi dell'inviolabilità assoluta del Colle. La tesi del legale dei pm: "E se progettasse un golpe?". Di Matteo: "Abbiamo sempre rispettato la legge".

La Corte costituzionale ha accolto il ricorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo, sollevato riguardo alle intercettazioni telefoniche a carico del senatore Nicola Mancino, che si era rivolto al Colle per discutere dell’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia all’epoca delle stragi del 1992-1993.  La corte ha quindi accolto il principio dell’inviolabilità della riservatezza del capo dello Stato, anche nel caso in cui le intercettazioni riguardino un soggetto terzo che entra in contatto con il Quirinale. Le intercettazioni dovranno quindi essere distrutte.
“Non spettava” alla Procura di Palermo, secondo la Consulta, “valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica” captate nell’ambito dell’inchiesta. I pm di Palermo, di conseguenza, non potevano “omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione” di tali intercettazioni, “ai sensi dell’articolo 271, terzo comma, cpp e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti”.
Per conoscere nel dettaglio la decisione assunta dalla Consulta dopo oltre 4 ore di Camera di Consiglio bisognerà attendere il deposito della sentenza, e quindi le motivazioni, che avverrà nelle prossime settimane, presumibilmente a gennaio. I giudizi costituzionali hanno accolto le tesi del Quirinale: ”La Procura di Palermo ha trattato queste come normali intercettazioni, non ha tenuto presente il fatto che siano intercettazioni illegittime“, ha spiegato l’avvocato generale dello Stato Giuseppe Di Pace.  Così facendo si è “prodotto un vulnus nella riservatezza del Presidente”, ha aggiunto la collega Gabriella Palmieri, perché la Procura di Palermo, ipotizzando un’udienza stralcio di fronte al Gip per chiedere la distruzione delle intercettazioni, ha esposto quelle conversazioni del Capo dello Stato alla valutazione dei pm. E ancor più al rischio che una volta messe a disposizioni delle parti per eventuali usi processuali, potessero diventare pubbliche.
Bocciate invece la tesi della Procura di Palermo, riassunte dall’avvocato Alessandro Pace, che ha cercato di dimostrare come il ricorso del Quirinale potesse avere effetti paradossali. Innanzitutto, ha argomentato Pace, “un fatto fortuito“, come imbattersi nel presidente della Repubblica intercettando una terza persona, “non può essere oggetto di divieto. E’ mai possibile vietare di scivolare accidentalmente su una strada ghiacciata?”. Nella parte finale del suo intervento, Pace si è chiesto che cosa dovrebbero fare i pm se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un colpo di Stato. Distruggere i file? E se questo “surplus di garanzie” valesse anche per ministri e premier, i magistrati non potrebbero più intercettare nessun sospettato che avesse contatti con loro? Una via “lineare” di soluzione, ha suggerito il legale dei pm di Palermo, “potrebbe essere la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio” sul contenuto delle telefonate intercettate.
Ma la Consulta ha indicato una strada del tutto diversa: quella prevista dall’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate. Quell’articolo afferma che il giudice può in ogni grado del processo disporre la distruzione delle registrazioni che coinvolgano soggetti non intercettabili in funzione del loro ruolo: il difensore, il confessore, il medico. A maggior ragione deve valere per il Presidente, ha sostenuto l’Avvocatura e ha confermato la Consulta. Perché quella strada prevede che “il giudice decida senza contraddittorio”, hanno spiegato gli avvocati dello Stato, e senza rischio che i contenuti delle conversazioni siano divulgati. 
Un duro colpo per i magistrati di Palermo impegnati nella delicata inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, che vede imputati 12 persone tra politici, mafiosi e uomini delle forze dell’ordine. “Non credo che si debbano fare commenti allo stato”, afferma  il procuratore di Palermo Francesco Messineo, ”aspettiamo di leggere il provvedimento”. Interviene anche il pm Nino Di Matteo, uno dei titolari dell’inchiesta sulla trattativa coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia: “Vado avanti nel mio lavoro tranquillo, nella coscienza di avere agito correttamente e ritenendo di avere sempre rispettato la legge e la Costituzione”. Ingroia, attualmente in Guatemala per un incarico internazionale, si era detto sorpreso dell’iniziativa del capo dello Stato.
Nessuna reazione ufficiale al momento dal presidente Napolitano, ma le indiscrezioni fatte filtrare parlano di una naturale “soddisfazione” dopo un’attesa “serena”.  Quella di ricorrere alla suprema corte è stata sin dall’inizio “una decisione obbligata”, ha spiegato più volte Napolitano, perchè “né io né d’Ambrosio (il consigliere giuridico a cui si è rivolto Mancino, ndr) abbiamo mai interferito” con le indagini della procura di Palermo.
Secondo l’accusa, Mancino – che si insediò al Viminale a inizio luglio 1992 – avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90, durante la stagione delle stragi. Oggi Mancino è accusato di falsa testimonianza. Nel periodo che ha preceduto l’avvio del procedimento a Palermo che lo vede con altri imputato, ci sono stati contatti tra lui e il Colle, in particolare telefonate con Loris D’Ambrosio, il consulente giuridico del Quirinale morto il 26 giugno, e in alcune occasioni, con lo stesso Napolitano.
Queste ultime conversazioni sono state in tutto quattro, come si è saputo dagli atti depositati per conto della Procura di Palermo su richiesta della Corte Costituzionale durante l’iter del conflitto tra poteri: in due casi a chiamare è stato Mancino, per altro alla vigilia di Natale 2011 e, pochi giorni dopo, il 31 dicembre; in altre due occasioni, a telefonare è stato il Presidente. Il contenuto delle conversazioni non è noto, ma la notizia dei colloqui tra i due è finita sui giornali e ha suscitato il caso che ha portato alla decisione del Quirinale di chiamare in causa la Consulta.

sabato 13 ottobre 2012

Romanzo Quirinale, the end. - Marco Travaglio.


Finalmente, dopo tre mesi di sanguinose accuse fondate sul nulla, anzi sul falso, la Procura di Palermo può difendersi alla Corte Costituzionale dal conflitto di attribuzioni scatenato dal presidente Napolitano.
La questione, come i nostri lettori ben sanno, nasce dalle telefonate (quattro, si apprende ora) fra il capo dello Stato e Nicola Mancino, indirettamente e casualmente intercettate sui telefoni di quest’ultimo, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Secondo il Quirinale, incredibilmente spalleggiato dall’Avvocatura dello Stato, la Procura avrebbe dovuto procedere all’“immediata distruzione delle intercettazioni casuali del Presidente” perché The Voice è inintercettabile e financo inascoltabile. La Procura non le ha fatte trascrivere né utilizzate, giudicandole penalmente irrilevanti, e si è riservata di chiederne la distruzione al gip secondo la legge: cioè in udienza alla presenza degli avvocati dei 12 imputati che possono ascoltarle ed eventualmente chiedere di usarle per esercitare i diritti di difesa. La cosa ha fatto saltare la mosca al naso a Napolitano e ai suoi cattivi consiglieri, terrorizzati dal rischio che un avvocato, dopo averle ascoltate, ne divulgasse il contenuto. Che, per motivi misteriosi (almeno per noi cittadini), deve restare un segreto di Stato. Di qui il conflitto con cui Napolitano, tramite l’Avvocatura, chiede alla Consulta di censurare i pm di Palermo per un delitto da colpo di Stato: “lesione” e “menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” perpetrata sia con “la valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione”, sia con “la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento”, sia con “l’intento di attivare una procedura camerale” regolata dal contraddittorio tra le parti.
A lume di Codice, ma soprattutto di logica e di buonsenso, abbiamo più volte scritto che la pretesa del Colle è insensata. Ora l’insensatezza è autorevolmente confermata dalla memoria della Procura, firmata dall’ex presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani Alessandro Pace e dagli avvocati Serges e Serio. I quali, prim’ancora di avventurarsi nell’interpretazione delle presunte prerogative del Presidente, dimostrano come il Quirinale e l’Avvocatura abbiano sbagliato indirizzo: ammesso e non concesso che le telefonate andassero distrutte subito, non poteva farlo la Procura, visto che quel potere è affidato in esclusiva al giudice. Cioè: eventualmente il conflitto andava sollevato contro il gip. Non solo: se, come ammette la stessa Avvocatura per conto del Colle, le intercettazioni furono “casuali” quindi involontarie, come si può sostenere che erano “vietate”? S’è mai vista una norma che vieta qualcosa di involontario e casuale? Per questi due motivi preliminari il conflitto è “inammissibile”, con buona pace della Consulta che s’è affrettata a dichiararlo ammissibile.
Poi è anche infondato, per diversi motivi di merito. Intanto i pm dovevano valutare quel che diceva Mancino, a meno di regalargli un’”immunità contagiosa” derivante dal fatto che parlava con Napolitano. E poi nessuna norma costituzionale né procedurale ha mai stabilito la non intercettabilità indiretta (e nemmeno, in via assoluta, quella diretta) del capo dello Stato. Che non è un monarca assoluto, infatti è immune solo nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque la prerogativa invocata dal Colle non esiste. Ergo i pm non hanno leso alcunché. Anzi avrebbero violato il principio costituzionale del contraddittorio e i diritti delle difese se avessero obbedito al Colle. A questo siamo: a un presidente della Repubblica (e del Csm) che istiga la magistratura a violare la legge e la Costituzione. A sua insaputa, si capisce.
Il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2012

venerdì 12 ottobre 2012

Trattativa, i pm depositano memoria difensiva: “Immunità è solo per il re”.


Trattativa, i pm depositano memoria difensiva: “Immunità è solo per il re”


La procura di Palermo deposita la costituzione in giudizio di fronte alla Consulta per il conflitto di attribuzione sollevato dal presidente della Repubblica. Dagli atti emerge che le telefonate - quattro in tutto su 9295 telefonate di Mancino captate - non sono mai state trascritte nei brogliacci della polizia giudiziaria. "L'immunità assoluta contraddice i principi democratico-costituzionali".

Se immune da ogni responsabilità il Capo dello Stato diventa un sovrano. E’ questa la tesi sostenuta dalla procura di Palermo nel costituzione in giudizio presentata questa mattina di fronte ai giudici della Consulta nel conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato. “Un’immunità assoluta” – si legge nel testo – può essere ipotizzata per il Capo dello Stato “solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irreponsabilità giuridica anche per i reati extrafunzionali”. E una tale “irresponsabilità finirebbe per coincidere con la qualifica di ‘inviolabile’ che caratterizza il Sovrano nelle monarchie ancorché limitate”. 
Come effetto, scrivono i magistrati di Palermo, una “vistosa serie di gravi conseguenze” potrebbe derivare da una “eventuale decisione di accoglimento” del ricorso del Quirinale. “Ci si deve chiedere – prosegue il testo – se una garanzia dell’immunità presidenziale – si legge nel documento firmato dai professori Pace, Serges e Serio – così irrazionalmente dilatata al di là dei limiti segnati per le intercettazioni legittime” da altre sentenze della Corte (n.390/2007; n.113 e n.114 del 2010) “non finisca per costituire una violazione dell’obbligatorietà dell’azione penale” (articolo 112 Costituzione) e “ciò per motivi privi di fondamento in Costituzione ed anzi contrari alla giurisprudenza di codesta Corte e tutt’affatto irrazionali”. 
Intanto, sempre leggendo la memoria della procura di Palermo – un documento di 32 pagine - si scopre che sono quattro le telefonate intercettate tra Nicola Mancino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quattro su un totale di 9.295 conversazioni captate sulle utenze dell’ex ministro dell’Interno. 
E’ stata la stessa Corte Costituzionale, nell’ordinanza con cui ha ammesso il ricorso di Napolitano, a richiedere alla Procura di Palermo quante siano state le conversazioni di Napolitano indirettamente captate e in che date sono avvenute. Gli atti depositati dalla Procura di Palermo riferiscono che le telefonate effettuate da Mancino sono state registrate in un arco di tempo che complessivamente va dal 7 novembre 2011 al 9 maggio 2012: sei le utenze messe sotto controllo. Le quattro telefonate al Capo dello Stato, indirettamente intercettate, sono state effettuate da Mancino nelle seguenti date: il 24 dicembre 2011 alle ore 9.40 (durata 3 minuti): il 31 dicembre 2011 alle ore 8.48 (durata 6 minuti); il 13 gennaio 2012 alle ore 12.52 (durata 4 minuti); il 6 febbraio 2012 alle ore 11.12 (durata 5 minuti).
Scrivono i pm nella costituzione in giudizio che “l’intercettazione della conversazione del Presidente della Repubblica che sia occasionale, del tutto involontaria, non evitabile e non prevenibile, non può per la ragione di tali caratteristiche, integrare in sè alcuna lesione di prerogative previdenziali quali che sia il contenuto della conversazione”.
Aggiungono inoltre i magistrati che Il verbale della polizia giudiziaria relativo alle intercettazioni indirette del Capo dello Stato è stato redatto “senza l’indicazione del contenuto della conversazione”. Era stata la stessa Corte Costituzionale a chiedere il verbale, il cosiddetto “brogliaccio”, delle intercettazioni. Si legge nella memoria che non è stato effettuato, “anche su disposizione della Procura della Repubblica di Palermo, alcuna trascrizione delle conversazioni tra il sen. Mancino e il Presidente della Repubblica le cui registrazioni sono tuttora custodite dalla Procura della Repubblica nell’ambito del procedimento 11609/08 nel quale sono state disposte ed eseguite. Deve quindi essere sottolineato – si legge ancora negli atti depositati oggi in Corte Costituzionale – che le conversazioni con il Presidente della Repubblica non hanno mai formato oggetto di deposito che determinasse la possibilità della conoscenza ad opera di qualsivoglia parte processuale”.